Lorenzo Spurio, “Tra gli aranci e la menta” (Ed. Poetikanten)

di Dorothea Matranga
 
Non mi appartiene la presunzione che è di tanti di dare al reale ciò che ha perso sostanza” queste le parole con cui si esprime l’autore del volume Tra gli aranci e la menta. Recitativo dell’assenza per Federico García Lorca (PoetiKanten Edizioni, 2016), il poeta marchigiano Lorenzo Spurio, nelle pagine introduttive. Un’opera che vuole essere un omaggio al grande poeta andaluso García Lorca, nella ricorrenza degli ottant’anni dal suo assassinio, ed è anche il modo per esprimere la sua ammirazione nei confronti di un grande della letteratura di tutti i tempi.
L’autore, Lorenzo Spurio, nelle pagine iniziali, intitolate “Saluto ad un amico” con sottotitolo “Il mio giardino autunnale” ci introduce non solo nel suo giardino, ma a pieno titolo anche nella profondità del mondo lorchiano. Sin dai primi passi del nostro cammino critico alla plaquette dell’autore, dopo attenta e rigorosa analisi a un testo di non facile lettura, pur nelle piccole dimensioni, definiamo il testo un’opera sorprendente, di rara forgiatura, perché conduce il lettore ad addentrarsi nel mondo umano e letterario del grande poeta andaluso García Lorca, con un’andatura che da una iniziale pacata ouverture, assume pian piano un ritmo sempre più incalzante, per poi diventare un’opera che ansiosamente palpita, e vive le vicissitudini della vita del Poeta, che Lorenzo Spurio considera un genio letterario e un eroe immortale. Ci fornisce un quadro completo non solo su Federico García Lorca, del quale nessun angolo rimane inesplorato, sapendone cogliere con grande abilità il gusto, il sapore, i dilemmi, le angosce, i palpiti dell’animo, ma anche dell’intero spirito andaluso, di tutta la Spagna, mettendo a fuoco gli aspetti peculiari di un popolo sanguigno, aspro e orgoglioso, coraggioso e pieno di vita, facendo coincidere l’anima spagnola con l’anima del poeta andaluso.
L’autore, Lorenzo Spurio, con grande padronanza letteraria e poetica affronta il tema lorchiano in modo amorevole, come si fa con un amico che si stima in modo gigantesco, e per questa stima l’autore si cala nella psiche del poeta Lorca, riuscendo per questo suo incantamento letterario a combaciare con quello che lui chiama amico, come se lo conoscesse di persona perché a lui contemporaneo, e lo frequentasse, e invece lo conosce solo attraverso la gigantesca opera letteraria, dal valore immenso, la sua produzione artistica, riscontrandone una profonda fecondità non comune e riservata soltanto a pochi grandi del passato. Il poeta Spurio riesce a esprimere e trasmettere al lettore un modo di sentire accorato, un fervore che avvolge e coinvolge, la passione per quest’autore spagnolo che ama e ammira dal punto di vista umano e letterario. Scopre e fa scoprire con meraviglia come il poeta Lorca sia ancora vivo, non solo dentro di lui, che si ritiene amico, ma vivo ancora, come nel passato, nell’anima della Spagna.
Nel giardino autunnale l’autore ci introduce nel mondo della natura, delle sensazioni olfattive, nel mondo dei profumi delle erbe aromatiche, con una dolcezza e una grande capacità di sentire la commistione tra umano e vegetale,  una trasformazione panica come nel mondo dannunziano della “Pioggia del pineto”, un calarsi in pieno e profondamente penetrare nel mondo umano e poetico lorchiano, dove la natura è protagonista e compartecipe del dramma, della tragedia che purtroppo sarà perpetrata e andrà in scena, utilizzando a tal uopo un termine teatrale, come si addice al carattere intrinseco del poeta andaluso. La natura nel giardino autunnale dell’autore si personifica, risponde agli stimoli. Un mondo vegetale umanizzato con cui Lorenzo Spurio interagisce, pensa, senza dubbio alcuno, di poter comunicare con le piante, ed essere a sua volta capito da loro. Naturalmente, quest’aspetto mostra una rara sensibilità da parte dell’autore. Grazie a questo suo particolare dono, possiede la chiave sia materiale, che mentale, che culturale per entrare col suo talento nel mondo letterario-umano di Federico García Lorca, lo fa come si fa con un amico confidente, che conosce ogni angolo e anfratto dell’animo dell’altro, anche se tra di loro i tempi sono sfasati, non contemporanei, e la loro amicizia è nata tra le carte, unilateralmente, ma lo è anche biunivocamente, come se l’altro, portatore di immortalità potesse sentirlo e interagire con lui, con un interscambio e comune fronte di opinioni. Nel presentarci il poeta andaluso per lui e per molti geniale, lo fa con modestia, affermando che la sua opera potrà, forse coglierne solo l’alone di luce, riuscirà solo a far splendere una parte della reale grandezza del grande eroe andaluso. Un inno di dolore quello del poeta Spurio per la perdita e l’uccisione di un grande in modo disonorevole, una grandezza che l’umanità del suo tempo non è riuscita a cogliere, disprezzandone l’essenza intimistica, il gesto esteriore del suo spirito, la sua potenza letteraria.
