"Simbologie e lineamenti di realtà nella poesia di Amalia De Luca" di Maria Nivea Zagarella

L’avventura esistenziale e poetica di Amalia De Luca, consegnata alle sei sillogi riunite di recente nell’unico volume “Poesie” (2021), si caratterizza per la determinazione con cui la poetessa cerca una comunicazione “altra” rispetto alla banalità collettiva corrente.

Ne sono segno evidente innanzitutto le scelte stilistico-formali: l’uso di un latino evocativo e interlocutorio nei titoli delle prime quattro raccolte (Radere litora, Conchas legere, In Dies, Carmina Pervia) e nella titolazione di singole sezioni di esse (Saepes, Per aspera et devia, Temporis fragmenta, Parva cogitationum fragmenta…) o di singole poesie (Homo solus, Praeterita, Vanitas vanitatum, Lapis niger, Diei ruit lux, Sine tempore, Hortus conclusus…); il ricorso a un lessico estremamente sorvegliato o di selezionata matrice letteraria (aere aura simulacro pastura ascose sovente pelago carole ambasce tacita bossi oblio sciabordio aulentissima…) coniugato a sintagmi e stilemi di equivalente fattura (aurora dalle rosee dita, rosee ninfe, pastorali zefiri, plettri alati, le siringhe dei pastori, alberi abbruniti, il morbido manto della notte o di vergine terra, e ancora stormir di fronde, veleggiar per coste, posar le membra…); i frequenti richiami al mondo classico nei suoi luoghi, temi e mitiche figure (Acheronte, Erebo, Orfeo, Calliope e le Piche, Afrodite e Eros, Pegaso) anche attraverso traduzioni/rielaborazioni di testi di autori antichi (Teognide, Ibico, Simonide, Pindaro), o la creazione soggettiva originale di “storie” nuove, significanti, sul modello di quelli (Creusa, I greci a Minoa, Il pianto di Erato, La Naiade, L’architrave…); gli echi infine, volutamente allusi, della nostra tradizione poetica (Dante, Leopardi, Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Ungaretti, Montale) a marcare una continuità/eredità storico-ideale. L’autrice stessa nell’ultima raccolta, Oltre la linea di Karmàn, parla del silenzio/dolce balsamo del suo rifugio segreto foderato di libri, e nella penultima, Policromie dell’oltre, del suo crogiolarsi a leggere e rileggere per capire e del suo “emozionarsie sempre nuovo “innamorarsi”.

Il “poetare” dunque come distinzione, linea di demarcazione: non chiusura elitaria al dialogo, ma apertura/provocazione invece a un dialogo diverso, più alto, un invito/avvertimento all’incontro in una dimensione in grado di “illuminare” cosa sono, rispetto all’Essere, l’esistenza o la non-esistenza (o meglio, la notte dell’esistere), la “perfezione dell’appartenenza” allo spirito universale o la non-appartenenza/lacerazione, sono “tenebra” o “luce” della coscienza. Donde il linguaggio variegato secondo il diverso posizionarsi dei contenuti nella scala delle esperienze vissute o sognate, sognate nella verità del sognare e quindi possibili da vivere, e poiché per la De Luca la poesia è urlo di negazione e ricreazione, ma anche nascondimento disvelato, ecco il farsi del linguaggio ora piano, discorsivo–riflessivo, ora misticamente rarefatto; ora mitico-immaginoso (Erato, Musa dei sogni, che va vestita di luce/ tra l’onda sinuosa/ del suo candido velo/ e della fulgida chioma), ora aspramente corrosivo (viscide bisce e orridi mostri di figurazioni oscene il presente); ora liricamente effuso (il tenero fiore/ profumo dolce di carne/ sulle tue labbra riarse), ora teneramente rammemorante (gli occhi limpidi del padre e della madre) o pregno di lievitante speranza quando si volge a ogni illusa giovinezza o “primavera” feconda di vita. Bianca è l’alba…-dice a Paola-…dolce l’armonia di suoni sconosciuti… va avanti, ora che non sai il segreto…, e di Alessandra coglie l’essenza sicura di donna nel suo aspetto superbo di dolce creatura di terra quando è ancora ricco di inconsapevole pienezza.

