Recuperi/9 - ““Il teatro dialettale di Ferruccio Centonze” di Giuseppe Bagnasco

I

Non si è certi sulle origini del teatro dialettale in Sicilia, ma è indubbio che nasce a Palermo. E questo non perché il più antico testo del teatro dia­lettale, “La notti di Palermu” Tommaso Aversa dell’Accademia dei Riaccesi

lo scrisse nel 1638 nella capitale del Regno, ma perché come evento teatrale di massa viene alla luce, come affermano il Pitrè e il Villabianca, verso la fine del Settecento in un angolo di Piazza Marina. Per altri, come il Natoli, al vicolo Marotta in prossimità dei Quattro Canti. La sua nascita avviene in una baracca di legno: il cosiddetto “Casotto delle Vastasate” così chiamato perché aveva all'inizio come protagonisti i “vastasi”, i facchini nella loro duplice veste di attori e spettatori che spesso, con la loro improvvisazione richiamavano, senza alcuna loro cognizione, la “Commedia dell’Arte”.

Nel “Nuovo Dizionario siciliano” del marchese Vincenzo Mortillaro alla voce “vastasata” si legge: “rappresentazione teatrale che espone fatti popolari e ridicoli in lingua nazionale, sovente aggiungendo nel momento ciò che cre­dono i recitanti a proposito, senza stare rigorosamente ai detti del suggeri­tore”. E dice proprio lingua nazionale perché, anche a parere di Giuseppe Pitrè, “la Sicilia era per i siciliani una nazione, e sì perché pei dotti di essa, specialmente nel sec. XVIII, il dialetto voleva levarsi a dignità di lingua”.

A differenza dei soggetti nelle recite eseguite a Palermo nei teatri del S. Cecilia o del S. Lucia (poi “Carolino” e infine “Bellini”), destinate alla classe aristocratica e dove i personaggi erano per lo più di fantasia, quelle popolari rappresentavano storie vissute o verosimili in un contesto tanto più vicino al popolo quanto più valorizzato dal linguaggio prettamente dialettale. Di quel periodo dove imperversò per il successo la “grande coppia” Marotta-Perez, nulla è rimasto delle dozzine di commedie se non il “Curtigghiu di Ragunisi”.

Per la Storia, è a Catania e nella sua provincia che nascono e si impon­gono autori come Nino Martoglio (Beipasso 1870), l’unico richiamato nelle commedie dal Centonze, Angelo Musco (Catania 1871) fino a Turi Ferro (Ca­tania 1921) al quale si deve probabilmente la notorietà del dialetto Catanese data la sua amicizia con Luigi Pirandello che per lui scrisse espressamente “Liolà” e “Pensaci Giacomino” nonché per le rappresentazioni che fece a New York con “L’aria del continente”.

Stessa opportunità non ebbe (né poteva averla per ragioni anagrafiche) Ferruccio Centonze, autore tra i più validi della commedia dialettale. Con essa il teatro in pratica scende dal proscenio e va verso la platea, verso la gente co­mune, per rappresentare quella parte della società fino allora trascurata. E a questo, piccola digressione, non fu estranea quella ventata di rivoluzione cul­turale (il Vento del Nord giacobino) che stormì le fronde dei salotti siciliani e che, sebbene l’Isola non fosse stata raggiunta dalle truppe napoleoniche, costa­rono la vita al giureconsulto (giacobino) Francesco Paolo Di Blasi, colpevole di aver tramato l'assassinio dell’Arcivescovo Lopez y Rojo, Presidente del Regno, e per questo decapitato a Palermo nel 1795 nel “chiano” di Santa Te­resa, oggi Piazza Indipendenza.

Ferruccio Centonze per la Sicilia occidentale, rappresenta il contrappeso allo strapotere degli autori dialettali della parte orientale collocandosi in quel filone che contribuì enormemente ad avvicinare il ceto popolare al teatro. Della ricca produzione dello scrittore di Castelvetrano prenderemo in esame due vo­lumi: “L’uomo che regolava l’orologio del cosmo”, Ed. Thule (Palermo 1999) e “Lu mortu assicuratu”, Ed. Selino’s (Palermo 1992).

Prenderemo quindi in esame solo quella attinente al teatro dialettale e, nello specifico, alle sette commedie, composte tra il 1954 e il ’91 e pubblicate nel volume “Lu mortu assicuratu” per i tipi di A.E.D. Salino’s (Palermo 1992).