L’opera contiene undici liriche, una parte iniziale in prosa che definiamo poetica per lo splendore delle immagini e sensazioni che riesce a dare al lettore, e una nota di lettura, “Il passo della morte. Rappresentazione mitica e allegorica nel rituale della corrida tra teatro e poesia” a cura di Valentina Meloni, una sorta di postfazione molto articolata che insieme alla prefazione curata da Nazario Pardini costituisce una sorta di corollario che implementa l’opera, fornendone accurate letture che aiutano la comprensione del testo nella sua totalità.
Le figure retoriche che il poeta Spurio utilizza nel portare avanti l’intero impianto poetico, cioè quello di lanciare al mondo il messaggio chiaro della grandezza del poeta andaluso, sono il climax ascensionale, che gli consente il graduale passaggio da un concetto all’altro via via più intenso, strategia che aumenta il pathos e la palpitazione poetica, e la sinestesia degli accostamenti tra termini appartenenti a due diverse sfere sensoriali. Le pagine dell’opera contengono immagini a inchiostro di china del maestro Carrarelli, piccoli quadretti dal grande valore artistico che descrivono l’ambiente in cui García Lorca visse, la Spagna, con tutti gli elementi che connotano il territorio andaluso, e anche ogni particolare più significativo della poetica lorchiana.
Il titolo dell’opera, Tra gli aranci e la menta, suona quasi come un aforisma. Poche parole che concentrano l’interno panorama poetico-narrativo. Sotto l’aspetto di naturali essenze di colori giallo-rosso e di profumi degli aranci e della menta verde che simboleggia la libertà, erba aromatica che facilmente attecchisce nei giardini, nel colore arancio-rosso degli aranci, dal succoso e prezioso succo dissetante, e nel verde della menta dal retrogusto amarognolo, si cela la metafora dell’intera vita di García Lorca. Tutto il suo vissuto nei colori e odori degli aranci, e la sua morte nel verde amarognolo della menta, gusto tragicamente amaro per la sua perdita, il disamore, la fine di quella bellezza evocata dall’amore passionale che lascia l’amaro in bocca, simbolo di libertà e perseveranza dei propri ideali. Ci sono i colori della bandiera spagnola, il giallo e il rosso, lo spirito di un popolo e della sua terra, il duende, la connotazione del suo carattere. C’è il simbolo più alto del sangue spagnolo, la corrida de toros, dello spirito di dominio che è intrinseco nel carattere andaluso, del coraggio, della capacità di essere eroi e di saper affrontare il rischio. C’è la lotta tra il bene e il male, tra la verità e la falsità, tra la luce e l’ombra. Un combaciare dell’anima di García Lorca con quest’aspetto eroico del sangue spagnolo, lo spirito della Terra che in lingua spagnola è il duende, che gli scorre nelle vene, capace di saper vivere e morire da eroe, per un ideale incarnato nel toreador della corrida, piuttosto che morire ogni giorno, come uno spirito sottomesso, sottoposto alla cattiveria della volontà di una società falsa, che si nutre di pregiudizi facendo prevalere volontà partitistiche di politiche nazionalistiche retrograde e dittatoriali, piuttosto che aprirsi a una visione universale, piuttosto che esaltare e riconoscere la  vera grandezza della capacità letteraria di un genio come pochi. Una società che ha preferito spegnere e cancellare dalla faccia della terra un eroe che era insieme il toreador, nello spirito libero di dominatore e il Toro che incarna la verità nel suo sangue, il sangue veritiero, robusto di tutto un popolo spagnolo caliente e passionale. Uccidendo García Lorca, con la sua eliminazione, il partito nazionalista di Francisco Franco ha voluto uccidere un simbolo, il simbolo di un eroe non imbrigliabile, non incanalabile, ha voluto con mezzi vili fare abbassare la testa, piegare e poi uccidere ed eliminare la verità, il Toro che era dentro di lui, lo spirito della terra spagnola. Ma l’autore di questo volume, Lorenzo Spurio, afferma che l’esistenza di García Lorca si è fermata solo apparentemente, in un giorno d’agosto del 1936. Perché un genio non può morire, egli continua a vivere, è immortale, un’eredità di sangue che continua a vivere tra le carte, anche nella tradizione orale, nell’eredità delle nuove generazioni. Anche se colpito a morte da banderillas fatali, come una divinità dionisiaca, continua a vivere nell’anima di chi lo ama e sa riconoscere in lui l’eroe, lo porta in trionfo come un torero, allegoria di un eros della passione per la vita. García Lorca è quindi una totalità di torero e Toro insieme, che convivono in lui, come in tutto lo spirito e l’anima della Spagna.