Prima del disinganno e del senso di morte! E accanto a tutto questo il ciclico rammarico, nelle pagine delle diverse sillogi, riguardo all’umana indifferenza e al suo trambusto ciarliero, e talvolta l’autrice si dice vuota di speranza/ timida luce di candela/ che si consuma/ nel quadro oscuro della recente storia (In Dies), arrivando a confessare la tentazione dell’inerzia e della resa al “naufragio” perché nessuno vuole più ascoltare per capire (Carmina Pervia), talaltra, senza astenersi dall’elencare invidiosi poeti, politici presuntuosi, frettolosi passanti, si augura che il vento possa trasportare le sue parole dove menti pure possano ascoltare. Si dibatte la poetessa nel tormento creativo di una poesia che, pur nella essenzialità “scarnificata” della parola e nella tensione massima dell’anima, resta umanamente insufficiente a “dire” tutta l’etica fascinazione ed estasi dell’immersione nel Mistero (l’oltre infinito che il cielo stellato ci propone), e che sente minacciati, come ogni opera dell’uomo, dalla corsa del tempo e dalla morte i suoi pensieri e le grotte segrete dei desideri. Quali desideri? La De Luca ha una chiara visione delle dissonanze dell’odierno vivere storico, perciò nel testo Al riparo (Conchas legere) sottolinea per sé (e per tutti) che la libertà cercata e da cercare si trova nella spirale del proprio spirito inquieto, se ci si mette al riparo dalla tentazione/presunzione dell’umana sicurezza. Tale inquietudine, che è inquietudine di ricerca del vero senso e valore della vita e che trova un suo naturale centro/faro -come sopra detto- nella parola poetica impegnata a “indagare” verità e vita, costituisce il lievito fermentate e costruttivo già della prima raccolta, Radere litora, dove l’anima dell’autrice appare in fuga costante dai limiti del presente, questo “nostro” presente e protesa verso un approdo/costa cui “appartenere”. Limiti espressi ora con dense metafore, come è tipico del suo immaginare poetico, ora tramite più espliciti e polemici enunciati, ma sempre di raffinata tessitura letteraria allenata ai traslati.

