“LE NUVOLE” DI ARISTOFANE E “LA DONNA DI SAMO” DI MENANDRO –Analisi STORICO-LETTERARIA DI GIOVANNI TERESI
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- Creato: 23 Agosto 2018
- Scritto da Giovanni Teresi
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“Le Nuvole ” di Aristofane
L’origine della Commedia greca si suole dividere in tre parti:
– la commedia antica che arriva fino al 388, anno in cui Aristofane presenta il suo ultimo lavoro, “Il Pluto”
– la commedia nuova che inizia nel 320, anno in cui Menandro inizia la sua attività teatrale
– la commedia di mezzo che è compresa tra la commedia antica e quella vecchia.
Quest’ultimo è un periodo di grandi trasformazioni: l’uomo politico cede il posto all’uomo privato, la satira contro lo stato si trasforma in parodia dei vizi umani.
Per dare un’apprezzabile interpretazione alla Commedia di Aristofane è necessario analizzare la condizione politica di Atene del suo tempo.
“ Intorno al 460 a.C. il partito democratico di Efialte e di Pericle salì al potere approfittando di alcuni insuccessi dei conservatori che, fino ad allora, avevano guidato la politica della città. Pericle guidò da solo per oltre trent’anni le sorti di Atene, rispettandone i principi democratici: con una grandiosa politica di nuove costruzioni e di abbellimenti della città, egli diede lavoro e benessere alle nuove masse popolari a cui aveva anche dato l’effettiva possibilità di occuparsi della cosa pubblica istituendo un’indennità per quei cittadini che avessero dovuto fungere da giudici popolari. È in questa età che Atene divenne il centro morale dell’Ellade, cui convenivano da ogni località greca poeti, retori e sofisti: qui, ricordiamo, sorsero nel secolo successivo le grandi scuole filosofiche dell’Accademia e dei peripatetici. Giovò anche alla gloria di Atene l’essere divenuta paladina dei movimenti democratici di tutto il mondo greco, contrapponendosi in ciò agli ideali statici e conservatori propugnati dalla sua grande rivale, Sparta.
La politica estera di Atene durante l’età periclea fu essenzialmente volta ad affermare il primato della città sul resto della Grecia e, nel tentativo di raggiungere questa supremazia, Atene lottò soprattutto contro Tebe e Sparta; contro queste due città e le loro alleate dovette sostenere più tardi la lunga e sfibrante guerra del Peloponneso (431-404), provocata e voluta dallo stesso Pericle, nella quale Atene vide infine crollare il proprio predominio. Dopo la morte (nel 429 a.C.) di colui che probabilmente fu il più grande uomo politico ateniese, il clima politico fu acceso e contrastato per l’ascesa, ai vertici degli organi decisionali, dei leader demagogici. Essi erano politici privi di scrupoli, il cui potere personale era solo apparentemente ancorato al consenso della massa civica, ma, in realtà, poggiava sull’effimero ed interessato favore di precise componenti del corpo sociale e si nutriva di un esibizionismo politico ad effetto, ma spesso inconsistente e deleterio. Aristofane era un fermo sostenitore della democrazia e polemizzò duramente, così come altri commediografi, con Cleone, successore di Pericle. A differenza, infatti, della democrazia radicale di Pericle, quella di Cleone era solo una democrazia “apparente”, viziata e corrotta dalla demagogia.
Tutti i drammi di Aristofane sono uno specchio deformato (per esigenze comiche) della società del suo tempo. Una società a due facce, fra loro contrastanti: la campagna e la polisateniese, colta nell’epoca del suo massimo splendore culturale. Mondi distanti dal punto di vista temporale, non certo da quello spaziale: mentre la civiltà contadina era legata ad antiche leggi e ad antichi modi di pensare, quella cittadina era un’officina di nuove idee ed era proiettata al futuro. Questi due lati della stessa medaglia erano Strepsiade e Socrate.
