Una personale esegesi sulla poesia "Martinu" di Nino De Vita

di Nicola Romano - Si può estrapolare soltanto una poesia dalle centinaia di testi scritti da un autore? Si può enucleare la sinteticità e l’asciuttezza di un’espressione come condensato di tutta una singolare poetica che si è affermata sicuramente nel tempo? Forse non sarebbe, questa, un’operazione altamente cognitiva ma, comunque sia, nel caso del poeta Nino De Vita, un testo abbastanza essenziale e che rimane nella sua unicità come florilegio di un’intera opera è, secondo me, la poesia “Martinu”, allocata nella sezione “Era lustru di luna” della raccolta «Cutusìu» uscita nel novembre del 2001. Da premettere che un valore aggiunto nella poesia devitiana sta nel fatto che, avvalendosi di talune atmosfere appartenenti alla dimensione rurale e contadina assimilata e maturata nella contrada di Marsala, denominata per l’appunto Cutusìu, dove da giovane ha vissuto, affida egli alla specifica parlata quella discriminante fonica che da sola riesce a donare vigore a tutta quanta l’espressione poetica, per non dire che altro valore si va ad aggiungere quando è egli stesso a declamare i suoi testi, arricchendo quindi la comunicazione attraverso un’oralità di sicura affabulazione e di evidente musicalità. La dimensione bucolica è assicurata dal luogo in cui si svolge la messa in scena di questa delicata poesia, un giardino, che – come sappiamo - è simbolo di prosperità, di abbondanza e di purezza, nonché simbolo di quella perfezione umana che si raggiunge attraverso la meditazione che segue ad ogni contatto con la natura. La recinzione di tale giardino – sembra informarci l’autore - non è formata da palizzate o da bassi muretti ma da un insieme di circa dieci persone sedute a circolo, e che stanno ad ascoltare un’introspettiva e personale descrizione della luna durante le sue fasi e per come si presenta durante la sua apparizione notturna. Ma ecco che in media testo viene annunciata, fra la diecina di spettatori, la presenza d’un ragazzino nato non vedente che, pur ascoltando, rivolgeva non lo sguardo ma il capo verso il basso, come a voler udire, con uno dei sensi che gli rimanevano, la crescita d’un filo d’erba. E tale considerazione metafisica dà origine ad un pathos che troverà il suo culmine proprio nella parte finale della poesia. E in effetti, dopo aver ascoltato tutta quanta l’entusiasmante descrizione sulla luna, all’improvviso Martinu – all’apice della sua immaginazione - ferma il discorso del narratore e sussurra dolcemente: “ È bbedda ‘a luna!” (È bella la luna!). Martinu non aveva mai visto la luna, ma la forza prorompente della poesia

e della sua “parola” gli ha fatto “vedere” laddove un bene appaia lontano, sfuggente e non concretamente presente. Questa poesia di De Vita afferma quindi il concetto leopardiano secondo cui la natura ha dotato l’uomo della facoltà immaginativa che opera come una seconda vista capace di veder quello che non c’è, di intravedere quanto lo sguardo naturale e sensitivo non coglie. E, ribadiamo noi, il compito della poesia è anche quello di fornire particolari immagini al fine d’innalzare il lettore verso rarefatte ed impalpabili atmosfere, e con questa poesia De Vita ci riesce molto bene!

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