“Liturgia dell’acqua” la poesia ‘eccezionale’ di Daìta Martinez – di Guglielmo Peralta

Ogni regola ha la sua eccezione. E non c’è disciplina più ‘regolata’ della grammatica, che abbonda di regole e vi si regge. La poesia della Martinez è ‘eccezionale’ perché elimina tutte le regole costituendo una sovrabbondante eccezione. Infatti, vengono meno l’ortografia e i nessi logico-sintattici. Inoltre, vi ‘eccede’ il «non detto», di cui si caricano le parole nella latenza dei significati o del senso immediato, il quale resta celato, si sottrae alla comprensione nel flusso incontenibile della scrittura. È, questo della Martinez, un poetare ‘esperenziale’ (ormai collaudato), dove le parole, che traducono sensazioni interiori che dal profondo vengono alla coscienza, sono ‘trasfigurate’ dal potere trasformativo del pensiero che diventa scelta e libertà, nonché esperienza innovativa. Queste parole, liberate dal ‘giogo’ delle regole, vanno incontro all’autrice, che ogni volta fa esperienza dei loro suoni e delle immagini, del loro modo di esserci, di prendere forma accostandosi fra di loro e combinandosi con il ritmo che le suscita e del quale con-sistono, sì che il ritmo diventa rito, esso stesso forma - come suggerisce il suo etimo – e la forma corpo musico, il dettato liturgia, che annuncia l’impareggiabile canto, il quale solo concede alla nostra poetessa e al lettore “il gusto del segreto”[1] che assicura e mantiene il velo di Maya, necessario affinché l’umana creazione non abbia fine. E il “segreto” è la sacralità del canto che resta ineffabile pur nell’ascolto che precede la scrittura, nello slancio, nella tensione conoscitiva della forma a priori ideale, la quale trascende i singoli elementi verbali in cui è scissa e che ne costituiscono la “sintesi”, dove essa è dispersa perché non c’è vicinanza tra l’assoluto dal quale discende e il contenuto sensibile che dovrebbe rappresentarla e che qui è di difficile comprensione. Pertanto, la “sintesi a priori”, che titola la prima delle tre sezioni del libro, è, insieme, l’impossibile tentativo di esprimere l'idea universale dell'essere e la dichiarazione della mancata identità tra l’Uno e il molteplice, tra il Verbo e il linguaggio. La mancanza di senso nella poesia della Martinez non è il «non sense» del teatro dell’assurdo, che denuncia la banalità, la chiacchiera, l’incomunicabilità, la desertificazione della coscienza, dell’animo umano privo dei sentimenti e dei valori tradizionali, la vacuità dell’esistenza, o dell’esserci, che ha perduto ogni legame con l’essere. In questa denuncia è il senso del non sense, e l’«assurdo» ha la sua giustificazione. Non così è per la poesia in oggetto, dove il senso appare irrecuperabile in quello che sembra un ‘gioco’ esperto e perfetto di parole. Tuttavia, consideriamo ‘onesta’ la scrittura della Martinez perché l’oscurità è nella natura della Poesia, è il suo mistero assoluto, e il linguaggio, qui, in questa silloge come nelle precedenti della Nostra, è mimesis, imitazione che fa il verso all’Ineffabile. Il senso riposto, ovvero, l’unico senso possibile, allora, è la cor-rispondenza, o parallelismo, tra il Significato assoluto e inesprimibile e la desemantizzazione del linguaggio, incapace di esprimerlo, per cui ogni significato è relativo e il senso logico non colma l’abisso tra l’Indicibile e ciò che da esso procede e di esso si predica. Paradossalmente, c’è più vicinanza tra il ‘dire’ incomprensibile della Martinez  e la fonte di questa oscurità, la quale, come sostiene Ernst Cassirer, è «il modo più adatto di rendere all’uomo la verità, che la lucida stringatezza del discorso argomentativo logico non è in grado di penetrare e rappresentare». Tanto più che qui, il ‘dettato’ poetico è estraneo ma non del tutto contrario alla logica, che, considerando impari la lotta tra il linguaggio e l’ineffabile Parola, giustifica l’assenza delle regole grammaticali, congeda il linguaggio ‘ordinario’, liberandolo dall’ovvietà, dalla convenzione, dalla comprensione immediata o mediata dall’interpretazione. La Poesia è l’oracolo indecifrabile al di là delle parole, alle quali concede solo il piacere dell’ascolto, quel gusto del segreto inviolato, inviolabile. Tutta la scrittura della Martinez è un’eco dell’armonia perduta, latente nel puzzle del linguaggio, dove le parole sono schegge, frammenti che compongono un miscuglio di sensazioni, ricordi, immagini, emozioni, lacerti di ‘vissuto’ e di esperienze quotidiane, associati liberamente mediante la ‘tecnica’ del flusso di coscienza, che crea campi visivi intriganti e disparati che sollecitano il lettore a cogliere e a distinguere ciò che è identificabile da ciò che è indefinibile. Compito difficile per l’irregolarità della costruzione sintattica, della scrittura atipica, che si discosta dai modelli convenzionali, comuni. Difficile è ricondurre l’ordine dentro questo ‘caos’. Tuttavia, nulla è impossibile alla poesia. Tutto le è concesso purché sia onesta. L'inganno è nell'artificio, nella volontà di fare apparire bello ciò che non lo è, di passare per innovatori a tutti i costi. Non è, questo, il caso della scrittura della Martinez, perché nel suono, nel ritmo si accampa la bellezza al cospetto della quale non ci si avvede, o si sorvola su ciò che è distante dalle regole della logica e ci si lascia attrarre dal flusso di parole che scorre come limpida acqua e tracima oltre la forma, qui composta in blocchi, dove i significati sono in fuga, non si lasciano imprigionare dentro le norme consuete della scrittura, per cui difetta la luce razionale e resta in eccesso l’ombra delle parole, la quale incombe sull’intera opera ed è l’Invisibile che si “rivela” come assenza per l’abbondanza dell’eccezione. Se il linguaggio delle regole e della significanza, che consente ad ogni singola parola di interagire con le altre per creare e dare unità di senso al testo, non riesce ad esprimere la verità poetica nella sua segreta e intima essenza, allora l’impossibilità di dire, di esprimere l’assoluto, giustifica la “scelta” della nostra poetessa di non affidarsi al linguaggio della  comprensione relativa, ma di tenere fede alla divina oscurità superando la logica, doppiandone i principi fondamentali con l’ebbrezza del Cherubino e la saldezza della luce divina.

