Recuperi/12 - “I giardini di Allah. Influssi della cultura alimentare araba nella gastronomia siciliana” di Girolamo Alagna Cusa

È quasi una costante che una civiltà, giunta al momento del massimo splendore, esprima la creatività anche nei modelli di consumo e nei comportamenti alimentari.
Con l’invasione degli arabi in Sicilia ha inizio un’età davvero felice sotto il profilo dell’evoluzione gastronomica, tanto da produrre una vera e propria rivoluzione delle abitudini alimentari dei siciliani.
Iniziata nell’827 con lo sbarco a Mazara del Vallo, la conquista araba della Sicilia era completata all’inizio del EX secolo.
Della Sicilia, con Palermo capitale, dai viaggiatori musulmani che la visitarono in epoca araba e normanna e dalla cultura storica romantica dell’ottocento, ci è stata tramandata un’immagine per certi versi mitica e a tratti persino eccessiva.
La Baiami saracena ci viene presentata come splendida e   favolosa città cosmopolita di una Sicilia arabizzata; una metropoli orientale dove fiorivano le lettere, le arti, le scienze e dove sontuosi palazzi si alternano a splendide moschee rifulgenti di cupole mosaicate e svettanti minareti. Dove splendide fanciulle allietavano gli ozi dei signori nelle loro ville extra - urbane, tra il rigoglioso fiorire di zagare e l’inebriante profumo di gelsomini.
Se queste suggestive immagini ci rimandano alle mitiche città orientali descritte nei racconti di ’’Mille e una notte”, purtuttavia va riconosciuto che l’influenza araba che si dispiegò per oltre duecento anni sulla Sicilia, come riteneva M. Amari, fu un’età di grande incivilimento e di prosperità, ignota ad altre regioni italiane; che raggiungerà la sua piena fioritura sotto la dinastia dei Kalbiti nella Val di Mazara.
Ibn Hawqal, un mercante di Bagdad, visitò la Sicilia tra il 972 e il 973, all’epoca dei primi emiri Kalbiti, lasciandoci del suo soggiorno un interessantissimo resoconto.
Il viaggiatore mesopotamico ammirò gli orti intorno Palermo, la fertile terra e l’efficace sistema di irrigazione. Vi erano a Palermo centinaia di moschee, più di quante ne avesse vedute in qualsiasi città eccettuata Cordova.
Il nostro cronista ci fornisce anche preziose notizie circa i consumi alimentari cittadini: ”i macellai hanno entro la città più di centocinquanta botteghe per la vendita della carne, e solo pochi di loro stanno colà (cioè nei quartieri bassi).
Questi dati dimostrano la loro alta posizione ed il loro numero, attestati anche dalla grandezza della loro moschea: io infatti calcolai che la folla ivi adunata quando era gremita di oltre settemila persone... “.
Questa descrizione, in rapporto alla popolazione di Palermo, forse, ottimisticamente stimata dagli studiosi dell’Ottocento in trecentomila abitanti, evidenzia che il ruolo del consumo carneo non doveva essere secondario e che i mercati cittadini ne erano riforniti con relativa facilità e continuità e con prezzi relativamente accessibili.
Nell’Isola vivevano, all’inizio dell’invasione araba, indigeni di lingua latina e greca, immigrati da tempo da zone dell’impero romano - mediterraneo, immigrati da diversi ’’themi” dell’Impero bizantino, presenti in Sicilia già da secoli e non mancavano ’’barbari" di diversa provenienza, assoldati come mercenari.
Dall’altro versante, quello degli invasori, il grosso dell’immigrazione proveniva daH’”Ifriqiya”, soprattutto dall’attuale Tunisia.
Dopo secoli di autocrazia e tassazione bizantina, sembra che gli abitanti di Sicilia, non senza difficoltà, si adattassero al cambiamento prodotto dalla conquista araba.
Ciò che contribuì soprattutto a riconciliare la popolazione soggetta, in prevalenza di religione cristiana e di lingua greca e/o latina con l’invasore, malgrado i divieti e le limitazioni imposte, fu un’illuminata politica economica. Le tasse sembra fossero inferiori che non sotto Bisanzio, meglio ripartite e più efficacemente riscosse.
I nuovi dominatori tolsero l’imposta su gli animali da tiro che aveva ostacolato l’agricoltura, ed in sua vece introdussero un’imposta sulla terra che rendeva svantaggioso lasciarla improduttiva.
