Tommaso Romano, "In Natura Symbolum et Rosa" (Ed. Thule)
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- Category: Scritture
- Creato: 16 Gennaio 2020
- Scritto da Redazione Culturelite
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di Giuseppe Bagnasco
Nel bagaglio culturale degli “Indiani” d’America, nella fattispecie quelli della nazione Sioux delle Grandi Pianure, che troppo in fretta i coloni “bianchi” definirono “selvaggi”, due erano gli insegnamenti previsti dalla Tradizione e consegnati dai saggi delle tribù: il primo stabiliva che l’uomo appartiene alla terra (non comprendendo come questa potesse essere oggetto di commercio) e il secondo che bisognava trarre dalla natura solamente ciò che occorresse al suo bisogno. In particolare ciò era riferito alla stagione della caccia ai bisonti, (allora unico loro sostentamento non essendo un popolo di coltivatori), nonché al divieto assoluto di abbattere le femmine, specie in presenza dei piccoli, in quanto procreatrici della vita. Ecco qui due grandi concetti non dissimili dalla cultura dell’antica Grecia con riferimento alla Grande Madre e come terra e come donna in quanto capaci entrambi di fare germogliare il seme che le veniva affidato e pertanto di assicurare la continuità della vita. Era, come lo fu per tanto tempo, il culto del “Sacro femminino”. Ed è per il rispetto verso la Natura in armonia con l’uomo che, a contrastare la sua sistematica distruzione, si erge e fa da diga la statura in arte ed azione di un eclettico “Pensatore”: Tommaso Romano. Un pensatore che, nella postura apparsa sui suoi blog, immaginiamo simile alla scultura del “Pensatore” di Auguste Rodin, posta nello spazio antistante l’omonimo museo in Parigi.
Il volume “In NATURA SYMBOLUM et ROSA (Ed. Thule-Palermo 2019) vuole essere, come scrive nell’Introduzione il dotto Ignazio E. Buttitta, “un momento di riconsiderazione complessiva del pensiero…per sfuggire alle angosciose e distruttive preposizioni di ogni relativismo e di ogni astrazione”. Per la verità il Nostro, nella pagina anteposta al Frontespizio, e a proposito dei semi nella terra, scrive che i suoi semi “sono le parole e la scrittura, una pratica selvatica e solo interiore…dato che nulla intendo insegnare ad alcuno”. Oppure, come riportato, fa sua la risposta di Edmond Jabes quando alla domanda “perché scrive?” afferma: “per nessuno, per il silenzio, forse, che è sempre attesa di qualcuno”. Ma in questa attesa, con questo volume, l’Autore a cui a volte piace nascondersi alla maniera epicurea, mostra qui tutta la sua verve opponendosi e denunciando la desertificazione dell’anima dell’uomo di oggi. Un uomo apatico e materializzato che per noia non alza nemmeno più lo sguardo al cielo per cui, come aggiunge Seneca, “Il sole non ha più spettatori se non durante le eclissi”. E pertanto egli insiste invitando a riconsiderare il sacro che c’è dentro la Natura ed essendo noi parte di questa, indissolubilmente anche in noi. E qui a sottolineare il sacro non occorre ricordare come, a parte la Teogonia di Esiodo, nella mitologia greca ciascun elemento e fenomeno della Natura fosse governato da una apposita divinità. Ma alla desertificazione dell’anima si sta accompagnando quella della Terra con la mutazione del clima di cui la scomparsa delle “mezze stagioni” fecero da apripista. Ma, osserva Romano, “nessuna Greta salverà il pianeta, la natura, l’intelligenza, l’equilibrio del cosmo vivente… senza naturali e soprannaturali relazioni solidali… dato che nessuna di queste può esistere da sola”. Ma queste devono essere in perfetta armonia, costituire un “meraviglioso insieme” e che il Nostro ha già ampiamente prefigurato chiamandolo “Mosaicosmo”. Un “insieme” che la nostra “semiopacità speculativa” potrebbe richiamare per quella “Dualità” della religione egizia dove tutto in terra trovava il suo riflesso nel cielo o a quello dove, anticipando di qualche millennio il pensiero socratico, già l’anima esisteva e che dopo la sua “pesatura”ad opera del dio degli Inferi Anubi, trovava posto nell’Aldilà o nel caso di Faraoni tra le stelle. E’ quello stesso Aldilà che popoli diversi per ceppo e cultura chiamarono “Campi elisi” (per i romani), “Praterie celesti” (per i nativi nordamericani), “Valhalla” (per i popoli norreni), Paradiso (per i cristiani) ecc. Ma torniamo a noi.