L’uno era un contadino tradizionalista, tenacemente legato alle idee conservatrici, l’altro era il perfetto esponente del pensiero laico e dei tempi nuovi. Aristofane, criticando la degradazione della società ateniese, permise ad un suo personaggio (moralmente ambiguo e spregiudicato) il passaggio dalla realtà quotidiana ad un mondo fantastico ed utopico. Questo passaggio è stato un modo per rinnovare la polis o per evadere da essa ed è stato scandito dall’atto di attraversare una porta, quella della casa di Socrate, che si spalancò su un mondo diverso. Questo “rito di passaggio” porta ad una nuova condizione esistenziale, fantastica e fiabesca, che si allontana dalla dimensione realistica ancorata alla vita quotidiana della polis. Quindi la commedia di Aristofane sovverte sul piano fantastico la città reale per delineare un mondo immaginario.
Questi sono i due poli entro cui si sviluppa la trama: da un lato Atene con i suoi personaggi (come l’intellettuale Socrate) derisi pubblicamente, dall’altro lato, un’utopia, un mondo alla rovescia, lontano da qualsiasi tipo di esperienza dei sensi, quasi legato, come nella tragedia, al mito.
La trama della commedia:
Composta dapprima per le Dionisie del 423 a.C. e accolta piuttosto freddamente, “Le nuvole” è stata in seguito rielaborata da Aristofane. È appunto questa seconda stesura che è giunta fino a noi.
Il contadino Strepsiade non riesce a dormire: pensa ai suoi debiti e agli interessi che dovrà pagare alla fine del mese. Il figlio Fidippide, invece, ronfa tranquillo, sognando i cavalli e le corse in cui spende tutto il denaro paterno.
Strepsiade, rimpiange la sua semplice vita di campagna prima del disgraziato matrimonio con un’aristocratica e raffinata gran dama, dalla quale il giovane Fidippide ha ereditato l’inclinazione agli agi e al lusso; persino, sul nome da dare al figlio i due sposi avevano stentato a raggiungere un accordo: lei ne voleva uno in “ippo”, da cavaliere, lui lo voleva chiamare Fidonide, “uno che risparmia”; e si erano decisi per Fidippide.
Il contadino Strepsìade è perseguitato dai creditori a causa dei soldi che suo figlio Fidippide ha dilapidato alle corse dei cavalli. D’improvviso al vecchio si presenta una soluzione. Sveglia il figlio e gli propone di entrare nel Pensatoio di Socrate per apprendere la pratica sofistica del ton etto logon creitto poiein, cioè del “rendere più forte il discorso più debole”, in modo da eludere i creditori.
In un primo momento Fidippide non vuole andare al Pensatoio (phrontistérion) del filosofo e così il padre, disperato e perseguitato dagli strozzini, decide di recarvisi lui stesso, seppur vecchio. Appena giunto, incontra un discepolo che gli dà un assaggio delle cose su cui si ragiona in quel luogo: il modo migliore di misurare il salto di una pulce, e da dove provenga il ronzio emesso dalle zanzare. Dopodiché finalmente Strepsiade vede Socrate che, appeso in una cesta, contempla il cielo.
Il filosofo, dopo un breve dialogo, decide di impegnarsi ad istruirlo: gli mette indosso un mantello e una corona ed invoca l’arrivo delle Nuvole, le divinità da lui adorate, che si presentano puntuali sulla scena.
Socrate: per ottenere quanto desidera dice a Stepsìade che dovrà abbandonare i vecchi dei e affidarsi alle nuvole (il coro), le sole vere divinità. Esse compaiono: promettono di aiutare Strepsiade a divenire un oratore imbattibile e lo affidano a Socrate. Nella parabasi per bocca della corifea Aristofane si lamenta della scarsa fortuna di questa sua commedia, già rappresentata precedentemente; ricorda il successo di altre sue opere, rivendicando la propria capacità di proporre sempre argomenti nuovi, senza servirsi di mezzi volgari per suscitare il riso. Polemizza, infine, con gli Ateniesi che hanno rieletto ad alte cariche l’odiato Cleone e li incita ad arrestarlo per furto e corruzione.
