“Parola e realtà nella narrativa di Han Kang” di Maria Nivea Zagarella

Diciottesimo premio Nobel femminile della Letteratura (10 ottobre 2024), la scrittrice Han Kang, nata nel 1970 a Gwangju in Corea del Sud ha affermato in una intervista che la letteratura la accompagna e la protegge dalla durezza del mondo fin da bambina. La notazione autobiografica trova una “indiretta” conferma nelle motivazioni del Premio assegnatole circa un anno fa per l’intensa prosa poetica che affronta i traumi della Storia e mostra la fragilità della vita umana; conferma “diretta” invece nelle sue pagine, fin da uno dei primi racconti, Il frutto della mia donna (1997), che ampiamente rielaborato diverrà il romanzo La vegetariana (2007) reso famoso dal Man Booker International Prize (2016). Due sono le linee della sua narrativa, quella della testimonianza storica, fra denuncia dei carnefici e risarcimento memoriale per le vittime, e quella dello scandaglio di drammi intimi soggettivi, che per lo stretto legame fra sofferenza psichica e disagio del corpo, fanno anche di questo la cartina di tornasole della violenza contingente del mondo e del male di vivere metastorico. In Atti umani (2014) e Non dico addio (2021) parlano “a più voci” protagonisti e testimoni di lancinanti traumi collettivi: nel primo, il massacro a lungo nascosto di 2000/3000 persone durante la rivolta nel 1980 a Gwangju contro il dittatore Chun Doo-hwan che resterà al potere fino al 1988; nel secondo, l’uccisione nell’isola di Jeju fra fine 1948 e inizio 1949 di 30000 civili sospettati di comunismo. Ma anche in romanzi e racconti che ruotano attorno a traumi soggettivi l’effetto-società nella sua attuale “strutturale” violenza ipertecnologica e di segno maschile, e nella sua radicale indifferenza al dolore/solitudine dei singoli è palpabile, determinante.

Nella Vegetariana il rifiuto di Yeong-hye di mangiare carne e il successivo desiderio -per non operare lei stessa violenza- di diventare pianta, nutrendosi solo di acqua e sole, scattano dopo il sogno/incubo (e metafora) di una baracca in un bosco piena di carne animale appesa che gronda sangue. Ma già la moglie del su citato racconto del ‘97 si  trasforma in pianta nella veranda al tredicesimo piano di un palazzone odiato dalla donna come le altre migliaia di edifici tutti identici, su cui cade una pioggia sporca, nera di moccio e saliva visibile segno di un paese marcio dentro, donde il sogno di crescere alta come un pioppo per sfondare quel cemento armato e superare il tetto in cima a tutto. Se nella Vegetariana vengono più ampiamente sviluppate l’indifferenza del mediocre marito Cheong e le prevaricazioni del violento padre di Yeong-hye, veterano della guerra del Vietnam, e del cognato-artista sopravvissuto al massacro di Gwangju del 1980, nel breve Il frutto delle mia donna non appare meno “disattento” l’anonimo marito al punto che, sbollito l’ardore dei primi tempi del matrimonio, a lungo non si è accorto, nei notturni rapporti di routine al buio con la moglie, dei crescenti lividi azzurri sul corpo di lei, somatizzazione della sofferenza/ribellione di quella a vivere nei palazzoni di Sanggyedong con settecentomila persone stipate tutte assieme, e prefigurazione della sua metamorfosi in un vegetale, con il corpo infine verde scuro, il viso che brilla come la foglia di un sempreverde, i capelli lucenti come steli di erbe selvatiche, fiori di un rosso cupo sbocciati dal suo petto, e frutti duri come i semi di girasole… e con un retrogusto (significativamente) amaro. Il marito non ha mai veramente tenuto in conto le lacrime di lei sulla non-vita (Questa non è vita… le assomiglia solo) in quel luogo così soffocante e assordante per le macchine, anzi si mostra irritato della infelicità della moglie, che manda in frantumi la sua conquistata egoistica felicità/appagamento per il lavoro non troppo gravoso, per il mutuo quasi estinto dell’appartamento, per il fatto di avere una moglie non bellissima ma con tutto ciò che aveva sempre desiderato in una compagna, “appagamento” da lui paragonato ad acqua tiepida che sciaborda dolcemente contro le pareti di una vasca da bagno, carezzando il [suo] corpo esausto. Il tutto però agli antipodi dell’irrequietudine vitale della moglie (Non sono mai stata felice… Il mio solo desiderio è sempre stato di scappare… di spaccare il vetro [dell’autobus] con il pugno...), la quale prima di sposarsi, lasciato il lavoro, sognava di spostarsi continuamente da un paese all’altro fino ai confini del mondopoco alla volta!.