I temi affrontati dal pensatore Romano quali Natura, Symbolum e Rosa possiamo liberamente tradurli in “Armonia, Distinzione e Bellezza” giacché incardinano oggettivamente il pensiero “cosmico” dell’Autore. E qui il termine “cosmico” non può non richiamarci alla Cosmogonia dove tutto in principio era Kaos e che per sistemare la confusione che regnava intervenne il Kosmos, l’Ordine. Ma questo non salvava l’ordine mentale dell’uomo che non trovava risposte ai suoi interrogativi ancestrali: cosa significava, che ruolo aveva tutto ciò che lo circondava? La risposta fu trovata nel mito che diede origine e significato e quindi ordine a tutto ciò che era presente nel creato. Ma, moltiplicandosi le genti bisognava che loro avessero un segno di distinzione poiché nella Genesi Dio li creò tutti a Sua Immagine e Somiglianza, cioè tutti uguali. La distinzione fu trovata nella creazione del simbolo sotto il quale affermarono la loro specifica identità. Esempi, nell’arco temporale della storia li troviamo nella lettera Lamda (la elle dei greci) che gli spartiati portavano dipinta sugli scudi quale iniziale di Lacedemoni, nei cimieri degli elmi dei centurioni romani, sugli scudi dei cavalieri medievali quale segno di appartenenza ai diversi casati e per finire sugli stemmi distintivi delle Nazioni, quali il leone per l’Inghilterra, i gigli per la Francia, l’aquila nera per la Germania, quella bicipite per la Russia, la mezzaluna per l’Islam, il sole per i Giappone, il drago per la Cina ecc. Ma tutto ciò sarebbe stato vano senza un accordo sulla semantica delle parole usate per la comunicazione.
Domenico Carzo in “La società codificata” (Ed. Cacucci – Bari 1977), ha affermato che la società è governata da segni e simboli a cui è stato dato un codice di riconoscimento. E così se diamo, in perfetto accordo, un codice ad una cosa, non escluso il linguaggio dei segni o il pavese delle bandierine marinare, guardando il simbolo (ad esempio la segnaletica stradale) o ascoltando una parola, sappiamo di cosa parliamo. Oggi chiamiamo status symbol ciò di cui ci serviamo per comunicare il nostro stato sociale e perfino il vestiario, come afferma Francesco Alberoni, serve questo scopo. Ma di simboli è pervasa anche la Cristianità a cominciare dai quattro Evangelisti con la spada per Matteo, il bue alato per Luca, l’aquila per Giovanni, il leone alato per Marco i cui simboli rappresentavano nell’ordine il martirio, il sacrificio, il calice e la maestà divina, così come ricordati nel volume. Nel mondo sociale il simbolo più conosciuto è quello della Croce Rossa, fondazione creata circa un secolo e mezzo fa dallo svizzero Henri Dunant a seguito del massacro nella sanguinosissima battaglia di Solferino della Seconda guerra d’Indipendenza.
