Maria Garraffa, Antonella Sorace, Maria Vender, "Il cervello bilingue" (Carocci editore) - di Carmelo Fucarino

Da secoli nel mondo occidentale chi ha avuto la presunzione di fare il poeta, nell’innocenza della gioventù e con maggior discredito da adulto, ha fatto sempre rimare amore con cuore. Era la prosecuzione moderna, tarda a morire della teoria umorale di Claudio Galeno (Roma, 130-200 d.C.), secondo la quale alla base del comportamento umano sono i quattro umori, sangue, flegma, bile gialla e bile nera (cf. i quattro elementi di Empedocle di Agrigento) e quindi fosse il cuore motore di tutti i sentimenti.

Eppure già nel V secolo a.C. il suo maestro Ippocrate di Cos (circa 460-370 a.C.) aveva affermato che  «L'uomo deve sapere che null'altro che dal cervello hanno origine piaceri, gioia, riso, gesti, e pure dolore e tristezza, sconforto e lamenti. Attraverso il cervello pensiamo, vediamo, ascoltiamo e distinguiamo il bello dal brutto, il male dal bene».

In tempi moderni dalla constatazione di Niels Stensen, (in latino Nicolaus Steno, 1638 - 1686) che il cuore è vere musculus un passo avanti fu fatto da René Descartes (1596-1650) con la sintesi monistica e dualistica del suo celebre “cogito ergo sum”, e l’ipotesi che la ghiandola pineale del talamo fosse base di interfaccia tra cervello e mente con le sue capacita critiche e riflessive.

In questa  sede sarebbe impossibile seguire il percorso che a partire da quelle prime intuizioni ci ha condotto alle neuroscienze moderne, dall'opera di Wilhelm Wundt (1832-1920) e al laboratorio di Lipsia del 1879 che creò la psicologia fisiologica sperimentale dal cervello olografico di Karl Pribram (1919-2015), alla natura degli impulsi nervosi del fisiologo Hermann von Helmholtz (1821-1894), allo strutturalismo di Edward Bradford Titchener (1867-1927) fino al funzionalismo di William James (1842-1910), dalla psicologia della Gestalt fino alla scuola a impronta cognitiva di Jean Piaget negli anni ‘30. Per giungere alla successiva evoluzione dell’”Uomo neuronale” di Jean-Changeux (neurogenesi, sviluppo delle reti di interconnessione tra neuroni (dendriti), selezione delle interconnessioni dendritiche in funzione della definizione di processi preferenziali di integrazione della elaborazione cerebrale della informazione (ipotesi del «darwinismo neuronale»).

Da qui ho cominciato la mia esperienza con la psicologia, io, iscritto a lettere classiche, ma consapevole dell’esigenza fondamentale di conoscere queste scienze, se volevo essere un buon docente. Perciò il corso di pedagogia sulla drammatizzazione della storia con Vittorio D’Alessandro (Esperienze di drammatizzazione della storia, 1976), ma soprattutto con Gastone Canziani e il figlio Fabio con le lezioni sulla psicologia dell’infanzia e l’impatto con Jean Piaget (1896-1980) e la sua rivoluzionaria “epistemologia genetica” e la conoscenza continua a partire dal ventre materno (L'epistemologia genetica, Bari, Laterza, 1971).

Da queste basi di linguistica e di psicologia sono stato coinvolto e travolto dall’informatica con la nascita della metafora di “cervello elettronico” e all’uomo come elaboratore di conoscenze (il paradigma HIP: Human Information Processing). E mi sono perduto tra avatar, droni e intelligenze artificiali fino a giungere alla “Teoria Ecologicamente Valida”. Non certo fino ad acquisire l’angoscia di un preconizzato governo cosmico di intelligenze artificiali, ma curioso di vedere come questa complessa interazione tra macchina costruita per compiere azioni umane possa in un futuro riuscire a pensare autonomamente e secondo il suo arbitrio e scelte intellettive.

