Prefazione di Giuseppe Bagnasco a "Inseguendo pensieri in voluttà" di Anita Vitrano (Ed. Thule)

Inseguendo pensieri in voluttà, opera prima di Anita Vitrano, potrebbe avere come sottotitolo, a parer nostro, “Appunti disordinati di un cuore in tormento”, un disordine solo nominale e cronografico ma comprensibili nel messaggio contenuto visto che offrono una loro logicità semantica.

Per far ciò non possiamo esimerci dall’affidarci alle tante ed emblematiche parole, spesso senza una loro apparente specifica destinazione ma che nel loro contesto costellano e impreziosiscono tutta l’opera. Il destinatario, un unico tema: l’amore nel sogno e nella realtà.

Aprendo la copertina ci sorprende da subito la sibillina dedica della poetessa, affissa nell’anticamera del frontespizio: “A colui che plasma la materia grezza dei sogni”. Una frase che già pungola e pone in sé una domanda: Chi dà corpo ai sogni? Rimandando alla memoria sembra richiamare in similitudine, la risoluzione dell’enigma che la mitologica Sfinge poneva agli stranieri che si avvicinano alle porte di Tebe.

Ed è proprio questo che l’Autrice qui sembra porre a quanti si apprestano alla lettura di questa raccolta. A primo acchito questo “enigma” sembra un ossimoro poiché risulta “plasmato” nel contrasto tra la materia-realtà e la volatilità-sogno, offrendosi quasi come un tutt’uno. Shakespeare in La tempesta afferma: “Siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni” e ancora in Giulietta e Romeo sentenzia: “Ama, ama follemente, ama più che puoi e se ti dicono che è peccato, ama il tuo peccato e sarai innocente”. Ecco, in questi due aforismi, e lo anticipiamo, sembra si racchiuda tutto il cammino poetico della poetessa laddove nel primo c’è la concettualità mentre nel secondo la forza della fattibilità.

Una trasposizione di “inseguire” la vita, oltre i confini dell’amore (aggiungiamo noi), con l’obiettivo che alla fine l’ossimoro scompaia giacché sogno e realtà coincidono. La poetessa nel descrivere nelle sue “sudate carte” le sofferte speranze e gli indomabili “inseguimenti”, chiude spesso le liriche con dei concetti che pongono un riflettere e racchiudono un riflettersi. Li notiamo nei versi “La sapienza nasce dove muore l’innocenza” (Ad un amore) o in “L’amore vero è un eterno cominciare” (Vagare). E allora qui non ci troviamo solo di fronte a concetti della filosofia di una poetessa che detta il suo “cogito ergo amo”, ma a versi che si spingono oltre il comune e semplice sentire. Infatti in Oltre la vita la Nostra, ne dà un ulteriore prova giacché prendendo a metafora della vita un foglio scritto, con relativa punteggiatura, alla fine delle parole afferma: “oltre il punto, l’eterno”. E a proposito del sopraccitato “l’amore vero è un eterno ricominciare”, riscontriamo come per lei sia inconcepibile vivere senza amore poiché questo, ma solo quando è vero, è nella sua essenza indefinibile e pertanto infinito e quindi eterno.

E questo perché il vero amore esula dalla ragione, si fa spirito trasformando la vita-materia in poesia quale emanazione dell’io spirituale. E che sia poesia lo accertiamo come nei versi “… vorrei una sola goccia del mare dei suoi occhi…e … per un attimo illudersi di aver potuto in amore naufragare.” (Illusione). E qui come non richiamarci al verso leopardiano dell’Infinito nei versi “ed è dolce il naufragare in questo mare” laddove tra la Natura e l’Amore, per assimilazione, viene fuori quel velato tormento che qui traspare e che abbiamo preannunciato nell’ipotetico sottotitolo.

Ad una prima lettura ciò che desta l’animo del lettore è la presenza, oltre al tormento, del silenzio e della solitudine. E così mentre il tormento per l’Autrice è “una formica che consuma la carne (Macero d’anima) oppure “un chiodo conficcato tra la carne e l’anima” (Torna), per l’altro è “il sangue rappreso dall’urlo del silenzio (altro ossimoro) / trasmuterà il bollore in ghiaccio”, oppure “ora vivo nei vicoli ciechi del silenzio” (Inter Nos). Ma è sul primo che si appunta la nostra attenzione giacché “la carne e l’anima” non può non richiamarci, a Il tormento e l’estasi di Irving Stone che, pur in un diverso contesto, ci propone la contrapposizione tra la ricerca dell’amore e la sua disillusione in perenne divenire, in perenne “inseguimento”.