Strepsiade però non riesce a capire nulla dei discorsi pseudo-filosofici che gli vengono fatti (parodia della filosofia socratica e sofistica) e viene quindi cacciato. Fidippide, incuriosito dai racconti del padre, decide infine di andare a visitare il pensatoio e quando arriva assiste al dibattito tra il Discorso Migliore e il Discorso Peggiore.
Nonostante i buoni propositi e i sani valori proposti dal Discorso Migliore (personificazione delle virtù della tradizione), alla fine prevale il Discorso Peggiore (personificazione delle nuove filosofie) attraverso ragionamenti cavillosi. Fidippide impara la lezione ed insieme a Strepsiade riesce a mandare via due creditori; il padre è contento, ma la situazione gli sfugge subito di mano: Fidippide comincia infatti a picchiarlo, e di fronte alle sue proteste il figlio gli dimostra di avere tutto il diritto di farlo. Esasperato e furioso, Strepsiade dà allora alle fiamme il Pensatoio di Socrate, tra le grida spaventate dei discepoli.
Socrate: È il protagonista della commedia, e non solo personaggio teatrale, ma anche figura storica che, venticinque anni dopo essere stato portato sulla scena, è stato processato da un tribunale di Atene e condannato a morte sia perché con i suoi insegnamenti corrompeva i giovani sia perché non riconosceva gli dei che la città venerava, ma apprezzava invece divinità nuove e diverse.
Egli rappresenta nel testo il sofista corruttore che inganna la gente con le sue dottrine, la sua pericolosa sapienza e le sue capacità verbali, e ciò è dimostrato più che chiaramente dalla facilità con cui convince Strepsiade a credere nelle nuove e ingannevoli divinità delle Nuvole; il filosofo non esita a rappresentarle al povero contadino con il loro aspetto più terribile e minaccioso, perché egli ne sia terrorizzato e, di conseguenza, affinché lo abbia in suo potere.
La dialettica di Socrate risulta, quindi, una scienza negativa, poiché esasperata nelle conseguenze, portata avanti da questa figura del “sapiente” che si estranea dalla comunità dei cittadini, che propone modelli di vita e credenze diversi da quelli tradizionali, che sovverte le abitudini radicate e corrompe le tradizioni. La sua scienza perciò non paga ed il semplice contadino Strepsiade, resosi conto di essere stato ingannato, distruggerà infine il pensatoio e tutto ciò che esso rappresenta. Aristofane tratta, quindi, da ciarlatano e da mistificatore un uomo che la nostra cultura considera uno tra i principali punti di riferimento, quasi una sorta di padre culturale, per non dire addirittura un martire. E’ naturale quindi interrogarsi sulle ragioni che spingono Aristofane a prendere una tale posizione. La via più ovvia per risolvere il problema è all’interno del conflitto politico “innovazione-conservazione“: Aristofane, attivo protagonista del gruppo conservatore, risulterebbe ostile a Socrate dal punto di vista politico. Tuttavia questa interpretazione non è la più corretta, poichè non tiene conto del fatto che Aristofane e Socrate appartenevano a quella cerchia essenzialmente aristocratica che partorirà il governo dei “trenta tiranni”. In realtà l’opposizione fra i due uomini ateniesi è da trovarsi nella diversa posizione culturale ed ideologica che essi assumono: Aristofane è l’emblema della cultura conservatrice mentre Socrate di quella innovatrice. Per Aristofane l’educazione deve avvenire mediante una poesia rigorosamente priva di elementi intellettuali, per Socrate la sofistica invece deve compiersi mediante il dialogo critico fondato sulla logica eleatica. Tale opposizione non è riconducibile pienamente ad un semplice conflitto tra “pensiero intuivo” e “pensiero critico”: siamo in realtà di fronte ad uno scontro tra culture radicalmente diverse che solo con difficoltà riescono a confrontarsi.