Tutte le composizioni liriche contengono molti termini in lingua spagnola, riferiti a momenti della corrida, perché quella che in realtà si svolge nell’intero sviluppo lirico-narrativo di questo volume, che contiene undici liriche, è la scansionata visione, particolareggiata, dell’intera vita di Lorca, che procede inizialmente in modo lento e pacato, e poi il ritmo diventa sempre più incalzante, concludendosi con la morte stessa e la sua fine. Quindi questo volume convivono insieme la vita, il vissuto, la fine tragica conclamata, ma anche la corrida de toros, allegoria dell’intera passione e morte del poeta Lorca, come di un Cristo crocifisso dal suo popolo, dagli uomini dello Stato, un uomo, un genio, un eroe, sul quale è stato perpetrato un grave vilipendio.
Vogliamo cogliere alcuni aspetti peculiari di García Lorca che ci forniscono chiarimenti sulle liriche dell’autore di questo volume, Lorenzo Spurio. Uno è il tema della morte, trattato da Federico García Lorca nell’opera Romancero Gitano portato avanti sia nella vita reale che nell’impianto delle liriche lorchiane. Una teatralità che Lorca portava in scena nella vita reale. Portava in teatro la rappresentazione della sua morte, fingendosi cadavere. Un gioco che durava cinque giorni e che poi finiva, quando era certo di avere saputo accrescere l’angoscia negli amici, per il suo corpo in putrefazione. Poi allo scadere del quinto giorno, si alzava e scoppiava in una risata. Una teatralità che ritorna nella simbologia della corrida nelle liriche di Lorenzo Spurio. Un secondo aspetto è il dramma sofferto della omosessualità di Lorca, della sua ipersensibilità, del dolore causato dalla lotta ai pregiudizi del suo tempo, che negava la libertà sessuale, della vicinanza alla condizione femminile, a quel tempo costretta entro limiti ristretti, senza alcuna possibilità di potersi esprimere e determinarsi in piena libertà di pensiero, e di diritti di parità di genere, negati e repressi. Ma c’è anche in García Lorca la comprensione degli ultimi, del gitano, dei neri, degli ebrei, dei deboli. La lotta per la sua stessa determinazione è anche la lotta per i valori umani universali. Nell’arena, nella corrida c’è anche la sua stessa sottomissione, la sottomissione della donna, la privazione delle libertà e dei diritti umani dei diseredati. Nell’autore Spurio, notiamo un aspetto per noi non secondario, anzi piuttosto rilevante e connotativo che va colto. L’eredità di sangue ipersensibile, una tipologia di sangue che combacia tra García Lorca e Lorenzo Spurio, quasi una tipologia di gruppo sanguigno simile. L’autore di questo volume si sente vicino allo spirito della terra spagnola, il duende, nella piena coscienza di dar voce, come faceva il genio andaluso, agli ultimi e ai diseredati. Una ribellione a quello stato che uccidendo il suo mito ha ucciso anche l’umanità degli oppressi. Non è stata, l’uccisione di García Lorca, da parte dello Stato spagnolo un atto di coraggio, ma un atto vile, l’azione obbrobriosa, di uno Stato forte, autoritario, contro chi non può difendersi e ribellarsi. In tal senso García Lorca non è solo un eroe per sé stesso, nel senso di un eroe che è stato privato della vita, oppure che ha saputo vivere con coraggio la sua omosessualità palesandola chiaramente nelle sue opere. Ѐ soprattutto l’eroe di tutta la Spagna, per avere vissuto con passione tenendo alti i valori degli ultimi. La lotta contro la sopraffazione immotivata, l’aiuto ai deboli contro i forti. E in tal senso Lorenzo Spurio ci mostra come il genio andaluso è anche l’eroe del mondo intero, merito che gli va riconosciuto, messaggio che secondo noi è insito in questo volume, come pure anche il desiderio, da parte dell’autore Spurio, che questo diritto gli venga riconosciuto dal mondo intero, come tale. Diritto fino a questo momento poco espresso, e solo messo parzialmente luce.