In fondo questo perenne inseguire altro non è che la ricerca della felicità, una ricerca fatta con caparbietà al fine di raggiungere il prefissato traguardo. E questo lo scorgiamo laddove in quattro verbi questa si sintetizza con una caparbia volontà: “avrò desistito / per tutti lottato / soltanto vissuto / semplicemente amato” (Fortezza).

Un fine che ci porterebbe ad affermare, insieme alla Vitrano, come nella vita può finire una storia d’amore ma non finisce l’amore, dal momento che questo “continua oltre il disegno terreno” (Saluto). A questo approdo non è estraneo il rifugio nella Fede che la poetessa scorge come “un’ancora scolpita nella coscienza” (Fides), una affermazione convinta ma che comunque esula dalla filosofia di vita perseguita dall’Autrice. E infatti Inseguendo pensieri in voluttà, comprende liriche che nella quasi totalità parlano d’amore sì da formare un florilegio di sentimenti e dove da un’analisi introspettiva emerge una donna che, alternando momenti di voluttà a momenti di meditazione, pone a sé stessa l’eterna domanda di che cos’è la vita.

La poetessa la identifica nei grani di un rosario fatti di gioia, delusioni, addii, tormenti e tra i gruppi intervallati, spazi di interlocuzioni con l’Amore che per lei rappresenta l’anello di congiunzione tra l’umano e il divino o come afferma l’”arco ascensionale tra carne e anima” (Tratteggi). Un anello non dissimile dal “dèmone” buono ben descritto da Platone nel suo Simposio posto ad intermediario tra gli dei e i mortali. L’amore per la Vitrano, sia esso passionale, sofferto o svilito dalle parole, è pertanto un sentimento che va oltre la materia del corpo e si eleva come puro spirito che tende ad avvicinarsi a Dio. Per raggiungere questo traguardo due ne costituiscono i fondamentali: la vita e l’amore. Due cose interdipendenti poiché per lei non c’è vita senza amore e non c’è amore senza vita. È questo il tema che trama tutto l’ordito della raccolta e che la poetessa che non accetta zone grigie nella sua vita, affronta come fenomeno della “spiritualità della carne” e dove la carne si fa sofferenza e il tormento si traduce in un contorcimento dell’animo.

In molte liriche non c’è l’identificazione di un concreto destinatario dal momento che in fondo-in fondo traspare come un soliloquio diretto all’Amore. Ma anche un colloquio che nelle sue sfaccettature racchiude tra la disarmonia organica un compendio quale si mostra nella lirica Impetuoso. Qui in un momento di puro esistenzialismo l’Autrice espone come nella forza dell’amore è riposta la leva del coraggio per affrontare la vita. Da quanto fin qui affermato possiamo considerare quindi questa raccolta come un “Elogio dell’amore”, un amore che guida verso la Verità della vita e che, se sublime, portare in sé le stimmate dell’infinito e perciò dell’eterno. E d’altronde nella sua analisi la parola amore risulta composta da amore laddove l’alfa privativa preposta a “more” dal latino “mors”, significa senza morte cioè immortale, infinito, ergo eterno. Per questo Anita Vitrano, novella Norma pucciniana apostola di “vissi d’arte, vissi d’amore”, oltre che “Poetessa dell’Eleuterio” può essere definita come la Vestale dell’Amore, custode pertanto di quella fiamma che deve restare eterna.

Il suo mondo si specchia nelle parole di Pablo Neruda: “Due amanti felici / non hanno fine / né morte…” oppure in quelle profetiche di Jaques Prevert: “Noi possiamo dimenticare / soffrire / sognare la morte / …(ma) il nostro amore è là…”. E pertanto alla fine possiamo dedurre come nell’animo della poetessa non c’è quella ordinaria dualità sogno-realtà, ma una nondualità cioè un tutt’uno dal momento che la vita è un sogno-realtà solo se diretta da quel “dèmone” buono che ci fa percepire quello che a volte fa dire “una vita da sogno” oppure “un luogo da sogno” o ancora “un viaggio da sogno, una casa da sogno” ecc.

È il “tutt’uno” con cui abbiamo aperto questo dialogo e quindi il termine voluttà, insito nel titolo dell’opera, deve intendersi come il raggiungimento del “piacere” epicureo quale traguardo della felicità fatta di armonia tra il corpo (la carne) e lo spirito. È questo, ormai è chiaro, che fa da viatico alla poetessa che ci parla di un viaggio, intrapreso tra l’onirico e il reale, da un’anima che cerca un equilibrio nella vita fondata sull’amore. Una sorta di “mondo di mezzo” da cui uscire e che pone la vita davanti un bivio: andare avanti sempre e comunque oppure abbandonare? Nelle nebbie del dubbio la poetessa per togliersi da quel mondo di mezzo, arriva alla conclusione che è meglio vivere il momento, “hic et nunc”, qui e ora.