Elemento di rilevanza è che ai cristiani che scendevano a patti, dietro tassazione, veniva riconosciuto il diritto alle libertà personali, al proprio credo religioso e dietro pagamento di un tributo fondiario, il ”kharag”, il diritto alla proprietà. Quest’ultimo privilegio, tuttavia, non deve far dimenticare che la conquista musulmana della Sicilia comportò un’immigrazione di massa, probabilmente in cifra maggiore di qualunque conquista della Sicilia, costituita per la maggior parte da contadini venuti in cerca di terra. Di conseguenza la presenza musulmana determinò un trasferimento di ricchezza, e naturalmente di proprietà fondiaria, a beneficio degli invasori.
In ogni caso la terra, fosse bene dello stato, proprietà privata dei militari arabi, dei coloni, oppure se era stata lasciata ai cristiani, venne sistematicamente sfruttata.
Le confische, la colonizzazione, le leggi di successione dell’Islam che incoraggiava la suddivisione della proprietà fra i figli minori, provocarono almeno nella parte occidentale dell’Isola, un certo spezzettamento delle grandi proprietà, già attive durante il dominio romano e bizantino.
La conquista musulmana della Sicilia, inoltre, veicolò nell’isola i risultati di quella che è stata definita la “rivoluzione agricola” araba: in tutte le terre raggiunte dall’espansionismo arabo venivano importate e diffuse nuove specie vegetali, nuove tecniche colturali, nuovi sistemi di irrigazione.
Il bisogno di prodotti alimentari dei grandi centri domina la domanda di mercato e stimola l’incremento delle nuove colture.
La piana di Palermo, come quella di Catania, era costellata da una fitta presenza di ville - fattorie, attive già in epoca romana e bizantina, ricche di vasche di raccolta delle acque e di una capillare rete di canali d’irrigazione, dove si praticava un tipo di coltivazione intensiva, caratterizzata dalla produzione orticola e dagli alberi da frutto.
Gli Arabi avevano appreso nel deserto l’importanza vitale dell’irrigazione e dello sfruttamento delle acque. Verosimilmente essi introdussero sistemi idraulici che avevano portato dalla Persia, costituiti da una rete di condotte sotterranee di drenaggio delle acque, costruiti secondo la tipologia del “qanat”.
Questa tecnica prevede lo scavo di strette gallerie costruite in pendenza, collegate alla superficie da pozzi seriali. E dovettero trame profitto anche dal sofisticato sistema di irrigazione a sifone che i romani avevano utilizzato anche in Sicilia.
La presenza di una sviluppata agricoltura irrigua, specializzata ed intensiva delle fasce costiere, generalmente calcaree e permeabili, tuttavia, non deve far dimenticare che le vaste zone collinari dell’interno, caratterizzate da suoli argillosi e poco permeabili continuarono ad essere occupate da coltivazioni a cereali, caratteristiche del latifondo. L’isola come attestano documenti della “gheniza” del Cairo, fornì grano alla Tunisia e, nei periodi di siccità, anche all’Egitto.
Esisteva inoltre una fiorente industria della pesca, e probabilmente fu allora che venne adottata una complessa tecnica per la pesca del tonno, al momento delle grandi migrazioni, con gli arpioni come si faceva nello stretto di Messina, oppure con la tonnara, un sistema di reti fisse verso cui si convogliavano i branchi di tonni. Questa tecnica é ancor oggi in uso nelle isole Egadi. A Favignana l’antica tradizione della mattanza, che utilizza anche adesso alcune parole di origine araba come “ rais”, il capo pesca, non ha perso, col passare del tempo, quel rituale caratteristico che si è tramandato da padre in figlio.
Fatta questa premessa, quale succinto quadro di riferimento, esamineremo le abitudini alimentari degli arabi, l’introduzione di nuovi prodotti da parte dei coloni ed i caratteri comuni della cucina di derivazione araba.
I Siciliani, come abbiamo detto, professavano in prevalenza la fede cristiana. I cristiani come è noto, si portavano dietro sin dalle origini una fama teorica di sobrietà, benché non esente da trasgressioni. L’indulgenza ai piaceri della gola era stata da loro presto avvertita come una colpa, legata per giunta indissolubilmente alla sessualità: il peccato di Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre era in primo luogo un peccato di orgoglio, ma coinvolgeva una donna e si era concretizzato nell’atto stesso di mangiare.