Come un pianeta prende la luce da una stella e s’illumina a sua volta, definiamo l’opera di Lorenzo Spurio una gran bella opera, non è certamente solo un pianeta l’autore, pur nella sua modestia, riuscendo a splendere anch’egli, come una stella, di luce propria. Ogni lirica di questo bel volume rimanda a un testo poetico di García Lorca. In “La luna si nasconde” c’è la bellissima metafora della mariposa, termine spagnolo per indicare la farfalla che prova più volte a volare, ma ricade sempre: “a stento provò il volo ma cadde e ricadde, neppure un alito di vento a sostenerla”. Nella lirica, come in una rappresentazione scenica, va in scena il ruedo. In un ipotetico paesillo, come nell’arena, con una terminologia forte di sinestetiche figure che dipingono uno scenario da film horror si perpetra lo scempio del vilipendio del Toro (García Lorca). L’autore, Lorenzo Spurio, vive quasi su di sé la tragicità del momento, come se lui stesso fosse presente sulla scena dell’abominio, e attonito, senza parole che però tuonano nella sua mente, grida e si dispera con un canto funebre di dolore, esprimendo la sua rabbia contro gli esecutori del vile atto di sangue con termini poetici tonanti e grondanti di “sangue /come libertà dissanguata /occhi neroseppia /cristallino smorzato /retina sprofondata /palpebre impantanate di rena e di miseria”. È come se l’autore Spurio con queste atroci descrizioni volesse rendere palese il grave torto subito dal poeta granadino, ma è anche uno schierarsi contro l’azione crudele dello Stato che ha ucciso un innocente. Anche un volere con la sua presenza silente in quel luogo, lui che gli è amico, lenire ed essere compartecipe del suo dramma. Un amico, il solo essere umano che consola e capisce. Senza nascondersi come invece fa la stessa luna a cui l’autore marchigiano chiede: “ma alle cinque, tu dov’eri?” e si chiede anche nel momento tragico dello sparo “inginocchiato d’angoscia /cosa occupava il giardino della tua mente?”. L’autore finisce poi per non disperarsi più e non disperare, perché sa che il genio andaluso continua a vivere nella natura che amava, che lo ha compreso meglio degli uomini, che lo ha accarezzato con le erbe, che ne hanno accolto e nascosto il corpo per sempre, quasi a punire l’umanità privandola di dargli degna sepoltura, privando l’umanità di un tal genio ed eroe, voler punire quel gesto insensato. Ma è anche da parte dell’autore un volere divinizzare, nello spirito dionisiaco il genio andaluso, innalzarlo agli allori divini.