Da drammaturgo e commediografo Centonze offre al lettore veri e propri “copioni” artatamente costruiti in modo da poter permettere a chiunque voglia cimentarsi, di potere mettere in scena i testi senza altro aggiungere. Per questo le commedie divise per atti e quadri offrono le scene descrivendo gli interni, la disposizione dei mobili, la postura degli attori, la mimica gestuale, le pause nella recita, i rumori di sottofondo compresa la voce fuori campo che fa imma­ginare locali adiacenti e diversi riservando per ciascuna un finale che richiama alla memoria l’antico teatro greco nell’intervento del “deus ex machina”. Allora si trattava di una macchina che, con un colpo ad effetto, faceva scendere dal­l’alto un dio preposto alla risoluzione di situazioni senza via d’uscita, con con­clusioni spesso in funzioni eziologiche. Ferruccio Centonze, dal suo canto, in un contesto di civiltà cristiana, risolve in modo analogo le vicende ingarbugliate dei suoi protagonisti con la materializzazione occasionale di un “miracolo”.

II

Al pari di Euripide, che per primo rinunciò ai temi eroici di Eschilo e So­focle, il Castelvetranese mette in scena personaggi del popolo con il loro carico di dubbi e insicurezze propri della loro condizione con temi afferenti alla sfera individuale, riguardante il costume, la vita quotidiana, i sentimenti, le condi­zioni economiche, le convinzioni etiche e religiose. Al contrario del Casotto delle Vastasate, altrimenti chiamato dal Pitrè Teatro popolare, dove non erano ammesse le donne, ruolo ricoperto da travestiti, nelle commedie centonziane c’è una cospicua presenza femminile soprattutto per quello che riguarda l'intrigo in faccende familiari e dove il pragmatismo della “donna di casa” si estrin­seca sfociando in situazioni comico-grottesche. E’ il caso de “Lu mortu assi­curata” dove la moglie, per dotare la figlia fidanzata, induce il marito a morire, con decesso apparente, per riscuotere la cospicua assicurazione, poiché (af­ferma), “sincerità e scarsizza (sono) li cosi cchiù tinti di lu munnu”. O in “Un sonnu strami” dove la padrona di casa (benestante) cerca di accordarsi con l'inquilina, madre di una bella ragazza e, allo scopo di evitare “ca i discursi longhi si fannu serpi” propone un accordo immediato, con un compenso da convenire, per un matrimonio tra la ragazza e il suo figliolo un po’ “fuori di lanterna”, un po’ fuori di testa.

Tutte le storie del volume sono uno spaccato di vita vissuta reale dove vengono rappresentate situazioni di disagio di famiglie appartenenti agli strati meno fortunati della società, emarginati o di­menticati. E’ da dire che in alcune si riflettono le esperienze (non cercate) del Centonze che quale ufficiale combattente durante la Se­conda guerra mondiale, fu presente nei teatri bellici balcanici e slavi, così come risulta dal suo romanzo “La misteriosa storia di Abdia”,

(Firenze Libri -1988), oppure quale testi­mone, per particolari situazioni vissute, nella tragica realtà che colpì i paesi della Valle del Belice al tempo del terremoto del’68.1 suoi personaggi interloquiscono con un dialetto che non appartiene ad un solo idioma ma co­stituiscono la risultanza di diverse territoria­lità linguistiche. Il lessico è di volta in volta quello proprio dei personaggi che gli attori in­terpretano e se qualche parola sembra parecchio in disuso, pur tuttavia non ne viene compromessa la comprensibilità essendo attinente al tessuto colloquiale.