LA POSIZIONE DELL’AUTORE
Con “Le nuvole” Aristofane crea uno dei testi più complessi e inquietanti del teatro antico, nel quale dà del suo contemporaneo Socrate un giudizio che contraddice quello con cui la tradizione considererà il filosofo ateniese: un maestro sublime, dedito all’incessante ricerca della verità.
Egli, invece, rappresenta il pensatoio di Socrate come una scuola di ribalderie, dove non si apprenderebbe solo l’arte di rafforzare una posizione debole attraverso l’affinamento delle capacità dialettiche, ma anche quella di giustificare sempre e comunque il proprio operato, così da riscuotere la generale approvazione. Sicuramente non si tratta di un fraintendimento involontario: infatti Socrate, pur non essendo un sofista- attento solo a onori e guadagni- è per Aristofane un esponente di quel pensiero critico che può dar luogo ad effetti disastrosi. Lo dimostra, appunto, il danno che ne viene allo sprovveduto Strepsiade che si fa discepolo socratico per imparare qualche imbroglio utile a tacitare i creditori; ancora maggiori poi sono i danni che la nuova filosofia arreca a suo figlio Fidippide, più intelligente del padre e meglio capace di assimilare e sfruttare quanto appreso dai cattivi maestri.
Aristofane dimostra, quindi, una grande preoccupazione per l’educazione dei giovani: essi sono attratti dalla vita brillante e dai piaceri, ma devono imparare ad assumere le responsabilità di futuri cittadini adulti. Lasciarli senza saldi principi, prospettare loro che ogni cosa può essere giusta o ingiusta, relativamente a come la si considera, significa educarli nella convinzione che qualunque arbitrio sia possibile, minando la società fin dalle fondamenta.
Il vertice poetico del testo è rappresentato dall’agone fra Discorso giusto e Discorso ingiusto, i due personaggi che tentano di conquistare- ciascuno per sé- il favore di Fidippide. Ma mentre il primo gli propone un programma di vita austero, fatto di temperanza, controllo degli istinti, faticosi esercizi fisici e bagni freddi, così da acquisire le stesse virtù dei combattenti di Maratona; l’altro non soltanto teorizza la massima permissività in tutti i campi, ma sostiene anche con argomentazioni capziose il diritto per ciascuno di comportarsi come crede, facendosi beffe della moralità antica. Nelle discussioni vince il Discorso ingiusto; all’altro non resta che ritirarsi sconfitto, riconoscendo di non avere nulla di attraente da offrire, a parte la fedeltà ad una giustizia ormai scomparsa dalla coscienza degli individui.
Sulle vicende degli uomini si librano poi le nuvole del coro, talvolta partecipi, più spesso impassibili osservatrici di tanta follia; una follia che, prima o poi, dovrà fare i conti con la volontà degli dei, giacché questi non consentiranno per sempre il trionfo della malvagità (cosa di cui Aristofane, con autentico senso religioso, è assolutamente convinto).
Il coro esprime, inoltre, l’insoddisfazione per la sordità del pubblico ai suoi messaggi politici contro Cleone (vv.581sgg.). “Quando eleggeste stratego quel cuoiaio di Paflagone, odioso agli dei, noi aggrottammo le ciglia e facevamo cose da pazzi…eppure lo eleggeste. Dicono infatti che in questa città sia presente il cattivo consiglio, ma che comunque poi gli dei volgano al meglio i vostri errori”. Sulla soglia del regime democratico o demagogico, quando l’aspirazione di pochi individui al subdolo controllo delle masse sembra vanificare la partecipazione di tutti alle decisioni comuni Quindi, Aristofane esprime la sua speranza e volontà di cambiamento dichiarando la propria fiducia nella vitalità intrinseca delle istituzioni democratiche.