La mancanza di una sepoltura, di ritrovamento del suo corpo suona come un’assunzione in cielo, nella mescolanza del suo spirito, della sua la passionalità, il duende, e il suo alito nel cielo e nell’aria. Aria che l’autore di questo volume, il poeta e anche scrittore, vuole respirare e indurre il lettore a fare lo stesso, ad amare quel genio per la sua ipersensibilità, per la sua capacità letteraria, in modo che si riesca a capirne la genialità e a capirlo anche nel suo intimo come essere non capito dalla società, ora che i tempi del rigorismo sessuale sono finiti, e anche un riabilitare la sua omosessualità e farla diventare una naturale essenza, un modo normale d’essere e stare bene con gli altri, libero di vivere la propria sessualità e il diritto d’uguaglianza. La natura in Federico García Lorca, come pure in Lorenzo Spurio, è una dolce natura dannunziana che parla, accarezza, capisce, sente, vive ed è della stessa lunghezza d’onda di alcuni esseri umani ipersensibili. In questo aspetto c’è secondo noi, un voler propendere, da parte dell’autore di questo volume, per affinità sensibile di carattere, più per la natura che per gli uomini. Un volere essere almeno dalla parte di alcuni uomini che hanno dentro lo stesso spirito della Terra, e stanno emozionarsi e sentire il dolore più degli altri. Gli uomini al tempo di Lorca non hanno compreso il genio andaluso, non hanno capito che lui era affine alla natura, ecco perché egli stesso, nelle composizioni lorchiane, diventa natura, e poi alla sua morte lo fa realmente scomparendo con il corpo dalla vista degli uomini.
Tutte le liriche respirano l’alito della natura, attraverso gli insetti, le piante, gli animali, “e da allora le rane vagano stordite e deluse cariche di disprezzo per la vita che urge”. Una natura che sa riconoscere i suoi figli e distinguerli tra gli uomini che innaturalmente la rinnegano perpetrando crimini inconcepibili. Nella lirica “L’odore dei tuoi colori” l’autore scrive: “non si è soli al mondo, ma ci si può sentire”, chiaro il messaggio di comprensione verso García Lorca, che pur vivendo insieme agli altri nel suo tempo, si sentiva tremendamente solo, per non essere capito sia nell’intimo modo di sentire, molto particolare, e attento ai bisogni dei meno fortunati, e anche per non essere capito e additato per il proprio orientamento sessuale, “rubasti i colori all’entorno e li bevesti a sorsi, li liquefacesti nei versi pregni di vero e li inalasti”. Qui in questi versi l’autore mostra come la solitudine del genio Lorca viene riempita dalla poesia che ristora, che accoglie l’animo del poeta, la sua verità, gli consente di sfogarsi e lo appaga riempiendo i vuoti della sua anima. Federico García Lorca, pieno di eros passionale, non può sfogare liberamente il suo sentire, quindi mescola il suo spirito, la sua anima nei suoi versi e dopo averli scritti e riletti li inala. Un passaggio dello spirito alle carte e dalle carte allo spirito che si rigenera e riempie il vuoto della solitudine del suo tempo. Ancora nella lirica “Nella magnolia” il poeta Spurio dà al lettore delle indicazioni su dove cercare e trovare lo spirito di García Lorca. Utilizzando l’alternanza tra i non… e i ma…. che tornano e ritornano nei versi egli ci guida verso il fiore bianco della magnolia ritrovando il suo mito, il genio andaluso nel colore bianco della magnolia che a volte si accende di viola. E lì che l’autore riesce a incontrarlo e a parlargli. In quella parte della natura scevra da spigolosi pungiglioni e piena di nettare di zagare. Insomma lo spirito del poeta andaluso, spogliato dal dolore, svolazza ora tra le dolci note di una natura splendida dove nessuna foglia acuminata deve sfiorare minimamente la sua anima per ricordargli il dolore provato e vissuto in vita, sia dolore psichico che fisico. Nella lirica “Corolla(rio) dell’acqua” l’incidentale che contiene il termine rio conferisce all’acqua un carattere imbrattato di sangue: “oggi l’acqua è densa e livida” la metafora allude, a nostro parere critico, agli umori di un corpo liquefatto che insanguina l’acqua che poi penetra nella terra che ne assorbe lo spirito. Una compenetrazione dello spirito, il duende, di Lorca, nella terra grazie all’acqua che accoglie, certamente restia, il sangue e il colore, diventando a sua volta da acqua limpida e purificatrice acqua che si nutre della cattiveria umana. C’è nel termine composto corolla-rio, il duplice significato della bellezza della natura che deve assistere inerme al dramma della morte di un innocente, e nel termine acqua il fluire lento del flumen che accoglie gli umori del corpo che muore nella sua dimensione terrena.