Quel “carpe diem” di oraziana memoria che, se vogliamo, racchiude gran parte della visione poetica della Vitrano sebbene travagliata ma solo sua, e non lontano dai versi del buon Lorenzo dei Medici detto il Magnifico quando afferma che “di doman non c’è certezza”. E in fondo la vita altro non è che un continuum, quell’eterno ritorno a cui ha accennato la poetessa quando ci rammenta come il vero Amore sia un ricominciare, una fiamma eterna che brucia dentro la sua stessa essenza. Senza andare alla spiegazione scientifico-freudiana che viene dal profondo io, possiamo interpretare inoltre questa raccolta come un lungo sogno d’amore, un “sogno di una notte di mezza estate” quale sembra apparire nella lirica Afa d’estate vero connubio tra l’immaginario e fantastico bosco di voluttà e la volatilità dei pensieri.

Ma è la realtà che si tramuta in sogno o è il sogno nella realtà?

La risposta ancora una volta sta racchiusa nel pensiero poetico che si desume dalle liriche e che ampiamente si delinea nel cercare nell’amore la sola fonte capace di intessere una vita. E questo, per rispondere al quesito sibillino, è demandato a chi è capace di “vivere” un sogno. Esaurita questa parte descrittivo-interpretativa non possiamo chiudere queste note senza accennare ad un commento critico sull’intera opera e sul suo spessore.

L’Autrice, come è dato da vedere, usa il verso libero, senza schemi, senza obbedienze metriche, perché questo è il più confacente al suo spirito libero. Il lessico forbito e accattivante mai risulta mellifluo o retorico e se in alcuni passi il concetto sembra adombrarsi nel recinto di un linguaggio semicriptico, in altri questo è talmente chiaro da apparire di una flessuosità onirica.

Per tutti ci piace ricordare, nella Sezione “Sfumature di Donna”, la Lettera d’amore - Come i gabbiani. Una lettera intensa, una lirica d’amore in prosa, quasi una confessione allo specchio con l’apertura di un cuore palpitante fuori e dentro l’oblio. Al di là degli stereotipi di maniera ci piace accostarla a quelle di Aloisa indirizzate al filosofo Abelardo suo sposo (amanti vissuti nel XII secolo lei sedicenne, lui quarantenne, entrambi poi per espiazione ritiratisi in convento): “… Tu sai quanto ti ho amato e quanto ti amo… In nome di Dio ti supplico: fatti vivo!” e ancora in un’altra: “… mi scrivi che saresti pronto a morire, e come pensi che io, poi, potrei continuare a vivere senza di te?”

Lettera struggente che fa il paio con la lettera della Nostra: “… Diletto, dove sei mentre il crepuscolo chiude gli occhi al giorno?... non poterti vivere è il mio supplizio…ogni aurora è beffa per il mio stanco cuore… amore sempre ti miro dentro e oltre la vita”. L’unica distinzione tra le missive sta nel fatto che quella della Vitrano risulta ammantata di poesia e non poteva essere diversamente. E d'altronde come non percepire nella suddetta Lettera d’amore - Come i gabbiani, quasi in un’aura di poesia, l’alto volo della spiritualità delle parole nel volo dei gabbiani?

La metafora risulta quanto mai appropriata perché i volteggi del volo di un gabbiano sono la rappresentazione plastica dell’amore che si libra al di sopra della terra, al di sopra delle angosce del quotidiano.

È il sigillo evidente del sogno che aspira a diventare realtà e quando ciò accade ecco l’eterno ritorno a quel tutt’uno esaminato in premessa.

Per finire un ultimo ed esaustivo commento. Nel volume Inseguendo pensieri in voluttà l’esposizione sia in versi che in prosa risulta fluida e spontanea senza alcuna ricercatezza linguistica o di maniera e soprattutto si avvale della mancanza della rima soppiantata com’è dalla bellezza della chiusura del verso che qualche volta suggella, come già rammentato, una affermazione “sofica” di cristallina saggezza. Quasi un involontario o voluto richiamo alla realtà, una realtà che comunque vissuta è in fondo ciò che si chiama vita e della quale la poetessa scrutandola “oltre i confini dell’amore”, ne dà una mirabile e autentica percezione.

 

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