“Wislawa Szymborska: attualità di un centenario” di Maria Nivea Zagarella

L’assegnazione nel 1996 del premio Nobel per la Letteratura a Wislawa Szymborska dette ampia notorietà anche in Italia alla poetessa polacca, nata nei pressi di Poznan nel lontano 1923. Oggi, a cento anni dalla sua nascita, ripercorrerne l’opera (è morta l’1 febbraio 2012), significa rileggere e rileggerci dentro un secolo di storia, che sembra essere passato invano.

Se la sua vita privata non registra eventi eclatanti (tranne il Nobel e altri prestigiosi premi), intensa è stata la sua attività intellettuale e la correlativa presenza nella vita culturale del suo paese. Nel 1988 lo scrittore russo I. Broodskij la annoverava già nella triade dei maggiori poeti polacchi del tempo: Z. Herbert, C. Milosz (Premio Nobel 1980) e appunto W. Szymborska. La poetessa collaborò dal 1953 al 1981 con il settimanale di Cracovia Vita letteraria, dirigendone dal 1953 al 1966 la sezione Poesia, e commentando dal 1960 al 1968 per la rubrica Posta letteraria i testi inviati da aspiranti scrittori. Iscrittasi al partito comunista nel 1952, ne uscì nel 1966 per protesta contro l’espulsione dal Partito e dall’Università di Varsavia del filosofo Leszek Kolakowski, ritagliandosi sempre più negli anni una sua autonomia di giudizio e di azione. Separatasi dal primo marito Adam WlodeK nel 1952 e legatasi allo scrittore Kornel Filipowicz dal 1967 al 1990, anno della morte di questi, la troviamo attivamente impegnata sul fronte anticensura dell’opposizione politico-civile al regime comunista -come sottolinea il suo traduttore in Italia Pietro Marchesani- soprattutto negli anni ‘70/’80: firma della lettera aperta di protesta nel 1975 dei Cinquantanove che non volevano l’introduzione nella Costituzione polacca del ruolo-guida del Partito Operaio Unificato Polacco e “l’indissolubilità” del legame Polonia-Urss; aggregazione nel 1978 alla TKN (Associazione per i corsi scientifici) per un sapere libero da censura; collaborazione dal 1981 al periodico “Pismo” che voleva dire la verità apertamente, e non con la gola serrata; incontri clandestini dal 1983 della “rivista parlata”, cioè letta dal vivo dagli autori, “NaGlos”; rifiuto nel 1986 di un premio ministeriale e accettazione invece di quello della Associazione allora ancora clandestina Solidarnosc; fondazione nel 1989 del SPP (’”Associazione degli scrittori polacchi” di opposizione)… Dopo l’adesione giovanile al comunismo, presente nelle prime raccolte poetiche, Per questo viviamo (1952) e Domande poste a me stessa (1954), la Szymborska comincia a staccarsene in Appello allo Yeti (1957), silloge pubblicata nel periodo della destalinizzazione, e dopo la liberazione di Gomulka. Distacco che verrà accentuandosi fra imperialismo di Breznev (1964-1982), cui si colgono allusioni nella poesia Voci sotto la copertura della lettura di Tito Livio, e nuovo corso della perestroika di Gorbaciov (1985/1991) negli anni, come già visto, di Gierek (1970/1980) e di Jaruzelski (1981/1989). Nel 1991, guardandosi la poetessa indietro, riconoscerà, fra sensi di colpa, che senza quelle sue poi rifiutate esperienze iniziali non avrebbe mai saputo <<che cos’è la fede in una ragione unica. E quanto sia facile allora non sapere quello che non si vuole sapere>>, e non avrebbe capito che <<anche l’amore per l’umanità è molto pericoloso, perché per lo più porta a volere rendere gli uomini felici per forza>> (come aveva preteso il totalitarismo comunista). In Appello allo Yeti la deportazione nazista degli ebrei (Sono piombati i vagoni/ che qui trasportano i nomi… Tu-tum fa la ruota. Non c’è uscita./ Tu-tum corre il treno delle grida…) si affianca nella denuncia alle vittime dello stalinismo, tardivamente riabilitate (Li credevo traditori, indegni dei nomi… e invece, Yorick, erano falsi testimoni) o riesumate dalle tombe, come le ceneri dell’ungherese Laszlo Rajk condannato nel 1949 (Dall’argilla il cranio han tolto… Hanno letto da un foglietto… E tu popolo, apprezza/ e rispetta il progresso/ che chi è nato una volta/ in due tombe vien messo…). Il trauma personale della poetessa (…parole che non possono risuscitarli… Neppure a un mezzo respiro so destarli/ io, Sisifo, incatenato all’inferno della poesia) e l’autocritica (Sulla via dal falso alla verità/ smetti di essere giovane… Esperti degli spazi dalla terra alle stelle/ ci perdiamo nello spazio/ dalla terra alla testa…) plasmeranno il suo scetticismo storico metaforizzato in una delle due scimmie del quadro di Bruegel, che a lei che “balbetta” e “arranca” in storia dell’uomo mostra la sua tinnante catena. Scetticismo ribadito in tutte le raccolte poetiche successive dal 1962 al 2009 (Sale, Uno spasso, Ogni caso, Grande numero, Gente sul ponte, La fine e l’inizio, Attimo, Due punti, Qui) attraverso riflessioni sempre crude, argute, e ironiche, chiudendo il cerchio la poesia Catene del volumetto postumo Basta così (2012), che contiene anche autografi incompiuti. In essa un cane assetato, in un giorno d’afa, non può bere dalla ciotola colma di acqua per la catena troppo corta, e “noi” gli passiamo accanto disinvolti (e indifferenti) -precisa la poetessa- per le nostre molto più lunghe/ e meno visibili catene.

