"La poesia di Angelo Abbate: nell'ombra la luce" di Federico Guastella

“ L’anima mi parlò, dicendomi: “Il mio è un sentiero di luce”

                                                                      Jung, “Il libro rosso”

 

Nella raccolta poetica, che ha per titolo “Nel buio ricami di luce” (Edizioni Thule, Palermo, 2019) con copertina e disegni interni del maestro Carlo Puleo (il pittore di villa Palagonia a Bagheria), l’esperienza di Angelo Abbate si svolge sotto il segno di un intimismo entro una dimensione relazionale. Sono in tutto 41 componimenti limpidissimi versi il cui ritmo, talvolta disteso e talora reso con veemenza, muove dall’inquietudine per andare verso la relazione dell’uomo con il mondo. Partono sì dal soggetto le sue poesie ma l’oltrepassano per intravedere orizzonti di speranza. Potrei dire che la sua ricerca è di quel filo d’Arianna che fa uscire dal labirinto dove il minotauro si ciba di esistenze umane. Difatti, fin dal primo componimento che intitola la silloge, al disincanto causato dalla negatività degli eventi che provocano vuoto e solitudine, non corrisponde una poesia disincantata. La parola, che sembra celebrare la fine della storia nei suoi fallimenti e in una devastante durata (“I bambini siriani”, “la voce di Malala”, “La foto di Amal”), si rigenera un nuovo modo di sentire con il risultato di una trascendenza del dato presente. Basti rileggere i versi che fanno da epilogo per rendersene conto: vi prevalgono i lessemi “sogno”, ”pace”, “speranza”, “luce” per dare voce a sentimenti condivisi. Il desiderio dell’io poetico di contenere il dolore sociale e di ritrovarsi in un eden protetto dalla riappacificazione può essere inteso come << arte dello spazio>> in quanto elaborazione di un luogo altro: straniato, riconnettivo pressochè onirico come nella poesia “ Assorti pensieri “, in cui luoghi metaforici alternativi al possibile naufragio oppongono protezione ed evocano una condizione di interezza e di radicamento. Il rimedio è dato dalla ricomposizione da parte del soggetto, il cui ruolo è quello di artefice: “ Nel rifugio del silenzio/stringo i lacci al frastuono/con le dita sfioro rigurgiti di speranza/nella solitudine dell’attesa/per scorgere un po d’azzurro/nel cielo dei miei giorni”. La storia è prossima, non è distanziata e tocca la sfera del soggetto, e si fa mare dove il pericolo è in agguato per gli esuli delle carrette. E’ un motivo ricorrente l’esodo delle etnie e all’io poetico non sono estranee le condizioni di un viaggio come approdo nel miraggio: “A piedi nudi sui grandi barconi/in un sacco di plastica i loro averi/ annodano speranze nel respiro di un’illusione”. E’ il mare dell’oblio la sconfitta resa da un crudo linguaggio dove coagulano le angosce. Ma l’universo poetico di Abbate, capovolgendo le gravi premesse, si muta in fioritura a seguito del ritorno di Persefone. Il suo problema è di risolvere il pessimismo della ragione nell’ottimismo di visioni altre: ” Nel mare della vita dissetati/soavi melodie intona in spartiti d’amore/soffoca l’urlo del terrore/ che stridula rancidi e tenebrosi canti di morte”. Quanto dalle liriche viene così ad emergere è l’intento di frantumare la pesantezza del reale. Certamente il poeta insistentemente sente il rovello del dolore quando per esempio lo sguardo si posa alla sorte dei bambini: da quelli diversamente abili agli altri di altri territori martoriati dalla guerra. Così nel testo “ Il cielo di Aleppo “ pare di toccare con mano la tragicità ferina. L’intimismo non ignora il corso della storia; anzi, Abbate si assume il peso delle ragioni collettive. E ad ogni modo, pur utilizzando la sintassi della notte oscura, non si arrende alla tristezza d’una discesa agli inferi. Come reazione alla ragnatela dell’ego, della vanità e dall’indifferenza nutrita dall’avere anzichè dall’essere, la parola poetica consiste allora nella possibilità di cogliere la luce dei sensi. E Abbate li “ri-genera” ravvivandoli con la sua duttile esperienza visiva. Ci si potrebbe riferire alla “Luce” che, come simbolo di rinascita, sembra inondare lo spazio a ridosso di zone d’ombra. Per dolorosi e amari che possano essere gli inganni e le menzogne della storia, il potere organizza così un accorato percorso  contrappuntistico tra il reale e l’immaginario che, senza mai scadere nel lirismo libera note incorporee: allora i volti si illuminano e i gesti danno luogo a girotondi d’amore. Siamo nella luce di un rapporto amorevole e amoroso, di un incontro del carezzevole tepore del sole, degli affetti familiari, della polifonia della natura, della percezione dell’eterno “ove il tempo muore”. Siamo nella genuina luminosa dolcezza dei ricordi che affiorano in uno spazio sacro, luogo di comunicazione dei vivi coi morti come nello struggente evocativo componimento “Il viaggio alla Madonna della Milicia” che fa da contenimento al dolore dell’assenza. Anche nello spazio profano si coglie il brulichio della vita. Il tripudio di voci, di colori, di sapori è avvertibile nell’ariosità della “Vucciria”, i cui dettagli sono fissati in una relazione di intimità con le cose che sfida il rapace scorrere del tempo verso l’oblio. E nell’adulta poetica della luce non si può non scorgere il recupero del senso genuino del Natale, che è il volto del bambinello il cui giaciglio improvvisato “è là sul ponte/ di una nave che non trova approdo”. Ecco che la luminosità di questi sublimi sentimenti si intreccia con la poesia intesa come “ riappropriazione “ del proprio tempo interno ed esterno: non c’è retorica ed è assente ogni sorta di mascheramento quando il poeta quasi leopardianamente estende il proprio io tra cielo e mare come a volere ampliare la sua visione: il microcosmo si fa macrocosmo per un’avventura di conoscenza più completa della sorte del pianeta-terra. Quella di Abbate , in conclusione, è una poesia che narra l’irrazionale del mondo nella catena di orrore e di violenza e di cui il lettore fino in fondo è coinvolto, ma il respiro vitale è ben altro. I suoi componimenti, che fanno pensare a un torrentello in piena, offrono un che di riflessione alla nostra essenza di vita, aperta alla contemplazione. E’ qui che dalla cronaca sboccia la poesia: nel superamento del limite, nella sublimazione dell’irrazionale attraverso la via del desiderio che conduce a nuove primavere di luce.                

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