Parimenti intrappolate dalle convenzioni sociali e in fuga intima dal mondo le due sorelle del racconto Convalescenza (2013), diverse nel carattere, ma uguali nell’inconfessato reciprocamente malessere esistenziale. Anticonformista la minore, con vita indipendente nel suo monolocale e abituata a indossare vestiti dai colori vivaci e sciarpe bianche e gialle, estranea ai negozi di alta moda; sposata bene la maggiore (a un proprietario d’azienda bello e di 8 anni più anziano) e con appartamento di lusso e servizi da tavola degni di una famiglia reale, ma dagli occhi inespressivi e distante da tutto ciò come se scansasse del cibo dall’odore nauseante. Pure la minore, soltanto quando va in bicicletta a ruota libera, ha la sensazione di non essere esclusa da tutta la sfolgorante felicità di questo mondo, e solo dopo la morte della sorella si dirà e le dirà con parole mute che le pizzicano la gola come uno spillone rovente: Neanch’io riuscivo a guardare avanti… Cercavo solo di tenere duro… altrimenti mi sentivo in ansia. Molto affezionate l’una all’altra prima dell’aborto giovanile in segreto della sorella maggiore, che quel giorno volle con sé la minore Jeong, ma da allora non volle più amarla, le due sorelle negli anni si faranno sempre più fredde l’una verso l’altra, e la maggiore, invidiosa della presunta libertà/felicità della minore, affronterà da sola prima gli sforzi vani per quasi 10 anni di avere un figlio, poi il tumore, lamentandosi per il dolore fino alla fine: Fa male, fa male -diceva- piangendo come una bambina. Dopo la morte della sorella, Jeong, tutta vestita di nero (neri maglione a collo alto, giacca, pantaloni, scarpe, nella stessa tenuta funebre della donna muta del romanzo L’ora di greco) non fa che chiedersi cosa è andato storto nel loro rapporto e chi delle due fosse più fredda. Rimorde insomma a Jeong tutto il non-detto, l’affetto resistente ma celato e represso, e il non essere state capaci le due sorelle di incontrarsi sul piano della comune esperienza di irrevocabile fallimento/disagio esistenziale nonostante le apparenze. Le rimorde al punto che caduta dalla bicicletta per avere urtato un masso vicino al torrente e indolenzita in più punti (a parte l’ulcera in cura alla caviglia sinistra) prega alla rovescia un dio, non importa quale (sic!), perché non guarisca da quei piccoli dolori e perché il suolo freddo diventi ancora più freddo cosicché [la sua] faccia e il [suo] corpo si ghiaccino completamente e non si rialzi più.