E così non stupisce leggere ancora di nazismo e ebrei nelle sillogi Sale, Uno spasso, Gente sul ponte, Basta così. Vedi il campo di fame presso Jaslo dove sullo spiedo di filo spinato ondeggiava un uomo; l’innocenza ignara di chi è stato concepito su materassi di capelli umani; il poeta Baczynski morto a 23 anni nella rivolta di Varsavia; la foto sarcasticamente ironizzata di Hitler neonato bebè angioletto tesoruccio…; la mano più che sufficiente, con le sue 27 ossa, muscoli, cellule nervose, dita, per scrivere Mein Kampf/ o Winnie the Pooh. Oppure, il perpetuarsi nei secoli delle torture per le quali il corpo “trema”, “si torce”, “si dimena” come nel ventesimo secolo prima e dopo Cristo: Nulla è cambiato./ C’è soltanto più gente,/ alle vecchie colpe se ne sono aggiunte di nuove/, reali, fittizie, temporanee e inesistenti… E l’ironia della poetessa gioca sferzante anche a intervistare la Morte/Atropo, che (in Due punti) nel suo incessante zelo si dice paradossalmente aiutata proprio da noi mortali grazie a svariati dittatori, numerosi fanatici, guerre continue, che le consentono di stare al passo, e si abbandona, in La fine e l’inizio, all’elogio feroce dell’efficienza dell’Odio nel ‘900, il secolo che doveva essere migliore di altri (tutto primavera, felicità, verità). Odio che da solo genera le cause che lo fanno nascere, si rafforza grazie all’insonnia, non si trova mai a corto di ragioni (Religione o non religione… Patria o no… Anche la giustizia va bene all’inizio. Poi corre tutto solo), e non è mai annoiato del lindo carnefice sulla vittima insozzata; un sentimento l’odio rispetto al quale gli altri risultano fiacchi e malaticci: da quando -scrive la poetessa- la fratellanza può contare sulle folle?/ La compassione è mai giunta prima al traguardo?/ Il dubbio quanti volenterosi trascina?/ Lui solo [l’odio] trascina, che sa il fatto suo. Allo stesso modo la parola “guerra/e”, con immagini specifiche al seguito, non ha minore incidenza o frequenza nei testi della Szymborska per l’inestinguibile (si noti l’espressivo caustico neologismo) autorisadismo dell’uomo sull’uomo. Valgano per tutte le poesie La fine e l’inizio e La realtà esige, dove, nel caratteristico timbro civile della poetessa, fra risentito e disincantato, ironico-sprezzante e sarcastico-giocoso per l’oblio che succede a ogni umana tragedia e il folle, umano, ricominciare, leggiamo, nella prima: dopo ogni guerra c’è chi deve ripulire… non è fotogenico/ e ci vogliono anni./ Tutte le telecamere sono già partite / per un’altra guerra…; e nella seconda, più provocatoriamente, dato che la realtà “esige” che la vita continui: dove era Hiroshima/ c’è ancora Hiroshima/ e si producono molte cose d’uso quotidiano… Forse non ci sono [nel mondo] campi se non di battaglia,/ quelli ancora ricordati,/ quelli già dimenticati… dove per un bisogno impellente/ ci si accuccia oggi dietro un cespuglio./ Quale la morale? Forse nessuna./ Di certo c’è solo il sangue che scorre e si rapprende/ e, come sempre, fiumi e nuvole. Quanto alle singole vittime e ai profughi di sempre nella silloge Attimo la poesia Gente li coglie con sulle spalle brocche e fagotti, con davanti a loro una qualche via che non è mai quella,/ un ponte che non è quello che occorre/ sopra un fiume stranamente rosa… e soprattutto (con singolare e attualissimo nesso con una certa Polonia e una certa Europa sovraniste di oggi!) con davanti l’incognita di chi gli andrà incontro: …ma quando, chi sarà,/ in quante forme e con quali intenzioni./ Se potrà scegliere,/ forse non vorrà essere nemico/ e li lascerà in una qualche vita.