Fino al Mille le diete dei monasteri si limitavano a pane e legumi, uova e formaggi nei giorni consentiti e qualche frutto di stagione.
Gli eremiti che popolavano nel IV secolo i deserti di Siria ed Egitto, seguaci della teoria degli umori, si attenevano, obbedendo a S. Girolamo, a una dieta di cibi secchi e freddi come pane, sale ed acqua e qualche cavalletta per reprimere il tormento della lussuria.
Se per i primi barbari era status - symbol l’abbondante consumo di carne, per gli uomini della chiesa l’astinenza fu scelta intellettuale ed èlitaria che suggellava la loro supremazia tra i più vicini a Dio.
Per le popolazioni arabe, che si affacciano sulle coste della Sicilia, diversamente da quanto insegna il cristianesimo, il cibo assume una valenza del tutto diversa, in quanto la mortificazione della carne non caratterizza la loro cultura.
Il digiuno praticato durante il mese del “ramadam”, nel quale, dal sorgere del sole al tramonto, né un boccone di cibo né una goccia d’acqua devono toccare le labbra del credente, pare fosse una pratica non completamente gradita allo stesso Maometto.
I coloni saraceni che apportarono, al loro arrivo nell’Isola, la vivida fantasia orientale, gli impensati contrasti di sapori che eccitano il godimento del gusto concesso da Allàh, seguivano scrupolosamente gli insegnamenti del Profeta: ”O credenti... nutritevi degli alimenti leciti che riceverete dalla liberalità divina”.
Il Corano, scritto in uno stile letterario che ricorda quello dei Profeti dell’Antico Testamento e che trasmette un’intuizione profonda nel comprendere l’uomo e la natura, è estremamente tollerante circa l’aspetto dell’alimentazione.
Il Paradiso promesso da Maometto viene rappresentato come: "un giardino di delizie sotto il quale scorrono continuamente fiumi che sprigionano frescura, vi scorrono anche ruscelli di pura acqua, ruscelli di latte che non va mai a male, ruscelli di vino che deliziano chi lo beve e ruscelli di miele.
Coloro che lo abitano avranno in quantità frutti di ogni specie e si rallegreranno della presenza del loro Signore. I fortunati riposeranno, su di un letto riccamente ricamato, accanto a giardini dove i frutti sono a portata di mano.
Vi si trovano delle giovinette modeste nell’aspetto, ma mai toccate da essere umano... come fossero dei rubini o delle perle".
Nel Paradiso di Maometto, dunque, si mangia e si beve e per di più in compagnia dei beati, sdraiati comodamente su splendidi tappeti, serviti in coppe cesellate di puro oro dalle "huri", fanciulle dai stupendi occhi neri e dai prosperi seni.
Un paradiso ricolmo di ogni frutto: aranci, limoni, banane, datteri, melograni, albicocche ed uva vi si trovano in grande quantità.
Il libro sacro, elaborato in una regione prevalentemente desertica e scarsa d'acqua, promette per contro, nel paradiso di Allàh, abbondanza di ruscelli e copiose sorgenti profumate di canfora e zenzero.
Si può immaginare quale gradita impressione potesse esercitare tanta magnificenza su di una popolazione in parte nomade, che viveva prevalentemente nel deserto, nutrendosi frugalmente di un pugno di cereali, datteri e si dissetava con acqua trovata nelle oasi.
E se non bastasse, Maometto prometteva che se i credenti fossero morti in battaglia avrebbero raggiunto i giardini di Allàh.
Tuttavia i seguaci di Maometto, mentre erano in vita, dovevano attenersi a rigide regole alimentari, che risentivano dei condizionamenti ambientali e climatici.
Queste prevedevano che non si consumasse carne di maiale, perché impura, né quella di animali morti naturalmente o uccisi a bastonate. E che non si bevesse vino, non adatto al temperamento vivace degli arabi. Il divieto di consumare il vino, in un primo momento, venne limitato prima e durante la preghiera, successivamente fu completamente interdetto.
Alcuni califfi particolarmente pii minacciarono di far svellere le viti; ma la pratica fu più tollerante, il consumo del vino rimase diffuso nel complesso del mondo musulmano, e spesso le corti dei califfi risonarono di poesie bacchiche.