Una riconciliazione invece con la vita tenta il romanzo L’ora di greco (2011). In esso Han Kang provocatoriamente torna alle radici delle lingue, quando gli esseri umani passarono dai suoni inarticolati (ooohuuuh) alle prime parole “significando“ se stessi e il mondo. Perciò la “fuga” della protagonista/poetessa (divenuta muta per cumulo di traumi familiari e sociali) dalla sua lingua odierna, sfilacciata dall’uso di migliaia di anni e quantità incalcolabili di parlanti/scriventi col suo cuore antico ormai rattoppato prosciugato inespressivo, verso lo studio del greco. Il greco di Platone, lingua morta e all’apogeo della sua perfezione, per “scavare” (vedi le frasi zoppicanti, elementari che vi costruisce) nell’esercizio didattico di quelle antiche strutture il “coartato”,  l’ “inespresso”,  l’ “autentico” di sé stessa, e riaprire il “disgelo” dell’umano nel fondo puro della sua lingua materna, quando alle sue origini luce/colore (alias bello/sacro) erano un’unica parola: bit. Nell’ora di greco le due solitudini, Lei e il professore semicieco, si incontreranno prima in silenzio, si riconosceranno, si salveranno infine in una esperienza breve di reciproca tenerezza (I cuori e le labbra che si toccano, uniti ed eternamente separati). Ma nulla di rugiadoso ci sarà nella conclusione, anzi di severo, se della letteratura Han Kang dice che spesso essa è una agonia, una lotta per capire qualcuno, un movimento verso le motivazioni più profonde. E il romanzo sarà uno specimen anche di questo, se il professore confesserà a se stesso nel capitolo 20 di avere già percepito a lezione la donna-muta come una persona spaccata a metà, anzi, in tre, no in più parti ancora, come un oggetto muto sopravvissuto per un pelo a qualcosa, come una sorta di rovina. La narrazione sviluppa alternativamente e separatamente lo scandaglio dei loro due “io”, rinchiusi inizialmente nei loro bozzoli fino a quell’intesa finale negli ultimi tre capitoli, “intesa” reciproca, profonda, silenziosa, che ha quasi paura di manifestarsi a se stessa, se nel cap.19 la donna-muta, assai attenta all’ascolto di sé e della “voce” del professore che si racconta e le parla, vuole quasi tirarsi indietro. Leggiamo infatti: Lei si dice che non riesce più a distinguere a chi appartengano le parole che sente… No, non ha sentito nulla. Non ha intravisto la vita interiore di nessuno. Strutturalmente nel romanzo si alternano la prima e la terza persona. La prima, quando il professore di greco, un coreano costretto ad emigrare in Germania a 14 anni per seguire la famiglia e rientrato a Seoul dopo 17 anni, parla di sé, del suo passato e del suo oggi travolto dall’incombente cecità totale (capitoli 1, 3, 5, 8, 9, 13, 14) dialogando a distanza, e sull’onda della memoria, con la sordomuta tedesca ex primo amore dei suoi sedici anni, cui pensa ancora con ostinato dolore; con l’amata sorella Ran rimasta in Germania e soprano in un coro; con l’amico/ombra malato degli anni universitari, Joachim, della cui morte avrà la premonizione in un sogno. La terza persona invece quando la voce narrante accompagna, a prevalente focalizzazione interna, spostamenti, azioni, ricordi, reazioni della donna-muta, sposata, divorziata, con un figlio di 7 anni del quale il marito le ha fatto togliere l’affidamento, divenuta muta per la seconda volta nella sua vita dopo un analogo periodo di mutismo a sedici anni. E ancora la terza persona nei capitoli 4, 6, 10, 12, 15, 16, dove la voce narrante registra l’agire in aula del professore e dei 4 studenti (Lei, un dottorando di medicina, un signore di mezz’età, uno studente di filosofia), anche se è forte l’impressione che il tutto sia ancora una volta filtrato dallo sguardo e dall’orecchio attento di Lei, che è in parte proiezione autobiografica della stessa Han Kang. In altri capitoli (17, 18, 19, 20) la terza persona “segue” contemporaneamente Lui e Lei alternando focalizzazione interna ed  esterna. Il capitolo 21 invece (Il bosco degli abissi) è un brano “lirico” in cui è di scena il “noi” (Eravamo distesi fianco a fianco nel bosco in fondo al mare In quel momento eravamo vicinissimi./ Distesi, abbracciati stretti… Là dove non c’era luce né voce,/ tra frammenti di corallo sbriciolati dalla pressione/ i nostri corpi cercavano ora di risalire in superficie…), mentre la prima persona torna nell’ultimo capitolo (un capitolo che significativamente porta il numero 0), e a usarla questa volta è la donna, Lei, che può di nuovo articolare le sillabe, come svegliandosi fra timore e speranza da un lungo sonno-incubo: Quando pronuncio (sic!) infine la prima sillaba, chiudo forte gli occhi prima di riaprirli. Come se mi preparassi a scoprire, nell’istante in cui li riapro, che ogni cosa è svanita.