Le lingue sono state la base della mia biografia. Non si è trattato della segregazione nella turris eburnea delle lingue classiche, greco e latino, ma l’esperienza si è integrata con la conoscenza delle lingue moderne. A parte la scelta di due corsi universitari di inglese ad approfondimento dell’approccio della media e del superiore, le altre lingue, francese e tedesco, hanno tentato sempre e avviato un approccio, anche se di carattere letterario e tecnico. Il  fascino delle lingue ha portato nella mia libreria una grammatica di arabo e cinese che guardo con rispetto. L’esperienza del plurilinguismo mi ha condotto allo studio del russo e alla frequenza di un corso a Duni nei pressi di Leningrad. Allora. E si trattò di un incontro necessario diverso da quello normativo e scolastico, subito come tutti gli altri insegnamenti, perché non se ne insegnava la funzionalità e progettualità come laboratorio cerebrale, ma si finalizzava ad un eventuale viaggio all’estero. Il gioco non valeva la candela. Qualche spiraglio di confronto antitetico fu l’esperimento del mio Liceo Garibaldi di Palermo negli anni Noventa scorsi con l’introduzione dell’insegnamento bilingue (all’inglese la parte del leone) non solo al Ginnasio, ma anche nelle tre classi liceali. Certamente un progetto effimero e con effetti temporanei non essendo poi mantenuto come una pratica assidua e perenne alla conclusione del ciclo scolastico, ma pur esso importante per rendere elastico e comparativo il paragone con le lingue classiche. Ma questo sistema resta valido, come pure per il plurilinguismo degli istituti tecnici, industriali e commerciali, nonostante ristretto alla specifica sfera linguistica, scientifica o epistolare, se essa si traduce in una esposizione costante e non si conclude con la pratica scolastica.

Questo ho voluto premettere alla lettura, diciamo allo studio del saggio Il cervello bilingue scritto in cooperazione tra Maria Garraffa, Antonella Sorace e Maria Vender (Carocci editore @ Bussole, Roma, febbraio 2020) che mi ha coinvolto e affascinato per l’ampiezza e la profondità dell’analisi e la concretezza dei risultati.

Certamente assai difficile risulta la scrittura di un testo prettamente scientifico a tre mani. Si tratta soprattutto di possedere una base formativa identica, di raggiungere una solida visione di insieme delle questioni da affrontare, di riuscire a redigere un piano di sviluppo e di sequenze delle questioni, di inter-correlarle tra di loro, creando un unicum di pensiero, di ideologia o di ipotesi, completate ed esposte in uno sviluppo narrativo.

Partiamo dalla base biografica e professionale. Maria Garraffa, cervello profugo da Palermo, insegna Neurolinguistica alla Heriot-Watt University di Edimburgo e dirige un laboratorio di ricerca (LangLifeLab); anche Antonella Sorace insegna Linguistica acquisizionale ad Edimburgo e dirige un suo centro di ricerca (Bilingualism Matters); Maria Vender insegna a Verona Apprendimento e didattica della lingua (membro laboratorio di ricerca LaTeC).

Il titolo già predice e sintetizza l’argomento della ricerca. È evidente che il protagonista dell’indagine è il cervello, ma questa volta non elettronico o espressione di intelligenza artificiale.

È il cervello umano che viene semplicemente visto ed analizzato nelle sue inter-relazioni con il contatto con un bilinguismo, anche se non viene ignorato l’arricchimento del plurilinguismo. Si è trattato di analizzare i diversi piani del parlare due o più lingue in una sequenza diacronica, dai primi mesi alla giovinezza, e sincronica tra due lingue, senza trascurare anche l’esperienza svolta in età matura. La questione è di estremo interesse in una società globalizzata, in cui le connessioni con parlanti diverse lingue diventa imprescindibile. Essa è pertanto vista in un parametro di comunicazione linguistica e per tale si intende la lingua come organo fonatorio (la greca γλῶσσα, glossa, ‘lingua’, che tradisce il suo etimo nella scienza della glottologia delle mie lettere classiche che non disdegnarono pure un corso di linguistica). Perciò i suoi problemi che partono dalla fonetica e si sviluppano nella morfologia e nella sintassi, con le graduali ed intermittenti implicazioni letterarie e di scrittura, la bestia nera di Theuth nel Fedro platonico.