Possiamo considerare “liquida” la scrittura della Martinez perché qui, più che nelle altre sue sillogi e come è dichiarato espressamente nel titolo, essa è acqua di sorgente che ripete il suo corso; il suo fluire è l’incessante processo creativo che tende a ridurre la distanza infinita tra il Verbo e il linguaggio, tra l’Invisibile e il visibile, ed è un rito, una liturgia, dove le parole si ammantano di un senso nascosto, a imitazione dell’ascosità dell’essere, senza rinunciare a una "compensazione", lasciando al lettore più di una interpretazione, una possibile ‘rivelazione’ del sacro fantasma, che si aggira e si accampa tra le ‘irregolarità’ e le asperità di una scrittura che tende sempre ad astra. È questa della Martinez una scrittura rivoluzionaria nell’ambito della poesia, che fa il verso alla tecnica narrativa del flusso di coscienza e del monologo interiore, dove si fondono realtà e mente, coscienza e inconscio. Se, da un lato, La Martinez sembra dare centralità alla memoria per ricostruire la propria identità, dall’altro lato, il monologo, la parole intérieure, non può occultarne l’io, non può restare dietro la ‘maschera’ del linguaggio; deve andare incontro al lettore, mostrare un volto di verità, anche minima, che la renda accogliente al di là dell’incomprensione. Essa deve “dialogare” per non correre il rischio di essere solo un soliloquio, una voce per sé, un autolinguaggio, criptico, ‘esclusivo’, cioè, estraneo e sfuggente ad ogni interpretazione. Deve, allora, consentire una trasfigurazione semantica, di andare oltre la figura, oltre il corpo o la forma “liquida” che, se pure è aperta al sacro, lascia naufragare i significati. In questo mare dell’oscurità profonda, la parola non può restare segreta, deve concedersi alla comprensione. Ma senza essere estensivamente ‘epifanica’, per non tradire il “gusto del segreto”. Date queste considerazioni, poiché la Martinez è ‘toccata’ dalla grazia della creazione, le consigliamo di lasciarsi tentare dal senso per dare nuova veste e nuovo volto alle parole. Perché, se nell’assenza delle regole la scrittura si fa liturgia, culto del sacro mistero; se nell’astrusità del verso, alto si leva il canto, questo può volare in excelsis se le parole sono bene-dette, se, ricevendo un nuovo battesimo nella chiarità dell’eloquio, rifulgono delle scintillanti costellazioni, delle segrete luci della sorgente; se si fanno specchio e fonte di bellezza, dove il lettore può contemplarvi l’Anima Mundi e in questo infinito innamorarsi e perdersi.

 

 

 

[1] Il gusto del segreto è il titolo di un’opera di Jacques Derrida, secondo il quale «Se la trasparenza dell'intelligibilità fosse assicurata, distruggerebbe il testo, mostrerebbe che non ha avvenire alcuno, che non deborda il presente, che si consuma immediatamente; dunque una certa zona di misconoscimento e di incomprensione è anche una riserva e una possibilità eccessiva – una possibilità per l'eccesso di avere un avvenire, e di conseguenza di generare nuovi contesti. Se tutti possono capire subito quel che voglio dire non ho creato alcun contesto, ho meccanicamente risposto all'attesa, ed è tutto lì, anche se la gente applaude e magari legge con piacere; poi, chiude il libro, ed è finita».

 

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