“L’elitismo politico di Gaetano Mosca” di Michele Gelardi

Nella galleria dei siciliani illustri, un posto di rilievo è occupato da Gaetano Mosca. Si laureò in giurisprudenza a Palermo nel 1881; fu professore di diritto costituzionale e amministrativo, nonché di storia delle dottrine politiche in varie università italiane.  Nel 1909 fu eletto deputato al Parlamento con la Destra nel collegio di Caccamo e riconfermato alla Camera nel 1913, fino al 1919. Nel 1914 fu sottosegretario di stato per le Colonie fino al giugno 1916 nei governi Salandra. Nel 1919 fu nominato senatore del Regno.

A lui e Vilfredo Pareto si deve l’elaborazione della teoria dell’elitismo politico, secondo cui, in ogni ordine di convivenza umana, si possono individuare due classi sociali: i governanti (le élites detentrici del potere politico) e i governati (la maggioranza dei consociati, sprovvisti di analogo potere). Secondo Mosca, l'élite al potere è organizzata in modo tale da mantenere a lungo la propria posizione e tutelare i propri interessi, anche utilizzando i mezzi pubblici a sua disposizione. Tuttavia la riproduzione “conservativa” del potere è assolutamente compatibile con l’assetto democratico, ravvisato come “metodo” contrapposto a quello aristocratico; il primo, ricorre quando l'oligarchia permette ai membri di qualsiasi classe sociale l'ingresso al suo interno; il secondo, quando il ricambio avviene sempre all'interno della élite. È comunque preferibile il metodo democratico, nell’interesse stesso della minoranza dei governanti, perché la conservazione del potere è legata alla capacità d’interpretare i valori e la mentalità della maggioranza dei governati.  Dunque Mosca suggerisce un sistema di controlli, equilibri e contrappesi, atto a garantire, da un lato, la difesa giuridica della libertà, dall’altro, lo status quo. In ultima analisi la dottrina moschiana, della conservazione dell’ordine, e la paretiana, dell’equilibrio e del ricambio sociale delle èlites, si completano vicendevolmente.

L’insigne studioso siciliano è stato sottovalutato; il suo contributo di idee al pensiero giuridico, sociologico e politologico del nostro tempo non ha destato l’attenzione che meritava, tanto che non ve n’è traccia nei libri di testo dei nostri licei. A mio avviso, la dottrina di Gaetano Mosca è la più convincente risposta alla teoria marxista, della quale mette in crisi il fondamento di base; al contempo, può essere inserita nell’alveo della scuola liberale, per quanto l’osservatore superficiale possa ritenerla giustificativa dell’assetto istituzionale oligarchico, piuttosto che democratico.

L’intero castello concettuale, edificato da Karl Marx, poggia sull’idea di fondo che le classi sociali siano in conflitto nelle relazioni economiche.  A questa stregua la lotta di classe, ravvisata come motore della storia, ha origine nei “rapporti di produzione”, in virtù dei quali il capitalista acquisisce il plusvalore prodotto dal lavoro subordinato, ai danni del proletario. Al contrario, Gaetano Mosca circoscrive la contesa degli uomini alla sfera dei rapporti politici. La ravvisa come mera lotta per il potere politico, all’esito della quale la vittoria arride sempre e comunque a una minoranza elitaria.  In questa logica, la storia ha un percorso circolare, alla maniera di Vico (altro grande sottovalutato), ben diverso da quello “progressivo” e lineare pensato da Marx. Ebbene la concezione circolare della storia può essere considerata l’essenza stessa del liberalismo.  Gli uomini infatti sono liberi nei limiti in cui l’autorità politica non indica una meta da raggiungere, una linea da seguire per un paradiso da conquistare sulla terra, giacché il prezzo da pagare è sempre e comunque la perdita della libertà dei sudditi, “sapientemente” e coattivamente guidati alla meta dal “duce” di turno.  Sicché la rappresentazione ideale della contesa umana, avulsa e metastorica, priva di destinazione finale, è la premessa per sottrarre “sacralità” alla politica, ravvisata come mero esercizio di potere. La legittimazione della sovranità non è cercata da Gaetano Mosca nei destini della nazione o della classe operaria, o in un “destino” purchessia, ma nel dinamismo intrinseco della società umana.  Per certi versi, l’élite dello studioso siciliano somiglia al Leviatano di Hobbes, che si erge sul consesso degli uomini, in lotta tra di loro, per assicurare le condizioni della pacifica convivenza.  C’è tuttavia una differenza sostanziale: la perenne lotta di tutti contro tutti, teorizzata da Hobbes, investe la dimensione economica della convivenza umana, mentre il potere elitario di Mosca investe solo la dimensione politica e dunque non è ritenuto necessario l’intervento dell’autorità costituita nei rapporti economici.  Sicché la dottrina di Gaetano Mosca, piuttosto che giustificare l’autoritarismo dell’élite, mira a circoscrivere la dimensione autoritativa dell’ordine alla sola sfera politica. Ci sono tutte le premesse per la distinzione fondamentale, successivamente perfezionata da Bruno Leoni, tra il diritto e la politica: il primo afferente ai rapporti paritari che gli uomini intessono liberamente nella sfera sociale; la seconda caratterizzata da rapporti potestativi o egemonici, nei quali la volontà dell’uno prevale su quella dell’altro. Pare corretta questa lettura, in chiave liberale, dell’opera del grande studioso siciliano, la quale “prende atto” degli inevitabili conflitti umani e li ridimensiona, esprimendosi infine in proposizioni descrittive, né predittive, né prescrittive. La dottrina di Gaetano Mosca non è una filosofia della prassi; non vuole guidare, né giustificare; ci aiuta soltanto a capire (e non è poco) la ragione intrinseca e metastorica della dinamica politica.

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