Ammesso il consumo di carne bovina, di cammello, di pecora e capra, la cacciagione e tutti i tipi di pesce, sia di mare che di fiume, con la sola eccezione dei crostacei.
Nelle abitudini alimentari erano presenti, inoltre, legumi, cetrioli, l’aglio, la cipolla e le melanzane.
La gustosa solonacea doveva essere ampiamente utilizzata se trova un posto di rilievo nel “Tacuinum sanitatis”, un manuale d’igiene e dietetica di autore arabo, celebre per alcune tra le più vivaci miniature del Medio Evo.
Si consuma pane di frumento e orzo e così il riso ed il miele, che costituiva l’ingrediente fondamentale per la confezione dei dolci, sovente accostato alle mandorle.
Olio e sale erano i condimenti del cibo, che si consumava due volte al mattino e alla sera. L’alimentazione dei popoli sedentari orientali e mediterranei è essenzialmente vegetariana e si fonda sui cereali, sull’ulivo, il cui olio costituisce il condimento grasso per eccellenza della cucina, sui legumi e la frutta. Questo cibo vegetariano, in se piuttosto scipito, prevede l’impiego di condimenti e spezie.
L’alimentazione dei popoli nomadi dell’Iran, dell’Arabia e del Sahara si fonda invece su prodotti derivati dalle greggi, cioè su carne e latticini: qui il condimento della cucina è il grasso animale o il burro non fermentato, che si ottiene battendo il latte freddo che si addensa in burro, mentre il liquido che rimane costituisce il latte acido.
Molto apprezzata era la carne d’agnello, importante ingrediente del cuscus, ma anche accompagnato dal riso. Lo studio degli usi e dei regimi alimentari, aspetto importante della storia economica in quanto ne è il motore, va unito al trasferimento di piante alimentari.
Le vecchie colture di Sicilia erano specialmente colture in terre secche: cereali (grano, orzo), ulivo, vite. Le nuove colture, che vi vengono importate, sono tutte colture irrigue (canna da zucchero, arancio, dattero). Questo passaggio alle colture tropicali o subtropicali è stato consentito dalla formazione stessa del mondo musulmano che, congiungendo le aree dell’oceano Indiano con quelle del Mediterraneo, mette in contatto due zone dai prodotti complementari. Da quel momento le grandi vie commerciali che servono allo scambio dei prodotti servono anche al trasporto delle nuove colture.
In Sicilia gli abili coloni provenienti dall’”ifriqiya” e principalmente dall’odierna Tunisia, che sotto il dominio arabo era divenuto un ricchissimo territorio agricolo, impiantarono gli alberi di limone ed aranci amari, questi ultimi utilizzati per ricavarne le essenze. L’arancio dolce arriverà in Europa più tardi, intorno al 1540, con l’importazione portoghese dalle colonie, e verrà impiantato in Sicilia a partire dalla seconda metà del 1700.
Vengono introdotte le colture del gelso moro, necessario all'industria della seta, e del sommacco, per conciare e tingere. Sono gli Arabi ad importare alcune droghe, che verranno largamente utilizzate: la cannella, il muschio, lo zafferano (zafran) e la canfora. Compaiono e si diffondono come non mai precedentemente cotone, canapa e lino.
E vengono coltivati gli ortaggi e le vituperate cipolle d’Ascalogno, il cui uso smodato, secondo Ibn Hawaqal, ottundeva i sensi e danneggiava il cervello.
A proposito, un trattato di agricoltura scritto in Spagna nel XI secolo afferma che il modo più produttivo di piantare gli ortaggi era quello “alla siciliana”.
Gli Arabi introducono per primi le colture pregiate degli alberi da frutto e con essi la pesca, l’albicocca ed il melograno.
Introducono la coltura della canna da zucchero, proveniente dalla Mesopotamia sassanide, e di ciò ve ne è traccia anche nella parola ”gidida” (giadida, nuova), che veniva utilizzata ancora nel Medioevo per indicarla nel primo dei suoi tre anni di vita.
Questa novità non è di secondaria importanza, se si considera che fino all’epoca dei crociati gli Europei usavano il miele come dolcificante ed occorrerà attendere il 996 per avere il primo arrivo di zucchero (“sukkar”) a Venezia.