Quanto alle metafore si vedano i cavalieri rampanti su focosi destrieri attori della storia contemporanea, rane gracchianti con occhi ricoperti di grasso, racimolatrici di cibo putrido nelle paludi e teste nel fango (sic!) di interessi personali; oppure il brusìo di quelle miriadi di insetti brulicanti, affamati di lordura. Altrove le guerre di ieri e di oggi sono gli aerei/nuvole d’acciaio del 1943, o nuove lance infocate… lingue di fuoco… falce di morte che avanza con lama lucente e insanguinata (Conchas legere, In Dies). Invece la speculazione edilizia a Palermo si configura come vista dolente di tetti d’orribili alveari di cemento (In Dies), o quale disarmonia di moderni edifici che si erge impigrita ai piedi di Monte Pellegrino, fra rami di alberi languenti che piovono crudeltà violenza/ corruzione dolore, [e] una marea di menzogne che investe le spiagge e ritirandosi lascia solchi di indifferenza (Radere litora). L’inquinamento e il degrado generale diventano nella poesia La rete del mercante moria di pesci asfittici/ agonizzanti nel brodo inquinato di questa civiltà di mercanti, e nella poesia La fine visione onirica di corpi esangui che cadono a terra in una croce disperata, perché nel loro cammino e nel grande deserto di parole (sic!) non hanno più trovato fiori e acqua. La poetessa invece con tutta la sua immaginazione e corredo intellettuale/emozionale insegue altre “rivelazioni” o -come ama definirli- involucro di sogni, tentazioni d’infinito, quando esse non si risolvano in folgorazioni improvvise di eternità nell’attimo: raccontare mi piace -scrive in “Oltre il muro” - ai tuoi occhi pensosi/ l’infinito silenzio/ oltre il muro del tempo/ mentre con le mani/ accolgo nel cuore/ la misteriosa armonia/ dell’universo. E scattano le altre catene di metafore, che in dialettica opposizione fra di loro attraversano tutto il volume, scandendo le opposte sponde del suo interno dibattere, che “vaga” nel pensiero del sublime, fra vita e morte, finito e infinito, terreno e eterno, con brevi sporadiche soste nell’intimità familiare, amicale, e nel diario reticente di memorie personali e di marginali orizzonti di paese. Metafore quali il labirinto, il sipario, il muro, le siepi alte irte di spini, il groviglio di sentieri, le intrigate selve, il buio, il macigno, il viaggio, la barca/vascello, il nocchiero/pescatore, il viandante, la luce, la vela abbandonata al vento, l’ala di rondine, il mare aperto mediatore di estasi divina (il lieve dilagare del suo morbido abbraccio…), i fantasmatici leggeri cavalieri di Pegaso nel mistico, simbolico, richiamo del chiarore/candore lunare, il fiume rapido dell’esistenza soggettiva con tutto ciò che trasporta di detriti, gioie, delusioni, e il fiume invisibile dell’Eterno nell’eternità delle sue creature (l’Uno nel Tutto).

In questo contesto a forti contrasti particolare rilevanza etica e spirituale, e di sotteso monito comportamentale, acquista l’abbandono fervido al respiro del creato nella sua visibile perfezione/bellezza. “Respiro” e “bellezza” che trovano i loro luminosi simboli (sic!) nella circolarità di albe e tramonti, l’anello che si chiude; nel miracolo inesauribile della Primavera, eterna Pasqua; nella generatività della terra e della donna le quali si riepilogano nella Vergine (poesia “La madre”); nella “creatività” stessa, ideale e positivamente fattuale, della specie umana (la passione e le ali sostenitrici della poesia “Non cavalieri rampanti”) che, se ricondotta alla sua vera universale, divina, Radice, si rivela scheggia “ricomposta” del metafisico mosaico.

Perciò gli innumerevoli, sparsi, componimenti dove si legge: aurore e tramonti ancora ti narrano il canto dell’amore e della morte… il tramonto divora la luce che l’alba rinnova… il tramonto arancio si colora della fiamma dell’alba…; o dove si canta: risveglia l’armonia dell’universo il vento lieve di questa primavera… l’armonia dell’universo accende di tutti i suoi colori profumati i campi… i profumi colorati di questa primavera sono armonia di emozioni, scoppio di esultanza; o dove si parla dei “semi”, i semi marciti che danno frutti novelli e profumati, e si paragonano, nella metastorica altalena delle stagioni, “gli umani” a semi nella terra destinati a nuovi fiori, e si polemizza con una contemporaneità in cui nessuno conosce l‘impresa coraggiosa di rivoltare le zolle/ cercando la terra umida/ ricca di vita/ per nuove vite. E non va dimenticata la breve poesia di Radere Litora in cui il pianto di un bambino nelle notte silenziosa è paragonato alla “luce”, e il silenzio dell’esilio nel giorno rumoroso (si noti il nesso ossimorico) della attuale società al ”buio”.