Rare le parole in lingua italiana, se non quando usate per esigenze di recita o per un particolare momento. Un esempio ci viene fornito in “Fidi ti sarva e no lignu di varca” laddove al parroco che rimprovera il sacrestano terminando la frase in italiano, questo tra sé e sé dice: “Parla italianu, e allura stamatina c’è aria di timpesta”. Il Centonze che non ama la polemica politica, se non nel comune diritto di critica e soprattutto per denunziare le condizioni sociali asservite alla povertà, non a caso mette nel copione questa frase. E’ chiaro il riferimento a cosa ha significato nel passato, il sentire (non il leggere) per il popolo contadino nelle vicende postunitarie, la parlata in italiano, sinonimo a quel tempo, per l’analfabetismo che inglobava nelle campagne il 95% della popolazione, di pro­clami, divieti, ordinanze, pene, castighi, tasse, obblighi, carcere, ammonizioni (soggiorni obbligati), minacce di fucilazioni e tanto quanto potesse sconvolgere la vita e la cultura contadina per gente vissuta per secoli in pace. Per inciso, il lamento del popolo siciliano che ha prodotto tanta arte letteraria da Capuana a Verga, da Pirandello a Ignazio Buttitta, a Rosa Balistreri, non è dissimile da quello napoletano che, tra le sofferenze del degrado sociale sfociato nella coatta emigrazione, ha dato al mondo della melodia con Libero Bovio, Salvatore Di Giacomo, E. A. Mario le canzoni più belle, pregne di struggente malinconia e composte con parole tratte solo dal proprio dialetto.

Al pari, come fenomeno ecclesiale, dei blues nati dai canti melodiosi degli schiavi nelle piantagioni di cotone degli Stati meridionali degli U.S.A. o a quello immaginato da Giuseppe Verdi per gli ebrei deportati a Babilonia.

III

Ferruccio Centonze, per riprendere più ampiamente, quanto prima accen­nato “sul finale a sorpresa”, allorquando propone quelle scene di miseria al li­mite della disperazione, dove tutte le porte sembrano chiuse a possibili soluzioni, (“a navi rutta ogni ventu è cuntrariu”), al pari del “deus ex ma­china”, risolve ogni situazione con un intervento extra-ordinario, non com­prensibile al pur minimo ragionamento umano se non vedendolo come un “miracolo” dal Cielo. E’ così quando una signora ricca, data per morta e già al deposito del cimitero, viene salvata da un altro finto morto della bara ac­canto e al quale per riconoscenza, devolve una considerevole somma traendolo da ogni affanno economico (Lu mortu assicuratu), o quando un redivivo emi­grato dopo sessant'anni si presenta alla figlia indigente abbandonata alla “ruota” e alla di lei madre, in veste da povero in canna per poi, vista l’acco­glienza affettuosa riservatagli, si rivela arcimiliardario, risolvendo d’un colpo per le due donne situazioni economiche disastrose (La lettera di Joe Bastiano), o ancora quando si narra di un poverissimo parroco (il paese era stato distrutto dal terremoto), che pur nella miseria cerca di alleviare le sofferenze di alcuni indigenti e, confidando nella buona sorte, gioca al lotto, sempre perdendo fino a che improvvisamente, ad opera di un santo protettore (San Giuseppe), non scopre di avere fatto miracolosamente una cinquina secca con numeri che lui non aveva giocato (Fidi ti sarva e no lignu di varca), o infine quando un po­veraccio, invalido di guerra, deciso a suicidarsi al cimitero, per risparmiare ai suoi le spese del funerale, improvvisamente dai familiari accorsi, viene a co­noscenza di un telegramma del Ministero che gli comunica dopo diciassette anni, la corresponsione di quaranta milioni di arretrati. Tutte soluzioni vero­simili ma alquanto improbabili nella società che il Centonze ci rappresenta ma a cui non va sottratta la speranza.

Ma non in tutte le commedie c’è il “miracolo” economico. Lo scrittore se ne riserva due dove è il risvolto dei sentimenti che chiudono la scena. E sono in “L’uomo che vendeva sogni” e in “Li cazzacatummuli di nonno Matteo” dove la morale del racconto scenico indica e sottolinea il valore degli affetti fa­miliari. Ma il Centonze non limita il ricorso solo alla fede e ai valori, ma af­fronta da buon siciliano, al pari di Leonardo Sciascia, il problema della cultura mafiosa. E lo fa in “L’antenna smossa” mandando in scena un personaggio del ceto benestante, “disponibile”, uomo di pace nella vecchia “onorata società” e le sue riflessioni : “E’ inutili, ’nta sta nostra terra nun cancia mai nenti... sta piaga antica nun si sana. Speriamo che i giovani possano cambiare le cose, ma occorre che ci sia la volontà vera, no la babbiata”. In Ferruccio Centonze c’è questa denunzia anche se non è vis polemica dal tratto politico, come fa Ari­stofane con gli utili e buoni consigli che dà alla sua città, ma speranza a che le situazioni che lui rappresenta possano essere in futuro solo soggetti e stralci per la scena e non copioni di realtà vissute.