Furono ancora gli Arabi a far conoscere l’alambicco e la storta per la distillazione dello spirito di vino (“alcool”), che veniva utilizzato non come bevanda ma prevalentemente, in ossequio all’insegnamento de Profeta, per curare le ferite.
E’ assai probabile che fosse in uso aromatizzare lo spirito con l’anice, secondo un tradizione che prosperò nei luoghi di influenza musulmana: vedi ”l’anis” spagnolo, il ”raki” di tutto il vicino oriente, l’”ouzo” greco ed il nostro anice.
Un cenno particolare meritano il riso e la pasta alimentare.
L’introduzione della coltura del riso in Sicilia è un argomento molto controverso e dibattuto, meritevole sicuramente di essere approfondito da parte degli studiosi.
Il riso, il grande cereale asiatico, si diffonde durante l’espansionismo arabo nel bacino del mediterraneo, proveniente dall’India e dalla Bassa Mesopotamia, dove era conosciuto prima dell’era cristiana. Da qui giunge in tutti i punti del Mediterraneo musulmano che si prestano alla sua coltivazione: regioni calde, con terreno basso, acquitrinoso o irrigato. Prospera per esempio nella Spagna meridionale, dove la pianura del Guadalquivir e le huertas delle regioni di Valenza rendono possibili una produzione abbondante.
C’è da tenere presente anche un altro fatto: i musulmani usavano coltivare piante in luoghi dove le condizioni fisiche non erano favorevoli, e i consumatori si contentavano di qualità meno pregiate pur di averle sottomano.
Il     calore del sole e la natura dei siccitosi suoli dell’Isola non sono un’invenzione del principe di Salina. Il cronista Malaterra narra delle difficoltà incontrate dal gran conte Ruggero nelle campagne estive contro i Musulmani di Sicilia, a causa del gran caldo e della scarsezza d’acqua, particolarmente all’interno dell’Isola.
Verosimilmente in Sicilia fu impiantata la coltura del cereale, che probabilmente ebbe alterne fortune. Non è chiaro se il riso, prima di allora conosciuto come esotico prodotto d’importazione, venduto nelle spezierie ed impiegato con grande parsimonia in cucina, soprattutto come ingrediente di salse, sia giunto nel Nord dell’Italia tramite gli arabi di Sicilia o tramite la Spagna, che era l'unica regione europea in cui quel prodotto avesse precocemente assunto una certa importanza alimentare.
E' certo comunque che prodotto in Sicilia - forse in quantità insufficiente al fabbisogno della numerosa popolazione araba - o parzialmente importato, il riso costituisse un ingrediente fondamentale della loro alimentazione. Sappiamo che gli arabi facevano largo uso di carne trita preparata in forma di pasticcio di riso, arricchito dallo zafferano.
Il     riso fa parte, o meglio entra nella cucina siciliana e, pur non predominando, fa sentire la sua presenza in alcune ricette. Tra queste, con il riso protagonista, vi è la “tummàla”, un elaborato piatto della Sicilia orientale, il cui nome forse deriva da quello di Mohammed Ibn Thummah, emiro di Catania.
Se i risotti non fanno parte della tradizione gastronomica siciliana, le ottime arancine di riso, colorata con lo zafferano, ne fanno parte di diritto.
Le sue origini si fanno risalire al "pilaf" molto diffuso tra le popolazioni orientali. L'invenzione di chi sa quale cuoco saraceno modificò il piatto nazionale: al riso, alla carne trita ed allo zafferano, egli aggiunse il formaggio, lo rese meno coreografico e più adatto al palato degli infedeli.
Ma con le arancine, a parte alcune pietanze locali e qualche dolce che ne fanno impiego, si esaurisce l'utilizzo gastronomico del riso in Sicilia.
Testimonianze più precise disponiamo sulla pasta alimentare, anche se la storia di questo manufatto è ancora tutta da scrivere. Si dovrebbe anzitutto porre una distinzione fra pasta fresca e pasta secca, cioè essiccata subito dopo la sua fabbricazione.
Assai più recente è l'origine della pasta secca, la cui invenzione viene attribuita agli arabi, che avrebbero escogitato la tecnica dell’essiccazione per potersi rifornire di scorte alimentari durante gli spostamenti nel deserto.