A questa conclusione conducono gradualmente le pagine in cui il professore, viaggiando fra i ricordi, mentre cerca di mascherare agli altri la cecità progressiva dietro gli occhiali verde-chiaro e imparando a memoria le frasi di greco, che poi commenterà a lezione fra indicazioni di grammatica e riflessioni sulle lingue, sul greco, sul mondo “ideale” di Platone, viene di fatto preparandosi, in solitudine, agli anni in cui, scomparso il mondo visibile dal suo orizzonte visivo, dovrà vivere solo di immaginazione. Nella tranquilla routine dell’insegnamento nell’istituto privato e nella Seoul estranea di schiene ingobbite nei cappotti e giacconi, che vanno a piccoli passi frettolosi sulle strade ghiacciate, sente tristemente scorrere su di sé l’enorme massa opaca del tempo nel rimpianto degli “abbracci” non dati (a Joachim, perché più passava il tempo, più mi desideravi… Perché io fuggii a gambe levate, ferendoti profondamente…) o non avuti (la giovinetta tedesca sordomuta, Ti amavo… non ti accorgesti [colpendomi con il blocco di legno] che dai miei occhi scorrevano lacrime brucianti?), dolorosamente consapevole che il corpo umano invece è nato per abbracciare, per desiderare di abbracciare qualcuno. Ancora più incisive le pagine centrate su di Lei, che alla sottile cicatrice degli anni della Germania che corre sul viso di Lui dall’occhio sinistro fino alla bocca, può affiancare la “sua” cicatrice al polso, cicatrice vecchia, che porta sempre nascosta da una fascia per capelli di velluto viola scuro, unica macchia di colore nel suo abbigliamento tutto nero, e che emergerà solo nel capitolo 19 come ricordo/allusione a un pregresso tentativo di suicidio nel corso del tormentato rapporto, gravido di violenza verbale, col marito. Per lo psicoterapeuta della donna il mutismo è scattato in lei per la recente morte per tumore della madre e per l’allontanamento definitivo dal figlio, che il marito, solido impiegato di banca, le ha fatto togliere dal tribunale perché il bambino non è più in età prescolare, perché primo nipote del figlio primogenito e l’unico maschio da parte paterna, per l’ipersensibilità di lei già oggetto di cure psichiatriche da ragazza e con un reddito irrisorio e discontinuo. La donna può tenerlo con sé solo una notte ogni due settimane, ma infine neanche questo, perché il padre lo manderà all’estero da una zia. Del suo rinnovatosi “nodo” alla lingua e alla gola però Lei sa bene che le due ragioni prima citate sono sì forti “concause”, ma non “uniche” cause, se già a sedici anni le era successa quella cosa, il blocco della parola e della scrittura. Han Kang non scende qui nei particolari, è reticente, allude, sottintende, ma è chiaro che alla base del disturbo psicosomatico della protagonista opera pure, sebbene nel romanzo sia taciuta, la lunga trafila di dittature (tranne la breve pausa del 1960/1961), ininterrotta nella società coreana dagli anni ‘48/’50 fino all’avvento della democrazia soltanto alle soglie degli anni ‘90, e con esse interagisce la cappa sulle persone dell’iper-efficientismo lavorativo e tecnologico-industriale del suo Paese  La voce narrante dice che la Lei-studentessa di 14 anni viveva già spaccata in due per certe parole aguzze come spiedi che le trafiggevano il sonno e la facevano svegliare di soprassalto, studentessa che a fine lezione passava dalla biblioteca di quartiere e prendeva in prestito libri diversi da quelli che le assegnavano in classe, studentessa che sentiva con una chiarezza agghiacciante ogni singola parola che le usciva di bocca e che anche nella frase più banale avvertiva verità e inganno, bellezza e bruttezza, “vivendole” quelle frasi come ragnatele bianche che si dipanavano dalle sue