Menandro
La vita di Menandro si colloca alla fine di una serie di rivolgimenti storici iniziati con la guerra del Peloponneso, proseguiti con l’effimera egemonia spartana e culminati con la conquista macedone della Grecia.
Nacque nel 342 a.C. ad Atene. Amò e non lasciò mai la sua città forse anche a causa del carattere schivo e introverso. Divenne grande amico di Falereo, signore di Atene dal 317, ma ciò non lo portò ad inserire la politica nelle sue commedie. Morì nel 291.
Menandro era celebre nell’antichità, ma fino al secolo scorso era noto solo grazie a pochi frammenti e rifacimenti di Plauto e Terenzio. La nostra conoscenza delle sue commedie è avvenuta grazie ai ritrovamenti di parti abbastanza ampie in un villaggio egiziano chiamato Afroditopoli.
Tra le commedie giovanili spicca “Il Misantropo”, che vinse alle Lenee del 316.
Anche “La donna di Samo” sembra essere un’opera giovanile. Protagonista della vicenda è Demea, un uomo che vive con l’etera Criside (che dà il nome all’opera essendo originaria di Samo) e suo figlio adottivo Moschione.
Menandro rappresenta senz’altro un elemento di rottura rispetto al periodo che lo precede ed anche rispetto alla commedia aristofanea.
Le sue commedie sono permeate da un atteggiamento di solidarietà umana (la filantropia, tipica dell’Ellenismo), da un senso di comprensione fra esseri umani, da un cambiamento che conduce ad un riscatto morale per concubine, etere, giovani violentatori, anziani scorbutici e avari. Si tratta di una manifestazione di quel sentimento d’umana comprensione che investe non solo la donna, ma anche gli uomini, i servi e i diversi status sociali. Forse questa comprensione fra umani appare più agognata, che non realizzata nella sua concretezza, un’aspirazione, un fine a cui tendere e spesso, per quanto riguarda le donne, il punto di vista è quello maschile.
Il torto della violenza subita dalle donne è espiato con un matrimonio che ha funzione riparatrice (si veda “L’arbitrato” e “La ragazza di Samo“), la donna stuprata s’innamora di chi ha abusato di lei e il violentatore è redento dalla propria colpa, prova sentimenti d’affetto sincero e il dramma della violenza subita dalla ragazza diventa un piccolo incidente sul quale si può ormai soprassedere.
Inoltre, il matrimonio regolare può avvenire fra cittadini liberi ed è un contratto fra due uomini, il marito e il tutore della ragazza, in genere il padre, il fratello, o un parente di sesso maschile che agisce in nome della donna: nel caso della commedia intitolata “Il bisbetico“, la funzione di tutore della ragazza sarà trasferita dal padre al fratellastro di costei.
Nella commedia intitolata “Lo scudo“, emerge poi come la legge consenta ad un uomo di sposare la propria nipote, anche se questa è già promessa ad un altro giovane, dopo che il fratello della donna, creduto morto in battaglia in seguito al ritrovamento del suo scudo, ha lasciato un’eredità abbastanza sostanziosa. In questa commedia, purtroppo incompleta, lo zio desidera il matrimonio allo scopo di arricchirsi, ma non la sposerà, grazie ad uno stratagemma del pedagogo Davo.
Spesso le donne, all’interno della commedia menandrea, agiscono in nome di una reciproca solidarietà femminile, piuttosto che con un’esclusiva funzione chiarificatrice.
Consideriamo, a titolo esemplificativo, due donne: una che, ufficialmente, ha una funzione importante nello scioglimento di una situazione ingarbugliata, Abrotono (etera e flautista) nella commedia “L’arbitrato” e un’altra, Criside (etera e concubina di Demea) in “La ragazza di Samo”, cui Menandro attribuisce una gran profondità di sentimenti.