Il     geografo Edrisi Abdallah Muhammed, ospite nel 1139 alla corte di Ruggero II il normanno, re di Sicilia, nel suo ”Kitab Rugiar”, riferisce che a Trabia si preparava un cibo di farina filiforme, che egli chiamava ”itriya”, termine che tuttora viene utilizzato per indicare un tipo di pasta molto sottile: i vermicelli di tria.
In questa zona, scrive il dotto geografo, ”si fabbrica tanta pasta che se ne esporta in tutte le parti, nella Calabria e in altri paesi musulmani e cristiani”.
Tracce del consumo dei vermicelli di tria persistono nella gastronomia dell’Isola: fritti in olio caldo, conditi con burro, formaggio, uovo battuto e accompagnati dal miele, costituiscono tuttora una fantasiosa ricetta della Sicilia orientale.
Sarà anche il caso di notare che il termine tria si ritrova nei “Tacuina sanitatis" e nei trattati di cucina italiani del XIV secolo.
Frattanto, molti indizi fanno spostare la nostra attenzione dalla Sicilia alla Liguria.
Già nel XII secolo i mercanti genovesi erano diventati il tramite principale di diffusione al Nord delle paste siciliane.
Quel che è certo, nell’intricata storia delle origini della pasta, uno dei punti non controversi, è la data del 4 febbraio 1279, quando fu stilato un atto notarile genovese che elenca, nell’eredità di tale Ponzio Bastone, ”una barixella... piena de maccaronis”.
Dai registri del Banco di San Giorgio risulta, a proposito, un vivace traffico tra Genova che esportava abiti, libri e seta, e la Sicilia che pagava le merci in maccheroni, fidelini e vermicelli. E che la pasta asciutta, per tradizione, sia alla base della cucina siciliana è un dato incontrovertibile. Questa affermazione trova riscontro, oltre che nei fatti, in innumerevoli testimonianze.
Ortensio Landi, segretario di Lucrezia Gonzaga, nel XVI secolo dopo un mese di navigazione giunge in Sicilia. Qui, tra le vivande che gli venivano imbandite segnala un piatto di maccheroni conditi con carne di cappone, formaggio fresco ed arricchiti di zucchero e cannella della migliore qualità, il cui ricordo gli "faceva venire l'acquolina in bocca". Nel 1887 Serafino Amabile Guastella, nel suo "Antico carnevale nella contea di Modica", elenca una ventina di tipi di pasta di uso corrente.
D’altra parte l'importanza alimentare della pasta, come piatto "forte" rimase a lungo circoscritta all'estrema regione della penisola. L'epiteto "mangiamaccheroni", con cui venivano designati i siciliani, ancora nel XVI secolo, è indicativo di una situazione diversa dalla norma. In gran parte dell'Italia meridionale la pasta era ancora avvertita come un "di più" e occorrerà attendere il XVIII secolo perché i napoletani, strappandolo ai siciliani, possano guadagnarsi il primato.
Di questa irrefrenabile passione dei siciliani per la pasta ne è testimonianza la pasta con le sarde, il cui prototipo la leggenda vuole sia stata elaborata in occasione dello sbarco degli invasori arabi, ma che troverà la sua compiuta evoluzione in epoca spagnola e vicereale.
In questa vivanda, che è stata definita - a ragione - il vessillo della cucina siciliana, il gusto dei finocchi, che alla pasta danno l'inconfondibile aroma ed il gusto sottilmente amarognolo della pianta cresciuta selvatica, trova completamento nel contrasto disarmonico ottenuto con l'uso di pinoli, mandorle e uva passa.
Esaurito l'argomento, a questo punto, un osservazione importante va fatta. La Sicilia sin dai tempi dei greci e dei romani, vantava una tradizione gastronomica di notevole rilevanza e quindi si potrebbe supporre che la frugale cucina araba, soprattutto quella di estrazione nomade, non avrebbe potuto esercitare sulla prima influssi positivi.
In realtà la presenza araba, non soltanto determinò una sostanziale trasformazione dell'economia, ma anche, con il diffondersi dei nuovi prodotti sui mercati, una trasformazione del sistema alimentare siciliano. Ciò trova riscontro nella terminologia tutt'ora in uso, oltre che dall'analisi degli ingredienti e dei modi di cottura.