IV

Il lato più emblematico e di cospicua spettacolarità dei personaggi nelle commedie dell’Autore, sta nella stella più fulgida del linguaggio (plebeo) ri­gorosamente dialettale e nella preziosità del suo lessico. E’ nel dialetto la forza che unisce l’attore allo spettatore, una comunione che rende efficace la rappresentazione, poiché ciascuno si sente partecipe nel proprio intimo dello svolgersi della vicenda. E questo checché ne dica l’Abate Giovanni Meli che nelle sue “Riflessioni” vedeva di mal occhio non già il ceto miserevole dei rappresentanti ma lo spirito delle rappresentazioni, “ove si osserva costante- mente che fra li ceti degli uomini, quelli nell’ultima derisione sono i facchini e i contadini”. Un fenomeno di comunicazione spirituale e di simbiosi lingui­stica quindi quale fu nel passato quella della lingua greca delle province el­lenistiche e che passò alla storia letteraria come “koinè diàlektos” (linguaggio in comune). In fondo in Centonze, la spontaneità del gusto poetico come la metafora “nta la chiana di lu tempu”e l’essere il dialogo farcito da proverbi come quello sull’uomo che “ in cori spera fino a quannu c’è ogghiu ‘nta lampa”, fanno del messaggio scenico un decalogo della sapienza e della sag­gezza di quell’antica razza contadina che tanto ha in comune con le umili classi urbane, livellate tutte dalla miseria.

Non mancano le battute pregne di spicciola filosofia esistenziale come in “mentre la ruota ti va macinando, il tempo si rattrappisce: un anno prima dura un anno, poi sei mesi, e poi un jornu, un’ora, un fiat. La vita è chidda chi è, e l’uomo tra stipite e porta (è) in attesa”. E non si esime dal dire sulla conoscenza dal momento che “uno che non capisce è come la taddarita che va sbattendo” o dal ricorrere alla battuta salace quando del fisico piacente di donna Carmela in “Li cazzacatummuli di nonno Matteo” fa dire: “Matri mia che colpo d’anca, roba da Capoluogo”. Ma è anche sull’analisi socio­logica che l’Autore si sofferma quando fa affermare in “Un sonnu strami” alla ragazza Aurora, verso la quale spasima l’ingenuo e genuino Carlino (che dice quello che pensa): “Tu po’ diri la verità, iu no, io e tutti l’autri un putemu essiri completamenti sinceri. Tu ti trovi ‘nta na situazioni di vantaggi addirittura. Tu si comu unu che si trova ‘nta nautra società, fora di stu nostru modu di vivere e comunicare”. Non siamo all’ “Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam o di un Soren Kierkegaard, ma lo scrittore ci va molto vicino, mettendo alla berlina la mediocre ipocrisia di una società che vive con stereotipe convenzioni e secondo regole dettate dalle sovrapposte civiltà che si sono succedute in terra di Sicilia.

V

La stampa nazionale del periodo postunitario ignorò il teatro dialettale che ebbe come antesignano il napoletano Eduardo Scarpetta, così come la Si­cilia dal canto suo ignorerà, a parte gli autori prima ricordati, Ferruccio Centonze. E’ quello che risulta infatti scorrendo in qualche antologia un elenco di commediografi siciliani dove vengono citati Michele Abbruzzo (Sciacca 1904), Gilberto Idonea ed Enrico Pappalardo (Catania 1946) e non il Nostro che anagraficamente si colloca tra questi. Oggi dove il recupero dei centri sto­rici si accompagna, al di là del mero interesse economico, alla sete dei cittadini di riappropriarsi della propria cultura e della lingua “nazionale” attraverso cui potersi “ricostruire” e riconoscersi, il teatro dialettale di Ferruccio Centonze, ritenuto da tanti (in ritardo) autentico custode della lingua, del costume e della cultura dei “dimenticati”, ha saputo fotografare, servendosi del lin­guaggio dialettale, quella specifica classe sociale, offrendo con le sue opere un buon viatico a quanti hanno volontà e tenacia per la conservazione delle proprie tradizioni linguistiche. Un linguaggio, a detta del grande critico lette­rario di Alcamo Giuseppe Cottone, “dove si può specchiare un pubblico sem­pre più vasto per ritrovarvi le proprie radici contro una invadenza di un progresso che minaccia di soffocare l’identità stessa dell’uomo e la sopravvi­venza della sua stessa natura”.

 

 

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