"La soaltà e la poetica immaginale di Guglielmo Peralta" di Giorgio Linguaglossa
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- Category: Scritture
- Creato: 13 Settembre 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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Guglielmo Peralta è un cavaliere dell'Apocalisse dei nostri giorni. Vola con le parole di Adorno secondo il quale «la poesia è magia liberata dalla necessità di essere verità». A cavallo del suo Ippogrifo viaggia tra le stelle della sua «soaltà», ma è anche un giocatore di scacchi che muove le sue pedine con l'occhio onniveggente dell'«esterienza», che intravede le migliaia di combinazioni di tutte le mosse possibili e di quelle dell'avversario, che riesce ad immaginare le combinazioni più impensabili, che immagina il nulla dell'infinito e la molteplicità del finito, un' arte priva di opere e un' opera d'arte priva di «reale». Come il grande giocatore di scacchi è un veggente, Peralta vede con la mente uno spazio infinito, una prateria illimitata: la «soaltà», i suoi sedici pezzi neri avanzano trionfalmente e si ritirano in rigida linea verticale a contatto con i sedici pezzi bianchi di un avversario immaginale in una sfida che ha del vertiginoso. Il possibile sfida l'impossibile, l'impensato aggira il pensiero più audace. A volte, ho l'impressione che Peralta sia intento ad una scherma con i suoi mitologemi come un veggente cieco con i suoi pezzi bianchi alla ricerca del vello d'oro dello scacco matto su una scacchiera immaginaria dove l'avversario è uno sconosciuto Signore in maschera. Le pedine bianche avanzano inesorabilmente mentre anche le pedine nere della «soaltà» vanno incontro alla Torre nemica, al Re e alla Regina in uno scontro frontale e in un accerchiamento.
La poetica di Peralta è immaginale, estatica, vertiginosamente impolitica, apollinea, mistica e ardita, irta di pinnacoli e di circonvoluzioni del pensiero; egli pensa con pensieri mitologemi mediante categorie del tutto nuove, originali, come «esterienza», della quale inventa perfino la filologia e la semantica. Le categorie per Peralta sono mitologemi che i poeti si appuntano al petto come un generale le sue medaglie. Ma essi, i poeti, non sanno di essere affetti da cecità, infatti, scrive Peralta, «la cecità è la condizione affinché qualcosa sia visibile», perché «l'occhio che impara a sognare, coglie la presenza rivivibile della "cosa"». E che cos'è questa parola misteriosa che Peralta ripete continuamente: la «soaltà»?, così risponde: «La soaltà è un teatro senza palcoscenico (...) La soaltà è lo spazio della rappresentazione interiore (...) La vita è sogno se il sogno è vita». E allora che cos'è la costruzione della realtà?, così risponde Peralta: «Edificare è fare dell'ombra una luce per il mondo» (...) L'est è la radice di luce (...) L'esterienza è l'esperienza dell'"est" (...) L'"est" è il punto di osservazione che àncora la ragione al sogno (...) L'"est" è la radice su cui s'innesta l'albero soale». E allora la conclusione non può che essere: «Ricondurre il sogno alla realtà significa abolire tutto ciò che di metafisico è stato finora concepito: così l'iperuranio, come qualsiasi altro sovramondo». Forse il mondo ha cessato di essere significativo, e forse al poeta di oggi non è concesso l’accesso alle esperienze significative, ma è emblematico che alla poesia di oggi tocchi in sorte di dover stendere in versi l'epicedio esistenziale forse più lucido e disincantato della poesia di matrice novecentesca, quando si parla dell’indebolimento della soggettività con la tranquilla consapevolezza che ciò che possono dare le parole poetiche forse non è granché ma è pur sempre qualcosa di importante. Il fatto è che non si può uscire dal sortilegio, o dall’immaginario direbbe Lacan, non possiamo sortire né entrare in un luogo sconosciuto se non mediante un trucco, un dispositivo, un cavallo di Troia, perché la città del senso la puoi prendere soltanto con un trucco, con un sortilegio, un atto di raggiro, di illusione, perché il poeta è ragguagliabile ad un illusionista che illude con le parole ed elude con le parole. «Il fatto è che non si può davvero uscire dal trucco, o dall’immaginario, come direbbe nel suo linguaggio Lacan».1 E forse in questo bivio soltanto può abitare il senso, ci vuole dire Peralta, il senso residuo dopo la combustione, se un senso v’è nella parola poetica, durante questo «indebolimento della soggettività»2 che dura ormai da tanto tempo che ne abbiamo perfino dimenticato la scaturigine.
Considero questa opera di Peralta una meditazione emblematica del nostro tempo di crisi, la ricerca di un approdo alla terra non più felice della poesia, una prima navigazione verso la costellazione della «soaltà», l'isola incantata chiamata Utopia da Raffaele Itlodeo, il canto del cigno di un pensatore «soale» che immagina l'isola meravigliosa della «soaltà».
1 Pier Aldo Rovatti, Abitare la distanza, Raffaello Cortina Editore, 2007 p. 87 2
2 Ibidem, p. 88