In una certa società elitaria tra le classi alte di Russia e Polonia che parlavano francese, ma anche nella pazza aberrazione di certi dipartimenti scientifici italiani di insegnare in lingua inglese, la imperiosa lingua dominante, nei Politecnici, ma anche in Scienze sociali, si collocava in un certo tempo anche la scelta di imporre l’improbabile lingua italiana, esecrando in modo assoluto il dialetto. Sappiamo come si sia formata tale lingua su basi letterarie e sia oggi imbastardita da arditi barbarismi e da fantasiosi neologismi spesso inventati per ignoranza linguistica. L’assunzione del dialetto come prima lingua è un segno di intelligenza e di rivoluzione storica dopo l’improba unificazione di un popolo attraverso la imposizione coatta di una lingua inventata. Noi di una certa età siamo stati esclusivamente fruitori del siciliano, per di più variegato a seconda del paese e della zona, esso è stato la nostra lingua prima, quella che con una metafora diciamo “lingua materna”.

Il testo si articola secondo un processo interlocutorio conseguenziale. Si comincia con la prodromica e necessaria definizione di chi è bilingue, segue la parte sincronica centrale dello sviluppo delle due lingue attraverso la fonologia, il lessico e la morfosintassi, i loro incontri e scontri in una differente valutazione delle lingue. Assunti i principi di base l’analisi si estende allo sviluppo nell’arco della vita, quell’infinito apprendistato che ci arricchisce senza sosta, da un apprendistato infantile ad una pratica di acquisizione adulta. Le parti successive sono più tecniche, i neuroni per due lingue, e ancor più settoriale il bilinguismo atipico. A concludere a ripresa del concetto di “bilinguismo” il suo forte impatto socio-politico, negli scontri tra lingua dominante e minoritaria, in un globo in cui l’emigrazione, di qualsiasi origine, per bisogno o per persecuzione, è ormai un fatto inarrestabile, tra razzismi beceri e antistorici e inutili respingimenti, tra ambigui concetti di integrazione e assimilazione o semplice naturale accoglimento. In ogni parte e da parte di tutte le ricercatrici la conclusione sfata la convinzione che il bilinguismo possa portare confusione nel bambino normale, o «peggiora un disturbo linguistico», ancor più negli atipici (DSL, dislessia, autismo schizofrenia, ipoacusia, sindrome di Down), ma insiste con continuità in ogni sezione nel mettere in luce i positivi ed incontrovertibili effetti preventivi del bilinguismo sul cervello umano e sul declino di funzioni cognitive e biologiche, fino a prevedere e accoglierne i benefici e il valore terapeutico su di lui, e nelle sue regressioni senili, come “riserva cognitiva”, “per un invecchiamento sano”. In estrema sintesi, «Il bilinguismo, lungi dal generare effetti negativi, può anzi determinare importanti e molteplici effetti positivi e va pertanto sempre salvaguardato e supportato» (p. 102). È comunque certo nel suo esito più elementare che il bilinguismo attiva «una maggiore conoscenza spontanea di come funziona il linguaggio…Un’importante abilità metalinguistica che i parlanti bilingui sviluppano è una maggiore abilità di distinguere tra forma e significato delle parole». Grazie a questa introspezione e alla maggiore abilità metalinguistica inoltre «imparano a leggere prima dei monolingui» (p. 17).

Accattivante la veste tipografica, anche se avrebbe migliorato la lettura una maggiore dimensione e una migliore scelta dei caratteri, il testo si legge con curiosità ed interesse per la molteplicità delle provocazioni.

Completano il testo un glossario e ben 15 pp. di bibliografia su un testo di 121 pp.

 

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