Ma se la quotidianità torna a “imprigionare” e ad alzare insidie, allora la memoria dotta e lo scarto liberatorio della fantasia dell’autrice si rifugiano nel nibbio che alto e immobile nell’azzurro osserva distaccato il grave affannarsi degli uomini aggrappati alla terra, o nell’albatros beaudeleriano dal respiro libero, innalzatosi là dove non arriva l’amarezza per la lordura del mondo/ per l’abbandono degli amici, e dove la solitudine delle altezze [lo] fa sentire più forte (sic!) e a un passo dalla perfezione nella congiunzione con l’Assoluto, o ancora nella piccola allodola che salta e canta sul ramo più alto di un limone e sogna ali possenti per non cadere sul terreno e librarsi invece là nell’azzurro limpido e sereno/ dove sbiadisce la meschinità del mondo/ e nell’oblio della terra/ si dissolve ogni dolore. Nella riflessione esistenziale della De Luca e nella completezza del suo volume “Poesie” sembrano incontrarsi e confrontarsi tre componenti culturali di fondo che scandiscono tutto il nostro passato e il nostro presente culturali.

Il lucido razionalismo del mondo classico con la sua severa accettazione, nel ciclo vita/morte, dei limiti della condizione umana, e in rigoroso equilibrio fra pessimismo (vecchiaia/morte/sconfitta) e morale dell’azione “eroica” nel mondo (ma con una punta di orfismo anche in Pindaro).

Lo scientismo moderno e la novecentesca angoscia di morte, quali emergono in Policromie dell’oltre, dal testo XXVI: Sublime l’orrore del baratro/ nel profondo precipitare/ nel buio fitto del nulla, e sublime il dolore di chi si ferma sulla soglia limite dell’umano sapere; in Oltre la linea di Karmàn, dalla redazione ultima del testo sulla molecola sperduta dentro l’oceano del dubbio eterno nelle perenni metamorfosi del cosmico oceano senza sponde; in Carmina pervia dalla poesia Una mano ignota, nella quale ogni uomo è detto visitatore transitorio del mondo destinato ad altri/ veicoli involontari di vita.

Lo spiritualismo cristiano che, al sogno ascensionale che trasporta nel mistero, e all’amore che si consuma/ nella coscienza/ della non appartenenza, offre come metro di paragone e positivo anello di congiunzione/fusione fra spiriti lontani dalla terra (poesia “Presso l’altare”), quasi folgorazione sulla via di Damasco e “varco” verso dove luce e armonia del creato/ sono eterno paradiso, il volto di Cristo, volto d’amore (poesia “Faro di bianca luce”) di contro la giungla di violenza e interessi della quotidiana necessità, e come approdo ultimo il grande volto del creatore, sovrumano mosaico dove tutti i colori/ si fondono/ in un unico bianco puro. Approdo che la poetessa definisce dono illuminante/ che ti consola/ quando la speranza/ ha sembianza di certezza (Oltre la linea di Karmàn). Dalle prime raccolte alle ultime due si avverte un cambiamento di tono, no di atteggiamento interiore, che resta sempre coerente con se stesso.

Dalla iniziale pugnace combattività, che voleva scolpire la pietra con pura luce di bianche (e roventi) parole più forti di ogni furia di vento e dilavare di tutte le tempeste, si passa a una finale intenerita (disincantata?) pietà verso la condizione dei propri simili, che si può cogliere anche dal semplice confronto fra la poesia che chiude la prima raccolta, Thule, dove (al di là del riferimento amicale) la mitica isola, fuori dalle macerie del giorno, voleva proporsi con tutta la sua forza d’attrazione verso una mitica perduta innocenza, e l’ultima poesia del volume, il testo XL, dove tornano a gracidare nel pantano limaccioso le rane e l’umanità si mostra smarrita/ nel lago scuro/ del primordiale istinto. Donde l’intimo accoramento dei versi finali del testo XXVIII di Policromie dell’oltre, in cui alle sconfitte della vita soggettiva si cumula nell’animo della poetessa la delusione storico-generazionale: s’addensano -scrive- tutti i colori/ dell’arcobaleno/ in una lacrima/ segreta tra la pioggia di quest’inverno.            

 

 

 

 

 

 

 

 

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