“La sofficità dell’impalpabile” di Nicola Romano

Un libro che rapisce, che innalza, che rigo dopo rigo eleva verso ambientazioni cosmiche, poiché recanti all’interno la sofficità dell’impalpabile: queste le sensazioni mie durante la lettura di “Symbolon”, recentissimo racconto di Ester Monachino. Un racconto molto agile, dai capitoli brevi come quadri d’una scorrevole rassegna e con una struttura descrittiva che, a mio parere, sembra apportare innovazione - soprattutto nei dialoghi - a quello che è il tessuto narrativo in genere. Da dire subito che siamo in presenza di un poema senza andare a capo, praticamente di una prosa poetica d’altronde connaturata alla consistenza della Monachino, della quale questo libro è molto rappresentativo dal momento che compendia a meraviglia l’interezza del suo “essere”, sia per quel che riguarda la sua cifra scritturale (o stilistica) e sia per la sua visione di vita ormai stabilizzata su dimensioni oniriche e su piattaforme molto contigue al “divino”, cifre che fra l’altro hanno ben determinato la sua poetica, soprattutto quella più recente.

A parte i pochi luminosi personaggi che andranno tutti ad affermarsi in quanto ad equilibrio e saggezza, c’è da dire che ogni cosa, ogni oggetto materiale sembra possedere un’anima destinata a trasmettere il senso vero d’ogni minimo dettaglio, e quindi un sasso, un passero o la notte che sembra  muoversi e a mano a mano restringersi per dare posto all’alba sono portatori di messaggi confezionati con gli “occhi di dentro” dell’autrice che riesce a tramutare in trascendenza ogni occasione ed ogni chiara manifestazione d’immanenza.

Un libro, questo, di forti “rivelazioni” certamente conquistate dall’autrice e che qui vuole donare al lettore nell’alveo d’una possibile condivisione, rivelazioni dalle quali primeggia il robusto monito di dover proficuamente “trarre il permanente dalle cose fuggevoli”, anche perché in buona sostanza questo racconto – oltre ad essere un invito alla conoscenza - è proprio un inno alla Gnosi, con il supporto della quale in definitiva si giungerà a concludere che talune entità opposte non appartengono ai dualismi della vita ma fanno parte d’una complementarietà necessaria a connotare la consistenza di un insieme: in pratica, due metà (apparentemente inutilizzabili) che s’incontrano per ritrovarsi nella linearità d’una perfetta e riconoscibile linea di rottura già creata ad arte in precedenza, così come avveniva nelle antichissime monetazioni a fini commerciali. Ed in quest’ultima operazione, che qui assurge a simbolo, s’invera proprio il compimento del “sublime”: in questo caso il sublime è rappresentato dall’Amore, sentimento che finisce per ricongiungere due anime che forse si erano perdute per sempre, ma la cui forza magnetica e attrattiva ha saputo sconfiggere ogni ostacolo interposto e raffigurabile in quel dyaballon che invece tende a dividere.

Che tutta quanta la descrizione sia essenziale e quasi conformata all’asciuttezza d’una Genesi bastano i nomi dei personaggi come Otu, Ula, Stilu, Sarah, nomi bisillabi che lasciano capire che niente è sovrabbondante in questo racconto, e se c’è qualcosa che straripa è solo uno stillicidio di continue bellezze e di suadenti armonie connaturate alle amabili descrizioni ed alla evidenziazione di particolari virtù come il rispetto, la purezza e la tranquillità, indispensabili alla doverosa evoluzione della  nostra condizione esistenziale.

Ciò nonostante, l’ordito concettuale del libro si va a comporre con i presupposti di un vero e proprio viaggio che i due protagonisti compiono separatamente attraverso città qui chiamate con Tiarè, Narsi, Plurima, Tavormus, ma che in definitiva costituiscono “luoghi” predestinati alla scoperta di qual cosa che si percepisce ma che spesso non accade, fino a che un conclusivo luogo - forse invocato dai continui segni d’un probabile vaticinio - si rivela essere quell’Altrove in cui finalmente poter affondare i passi dentro una realtà “altra” tanto attesa nonchè desiderata.

 

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