mani e dalla sua lingua: Le veniva da vomitare. Le veniva da gridare, così che a sedici anni il linguaggio, che l’aveva imprigionata e torturata come un vestito intessuto di migliaia di spilli, di colpo sparisce. Uno scarto profondo dunque pativa la giovane fra la realtà e le ”narrazioni” ufficiali di essa, una terribile disconnessione fra sé e il mondo, che a lei sembrava  di osservare come se stesse sott’acqua e oltre la superficie… le auto sfrecciavano rombando e i passanti le conficcavano (metafora della variegata violenza della società) i gomiti nella schiena e nelle braccia prima di dileguarsi. E non saranno le pillole dello psichiatra a guarirla, pillole che la sedicenne regolarmente seppelliva nell’aiuola di casa, ma il suono della parola francese biblioteque pronunciata casualmente a lezione dal professore di francese, ma parola/simbolo per lei -là dove in un punto più profondo della lingua e della gola i segni, il suono e il vago significato di quella parola si incontravano-, parola-chiave cioè di una possibile ”rifondazione”  di “significati“ e senso “altro” dell’esistere. E non è singolare che in una intervista Han Kang abbia dichiarato che il desiderio di fare la scrittrice sia nato in lei a 14 anni e che da allora tale desiderio non l’ha più lasciata? La vicenda adolescenziale della co-protagonista del romanzo ci fa capire che la donna-muta non ha solo precocemente avvertito la casualità, precarietà, oscurità, dell’esistenza individuale e del mondo (entrambi fragile bolla di sapone e sul punto sempre di essere inghiottiti dal buio) poiché sin da bambina le è stato raccontato che la madre incinta di lei, avendo assunto dei farmaci durante la gestazione per la febbre tifoide e temendo per la sanità del feto, aveva inizialmente pensato di abortire (altro elemento questo autobiografico del romanzo!). La donna ammutita ha pure precocemente sperimentato l’inaffidabilità/instabilità del linguaggio, la sua doppia natura di elemento/strumento che connette sì agli altri e al mondo, ma attraverso cui passano anche tutta la sopraffazione e le “ombre” del mondo. Al punto da preferire Lei, anche quando aveva la parola, di comunicare con lo sguardo, più immediato e intuitivo, un contatto senza un vero e proprio contatto. La tetraggine del mondo le si squaderna ora nella Seoul prevalentemente notturna, che Lei nel succedersi vuoto dei giorni percorre per ore e ore a piedi o in autobus fino alla più estrema stanchezza, per impedirsi di avvertire, rincasando, il silenzio deserto della sua casa, buttandosi così subito a dormire sul divano. La Seoul delle file di condomini bassi e desolati o dei palazzi con in cima giganteschi cartelloni digitali, i cui sottotitoli scorrono in basso come grossi pesci boccheggianti e le immagini dilatate delle notizie mostrano cadaveri sulle barelle, manifestazioni di protesta, aerei in fiamme, donne che piangono… o il sorriso (alienante) di una attrice con una profonda scollatura; la Seoul del frastuono dell’autostrada che le riga i timpani come innumerevoli lame di pattini, dell’odore nauseabondo dei gas di scarico mischiato a erba umida e rifiuti alimentari in decomposizione, degli innumerevoli negozi e strade illuminate a giorno e invase da musica a tutto volume, o buie, degradate, popolate di gatti randagi; la Seoul degli ubriachi di tutte le età che rissano davanti ai bagni pubblici, degli impiegati d’ufficio stremati e dei passeggeri degli autobus che siedono in un silenzio saturo di stanchezza, sconfitta, e di un che di stantio e vagamente ostile; delle caffetterie dalle luci abbaglianti e dei bar squallidi e rumorosi...,degli sguardi lascivi per strada che si accendono incrociando il suo e degli sguardi