L'erudito ed arabista Vincenzo Mortillaro nella sua comunicazione pubblicata nel 1881, intitolata “Idea di un glossario delle voci siciliane derivanti dall’arabo”, dissentiva da M. Amari, il quale sosteneva che l’influenza che i saraceni avrebbero avuto sul dialetto siciliano si sarebbe limitata in qualche modo di dire, in un ombra nella pronuncia ed in 104 vocaboli”. Il marchese di Villarena di vocaboli, con quella derivazione, ne individuò ben 224, di cui non pochi riguardavano in senso lato la gastronomia. In realtà, a prescindere dalle affinità lessicali, che pure sono importanti, la gastronomia di derivazione araba nasce e si diffonde in Sicilia dal connubio di due culture che vengono in contatto e che trovano il punto di sintesi nell’elaborazione di una cucina ricca di tradizioni e nel contempo di fantasia.
Un esempio di quanto sosteniamo è costituito dal pasticcio di Mohammed Ibn Tumnah, a base di pollo, che nella successiva e più alta elaborazione diventerà il "pasticcio di sostanza", piatto tipico della cucina baronale.
Quanto a rarità, in quanto appartiene esclusivamente a una piccola parte della Sicilia, circoscritta attorno a Trapani, e come ulteriore esempio di collaborazione gastronomica arabo - sicula, è rinomato il cuscus, che si differenzia dal prototipo magrebino, presente in tutti i paesi del bacino del basso Mediterraneo, dall’utilizzo del brodo di pesce, al posto di quello di montone, capretto o pollo.
A questo punto una puntualizzazione va fatta, la vera cucina siciliana, come quella araba, non ammette gli antipasti. Le pietanze che vengono indicate cibo che ”grape u’ pititto" sono sovrapposizioni dovute a cucine straniere, estranee ai modelli gastronomici tradizionali.
Così come caratteri comuni della cucina arabo - sicula sono la prevalenza di piatti unici, che costituiscono l’intero pasto, e lo sviluppo della pasticceria.
Difatti dove la gastronomia siciliana è più aperta alle suggestioni arabe - non dimentichiamo che l’uso dei dolci alla fine del pranzo deriva dall’Oriente - è nel settore della ricchissima e varia pasticceria, che in Sicilia annovera oltre duecento tipi di dolci.
Gli ingredienti fondamentali sono costituiti, in parte, proprio da quei prodotti che i coloni introdussero in Sicilia: la mandorla, il pistacchio, la cannella, i canditi, la zuccata e poi il miele e la ricotta. Ingredienti come si vede poveri, ma sicuramente manipolati dagli abilissimi pasticceri con grande fantasia.
Il discorso induce ad occuparci della cassata (dall’etimo ”quas’at ”, scodella tonda), il dolce più celebre, la cui fantasiosa composizione policroma, come le sete tessute nel ”tiraz” del palazzo Reale, tradisce un indubbia origine musulmana.
Appare la cubbaita (“qubbayta”), torrone di miele, con semi di sesamo e mandorle. Altro dolce, di tradizione messinese e di derivazione araba sono, i nucatoli (dall’etimo ”naqal”), ripieni di frutta secca. Ed ancora le “sfinci”, dall’etimo “sfang”, individuato dall’Amari, il quale sosteneva che con lo stesso nome in Berberia venivano consumate paste lievitate e fritte. In questo periodo appare la prima “pasta reale” o marzapane, una composizione di zucchero o miele, mandorle e chiara d’uovo.
Un altro dolce di inequivocabile origine orientale è il gelo di melone, che viene servito guarnito di pistacchio, scaglie di cioccolato (introdotto in epoca spagnola) e con fiori di gelsomino. Ed ancora i ”mucconetti ”, piccole confezioni di pasta di mandorle ripiene di conserve, specialità di Mazara del Vallo.
Una citazione particolare merita il famoso “biancomangiare”, a base di ingredienti tutti bianchi (riso, latte, mandorle ect.), che successivamente divenne un piatto intemazionale, espressione di quella koiné gastronomica, che la cultura europea sembra aver messo a punto fra XII e XV secolo. E musulmani sono i cosiddetti dolci di badia ed i mustaccioli, vanto di Erice. Ed infine non dimentichiamo lo ”sciarbat”, da cui sorbetto, bevanda composta di neve, che allora veniva prelevata dall’Etna, ed essenze di agrumi, droghe e perfino di essenze di fiori, come nel caso della “scursonera", all’essenza di gelsomino. Da qui alla granita il passo è breve, ma inevitabilmente siamo più vicini al presente.
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