Col sonno lento l’autore vuole esprimere l’immortalità che supera la morte nella resurrezione dell’anima, che rimane incarnata nella terra e nell’aria. Una fede profonda traspare sia nella poetica lorchiana, che nell’animo dell’autore di questo volume, Lorenzo Spurio. Una vita che continua oltre la morte, l’anima che supera il dolore e travalica le nefandezze, diventando stella. La lirica “Tagliami l’ombra” s’ispira alla poesia di Lorca “Canción del narajo seco” ed è una chiara metafora panica. I vestimenti e le parti del corpo del poeta granadino diventano: “le scarpe grilli, le mani crocevia di fiumi, gli occhi fontane”. Nei versi “il sole non si minaccia” c’è un imperativo categorico e il rimprovero a un gesto immane, orribile. Il genio andaluso è il sole. “Nella sfida del cardo col pompelmo vince la formica che domina entrambi”. La formica rappresenta il canto lieve della poesia che agisce singolarmente nel poeta, e si espande come un formicaio nella memoria collettiva. Nella lirica “Lamento dell’infante sprofondato” il villaggio, teatro di morte è il luogo dove si consuma l’uccisione del poeta andaluso, diventa un presepe di quiete. Qui il genio andaluso diventa “el niño” come un piccolo Bambino Gesù che la morte non coglie, perché lui continua a vivere ancora dopo morto, al bordo del fiume (rio) con risa soavi. Le risa sono un chiaro riferimento alle risate di Lorca a lui consuete. Nella lirica “C’era Amnon” il poeta Lorenzo Spurio s’ispira alla poesia lorchiana “Tamar y Amnon” del Romancero Gitano. Una poesia dai toni forti d’accusa verso l’ingiustizia. Un’ode di ribellione ai torti e alle violenze subite dalle donne stuprate, vessate, abusate, sfruttate. Un volere rinnegare Amnon, dio del male che “massacra dignità”.
Nella lirica che conclude l’elenco delle undici composizioni dal titolo “Non lontano dal limoneto” è presente lo spirito vitale del poeta granadino che ci indica dove lui ancora vive: “io vivo nell’acqua e nella roccia /le ortiche mi cingono stretto e le libellule danzano davanti ai miei occhi /vi benedico con manciate di stelle tiepide ma non credete di trovare il posto della morte /non sono lì dove mi cercate, dove volete che sia /ho stretto un patto di sangue con le foglie dell’acero”. Il poeta García Lorca, qui, in questa lirica, prende lui stesso la parola in prima persona. È vivo nello spirito. È vivo nella natura. È vivo nell’aria e nel cielo. Vive ancora il suo spirito oltre la morte. In questa riflessione è, secondo noi palese, nell’autore Lorenzo Spurio, non soltanto il volere esprimere il concetto della visione immortale di un genio letterario, che vive nell’eredità dei suoi scritti, delle sue carte, c’è soprattutto la Fede nella sopravvivenza dell’anima particolare, che diventa in tal modo un comune sentire nella visione della sopravvivenza dell’anima universale, la visione di Dio. Lorca quindi non è solo il genio andaluso, ma è il simbolo di un povero Cristo che ha preso sulle sue spalle la Croce del suo tempo. E vive ancora oggi nell’eredità dei suoi scritti, nell’essere ricordato in un’opera come questa, del poeta Lorenzo Spurio, c’è l’intento dell’autore di diffondere il suo genio letterario per farne vedere la gigantesca portata, ma anche volergli restituire la dignità umana per un torto perpetrato a un innocente. Un genio letterario che è stato soprattutto un uomo, condannato dagli stessi uomini, proprio come Cristo. E nel farlo rivivere e diffondere la sua genialità, c’è anche il messaggio universale di far trionfare la verità contro la falsità, lo stesso intrinseco messaggio della tauromachia, del Toro che riesce a sopravvivere nella corrida perché incarna la verità. Dare spazio alla luce tra le ombre. Fare rialzare la testa non solo al toro spagnolo, soprattutto agli ultimi, alle donne, ai diseredati, agli oppressi, agli ebrei. Un messaggio tonante di ritorno ai valori della Fede del Cristianesimo delle Origini per la salvezza di tutti gli uomini, del mondo, per l’affermazione e la ricerca dell’uguaglianza, per la determinazione e l’esaltazione dei Diritti dell’uomo, così com’è scritto nella “Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e del cittadino”, che dovrebbero essere rispettati, e invece ancora oggi lo sono soltanto in minima parte, senza il dovuto rispetto per la dignità umana.
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