indifferenti persi nel vuoto. Tutti fotogrammi slegati, ossessivi, e “gelidi” anche nella Seoul afosa e estiva, rappresi nel silenzio spaventoso di Lei, che il professore in un suo monologo interiore, pensandola, paragona opportunamente a una mano congelata sotto una lastra di ghiaccio che aveva invano tempestato di colpi… un silenzio simile a un manto di neve accumulatosi su un corpo insanguinato. Ma anche alla sensibilità scossa di Lei le tracce di gesso sulla lavagna a volte si configurano come gocce di “sangue” bianco secco e dimenticato. Un “sangue” metafora/memoria di tragedie collettive e private! E un giorno a lezione -a conferma di quanto esposto finora- lo studente di filosofia chiede infatti, emblematicamente, al professore perché, se ogni cosa contiene in sé gli elementi che la distruggeranno (come l’infiammazione distrugge gli occhi, la ruggine il ferro), l’anima umana non [venga] distrutta dalla sua stupidità e malvagità. Forse perché -suggerisce la scrittrice- in fondo ad essa persiste anche la tensione verso la Luce, come mostrano la forte suggestione (altro elemento della autobiografia di Han Kang!) della Festa delle lanterne per la nascita di Buddha provata dal professore prima da quattordicenne e rivissuta poi da adulto (file e file di lanterne rosse e bianche che nel cortile del tempio di Suyuri oscillavano nel buio nero come l’inchiostro… avvolte come sempre nella quiete e nella bellezza più assolute), e il ricordo resistente in Lei della sensazione di incanto quando bambina pronunciava parole quali “bosco” , “mandarini”, “albero” , attimi in cui in un luogo più profondo della lingua e della gola, magicamente, segni suono significato e “cosa” prendevano corpo e facevano tutt’uno, nella quiete e nella gioia più innocente!

Perciò l‘approdo ai capitoli finali di cui prima si diceva, che si pongono come un teorema e un monito. Rottisi infatti gli occhiali di Lui, per l’imprevisto dell’assalto della cinciallegra contro il professore che tentava di farla uscire dal sottoscala dell’istituto, e accompagnato a casa da Lei, ascoltiamo in quelle pagine la “voce” di Lui flebile e insicura che nella nebulosa semioscurità del suo monolocale, la ringrazia e le viene, come in un riepilogo, raccontando in semplicità del suo passato, incrociando per tale via di Lei, in un analogo speculare muto riepilogo, i pensieri, i ricordi dolorosi (la madre morta, il figlio toltole dall’ex marito) e l’onnipresente sgomento storico-esistenziale. La squallida cioè Seoul dei senzatetto morti sotto strati di giornali, dei rombanti motori/lame-affilate-di-pattini, degli sguardi spenti delle persone la sera in metropolitana che guardano ognuna in una direzione diversa, in piedi spalla sudata contro spalla sudata, della schiuma maleodorante delle parole sciocche, false e/o micidiali. E mentre il contrappunto dei rumori che giungono dall’esterno della finestra ripropone la violenza/minaccia del mondo (i versi stridenti degli insetti che sembrano aghi che trapassano la quiete della stanza, il rumore distante e estraneo delle auto, la pioggia forte, scrosciante come se volesse crepare e sfondare strade e palazzi), la voce di Lui “incontra” il tocco morbido e caldo del dito di Lei che scrive, rispondendogli, sul palmo della mano sinistra di Lui non-vedente. La “luce” e il “calore corporeo” di quegli istanti di un vissuto “reciprocamente” compreso e teneramente condiviso nel silenzio reintegrano entrambi nella pienezza della loro umanità, prima dimidiata e naufraga nel correre del tempo verso la morte (i corpi umani che si riducono così facilmente in polvere), e ridonano a Lei la voce, le “parole”.

 

 

 

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