Tornando al volume, la poderosa opera consta di circa duecentocinquanta pagine. Fu composta in oltre un anno di duro lavoro e terminata, come attesta il “Fabbro del Pensiero” (non si offenda l’Autore di questo nobile attributo esornativo) tra le ore due e le sei del mattino del 18 settembre 2018. Tra le citazioni che compongono i florilegi e che accompagnano in sequenza i testi, ci piace citare, per quanto riguarda il simbolismo l’aforisma di Thomas Varlyle:…” l’infinito, nel vero simbolo, è costretto a unirsi al finito e a rimanere là, visibile e, per così dire, tangibile”; per la natura quello di Marco Aurelio:”Niente può essere un male quando è secondo natura”, e quello di Amit Ray: ” Guardare la bellezza del mondo è il primo passo per purificare la mente”,mentre per il mito quello di Marcello Veneziani:“ il mito a differenza dell’utopia, non abolisce la realtà ma la vede sotto una luce diversa e ne svela la sostanza”; infine per la rosa Francois de Malherbe: “Rosa, ha vissuto quel che vivono le rose, lo spazio di un giorno”. Ma aldilà del lungo elenco dei simboli, una particolare cura Tommaso Romano la riserva alla rosa. Una lunga e particolareggiata dissertazione sulla sua forma, sulla fragranza, sull’appartenenza alle varie civiltà, nonché sulla composizione del numero dei suoi petali che in seguito furono presi a simbolo sia da sette storiche (dai Rosacroce ai Templari alla Massoneria), sia non ultimo dalla Chiesa. E in questa, il discorso si amplia quando dall’enunciazione del Roseto si passa al concetto di Giardino dove, a parer nostro, scorgiamo una analogia tra il giardino dell’Eden, il primo giardino in assoluto creato da Dio e il giardino ideato e curato dall’uomo. Qui i fiori, scrive il Nostro, sono sacri ponti tra cielo e terra, fra visibile e invisibile dal momento che un fiore che sboccia annuncia la nascita di una nuova vita. A conforto e a completamento di ciò una massima di Marco Tullio Cicerone, qui riportata, così recita: “…Se accanto alla biblioteca avrai l’orto (così i romani chiamavano il giardino), non ti mancherà nulla”.
Non possiamo chiudere queste note senza il supporto di una considerazione. Oltre alla composizione inclusiva di un esaustivo saggio sulle piante e sugli alberi che alla guisa dei campanili e dei minareti si innalzano quasi a cercare il cielo, Tommaso Romano nel “In Natura Symbolum et Rosa” riporta le voci più importanti del Dizionario ragionato dei simboli di Giovanni Cairo (1930) nonché quelle di numerosi personaggi storici e mitologici. Oltre a ciò, a corredo, offre un roseto di pensieri complessivi e costitutivi che vertono verso un ancestrale e atavico suo obiettivo: la riconciliazione dell’uomo con la natura e attraverso questa con Dio. Una riconciliazione che non deve per forza essere un regresso della emancipazione dell’uomo acquisita con l’ausilio dell’invenzione della macchina a sostituzione del lavoro manuale, né una forzatura verso una omologazione sul modello delle Comunità Amish dove non esistono elettricità, auto e telefoni, ma un ritorno a quel rispetto dovuto a quel mondo naturale che offre tanto e nulla chiede se non di convivere in armonia con l’uomo.
È questo il traguardo che l’Autore si pone (non solo con questo lavoro) sostenendo un’Idea e perseverando per un “cammino di pensiero e d’azione…dove poesia, filosofia, scienze umane, letteratura, storia e arte” rivestono interessi convergenti. Il tutto racchiuso, secondo noi come prima accennato, nella trilogia Armonia, Distinzione, Bellezza. Ed è nella sintonia, nell’empatia, in quel “sentirsi dentro l’un con l’altro” che si compie quel percorso che pervade la spiritualità nei suddetti termini. Quel senso di spiritualità che permette l’avvicinamento a comprendere il concetto di cosmicità dell’uomo e pertanto a elevarlo alla percezione di Dio. Un uomo però, non come creatura singola ma come parte di un tutto, quale una piccola tessera nel grande Mosaicosmo così come immaginato dieci anni fa dal nostro inesauribile “Pensatore”. Inesauribile perché nell’ultima frase della sua “Premessa”, si augura di ampliare la materia trattata in volume con ulteriori aperture simbolico-dottrinali. Non ne dubitiamo giacché il nostro novello Efesto tiene sempre accesa la sua fucina dove in un crogiolo di ferrea volontà sono contenute, ne siamo certi, sempre nuove idee da forgiare.