Proprio tipico della Commedia Nuova, come nella commedia “La ragazza di Samo”, è il riconoscimento, già molto usato in Euripide: la rivelazione di un inaspettato legame di parentela è risolutivo per sciogliere situazioni complicate e non risolvibili dall’agire umano. Eredità sempre euripidea, specie dell’ultima fase della sua produzione tragica , è l’ampio intervento riservato all’imprevedibilità della týche (la sorte, il caso), che, dopo aver rovesciato capricciosamente situazioni e destini, li ricompone nella necessità del lieto fine.
Trama della commedia “La donna di Samo”
La scena si apre con Moschione che recita il prologo: racconta di essere preoccupato per aver messo incinta la figlia di un amico di suo padre durante una festa. Egli non osa rivelare niente al padre, che nel frattempo parte per un lungo viaggio con lo stesso amico. Durante la loro assenza il bambino nasce, e Moschione decide di far credere al padre che il bambino sia suo e di Criside. Al ritorno del padre e dell’amico tutto sembra filare liscio, tanto che si comincia ad organizzare il matrimonio dei due ragazzi.
Un giorno, però, Demea sente senza volere un discorso fatto dalla vecchia nutrice di Moschione, che ora si occupa del nuovo nato, e arriva alla conclusione che il bambino è figlio di Moschione e Criside. Si adira quindi con Criside perdonando il figlio.
L’equivoco viene però subito sciolto, Demea perdona l’etera e il figlio, e vengono celebrate le nozze tra i due giovani.
Emergono da questa commedia alcuni valori tipici della nuova società borghese: il dominio dei sentimenti, il senso della misura, il decoro, il perbenismo.
L’ultima commedia da noi presa in considerazione è “L’arbitrato”, da attribuire alla maturità di Menandro.
Non è però nella trama che vanno ricercate le ragioni del successo di Menandro, dato che il valore della sua commedia risiede principalmente nell’ineguagliabile capacità di costruire “caratteri”.
Già gli antichi avevano messo in evidenza il realismo dell’opera menandrea definendo il suo autore“imitatore della vita” (Aristofane di Bisanzio, nel II sec a.C., lasciò la famosa definizione “O vita, o Menandro, chi di voi ha imitato l’altro?”) e questa definizione può essere accettata, se si intenda la sua “imitazione” non tanto come specchio della vita reale quanto come creazione di personaggi dotati di credibilità psicologica e sentimentale. Essi sono definiti con profonda cordialità umana ed esprimono i loro reciproci rapporti in un clima d’indulgenza e di generosità. I conflitti tra gli individui si ricompongono non solo perché la sorte ha portato a una soluzione positiva, ma perché la comprensione umana ha saputo smussare le difficoltà e chiarire i malintesi. Le crisi matrimoniali si risolvono, i conflitti tra padri e figli si appianano perché, al di là delle intemperanze e delle passioni, c’è, nel cuore dell’uomo, un fondo naturale di bontà. Da questo sguardo positivo sulla natura umana parte l’interpretazione ottimistica di Menandro sulla realtà: l’uomo è capace di correggere i propri difetti e di migliorare sé e gli altri (come dice lui stesso in un suo verso: “Che cosa bella è l’uomo purché sappia comportarsi come uomo?”).
Assai più di Aristofane (il cui mondo poetico era troppo originale e troppo legato all’Atene contemporanea, per avere imitatori ed eredi), Menandro ha creato motivi, situazioni e personaggi che sono divenuti archetipi per tutto il teatro comico successivo: basti pensare a temi come quello della gelosia, dell’amicizia o del contrasto generazionale oppure a personaggi come quello del misantropo o dell’avaro. Tuttavia l’influenza menandrea sul teatro successivo si esercitò indirettamente, per il tramite della commedia latina di Plauto e di Terenzio: essi utilizzarono Menandro, con la libertà loro concessa dalla particolare configurazione del teatro comico latino, che prendeva esplicitamente a modello i testi greci, operandone liberi rifacimenti.
Giovanni Teresi