L’ironia e l’estro inventivo, mentre scalpellano il dolore, tendono anche a filtrarlo e smorzarlo, aggirando sottilmente la censura politica. “Deserta” è infatti l’isola Utopia con le sue dogmatiche certezze (anche quelle ex comuniste). Malgrado in essa si trovino l’albero della Giusta Ipotesi e quello del Senno, la Valle dell’Evidenza, il lago della Profonda Convinzione, dal cui fondo si stacca la verità e lieve viene a galla, e dalla cima della Certezza incrollabile si spazi sull’Essenza delle cose, le orme a stento visibili sulle rive vanno tutte verso il mare, come se da quella isola si andasse soltanto via, immergendosi irrevocabilmente nell’abisso. Fortunatamente i tranquillanti moderni, con la loro pietà chimica, fanno da panacea per ogni tipo di infelicità: a casa, in ufficio, in tribunale. Una “pietà” che “riduce” l’ingiustizia, “rischiara” l’assenza di Dio, offre un bel cappellino da lutto. D’obbligo e di routine è poi il sorriso degli statisti dalla dentatura bianca e ben smagliante: canini di buona volontà  -annota la poetessa- e incisivi lieti/ non possono mancare quando l’aria è pesante, e gli intellettuali silenziati e perseguitati non fanno che scontare il vizio incorreggibile della loro tipica pornografia, la “dissolutezza” cioè inaccettabile del libero pensare: analisi spinte, sintesi impudiche,/ caccia selvaggia e sregolata al fatto nudo,/ palpeggiamento lascivo di temi scabrosi,/ fregola di opinioni, preferenza per i frutti dell’albero vietato della conoscenza… E intanto che i politici discutono sulla forma del tavolo delle trattative se rotondo o quadrato (come ai tempi di Solidarnosc), la gente continua a “morire”, gli animali “a crepare”, le case “a bruciare”, i campi a “inselvatichire” come -sottolinea con una piega amara di sorriso Wislawa- in epoche remote/ e meno politiche di quella attuale. Il suo sguardo corre continuamente, con ampie carrellate, dal presente al passato, non solo storico, anche geologico, e biologico della evoluzione della specie umana (vedi pure l’incompleta Uomo di Neandertal), assorbendo alla fine ogni fatto o figura nel suo scetticismo, che non si tinge dei colori cupi della disperazione, ma del distacco e sobrietà di una pietà malinconica, che se mima lo scherzo graffiante, sa soprattutto comprendere e compatire. Binomio questo inscindibile dalla sua anima, quale emerge da una poesia incompleta, passata dai manoscritti inediti al libro postumo Basta così dal titolo suggerito dalla stessa autrice viva, e ordinato da Ryszard Krynicki. In essa la  coppia Buonumore e pietà, è sposata da tanto -confessa significativamente la poetessa- e amano lavorare insieme./ Lei ha un lavoro fisso, lui soltanto saltuario/ e quando devono separarsi non per colpa loro/ il mondo all’improvviso diventa incomprensibile. Anche gli spunti della classicità vengono piegati alla sua visione dell’esistenza, che escluso sin dalle prime tre poesie di Appello allo Yeti (Notte, Incontro, Hania) il credo fideistico-religioso, registra, accanto alla divaricazione fra sogno e realtà (vedi le ragazzine lentigginose e non notate che identificatesi con la rapita Elena si vendicano e trionfano temporaneamente di divi del cinema, fratelli delle amiche, insegnante di disegno), il labile, sanguinoso e vano succedersi di innumerevoli generazioni nella Storia senza apprezzabili traguardi: le schiere di carne da spada abitanti le 7 città dissepolte sul colle di Troia non appaiono così dissimili nella loro sorte dal novecentesco coacervo delle nostre faccende, brulichii inarticolati,/ stazioni, spalti negli stadi, cortei,/ oltrefrontiera di strade, piani, pareti, essendo tutti -nell’ottica di Cassandra- fin dalla nascita con corpi da commiato. L’accalcarsi sulle rive dello Stige oggi si è solo moltiplicato e ammodernato di megafoni riflettori motoscafi bacini uffici magazzini per un trasporto sicuro e Ermes vuole sapere con anticipo quali guerre verranno e dittature,/ e quante le barche da approntare.

Circa la più modesta, giornaliera, routine, essa appare rosa dall’ ”analfabetismo” consumistico, o totalitario e/o burocratico, emblematizzati nel fastidio/rifiuto dell’io collettivistico e della folla/massa (la mia testa statistica… la mia testa d’altri, di chiunque… come un cimitero di crani anonimi di buona conservabilità), nella testa mozzata di un cane, che collegata a tubi in cui circola il sangue, reagisce agli stimoli come fosse ancora tutt’uno col corpo (se la vita fosse tutta qui,/ la testa era felice), nella sterile selettiva concisione di un “curriculum” scritto come se non parlassi mai con te stesso/ e ti evitassi, e destinato solo al tritacarta. Oppure è scossa da eventi necessari o tragicamente casuali o ideologicamente necessitati: morte dei propri cari, incidenti aerei o stradali, ciniche bombe e attentati terroristici come quello dell’11 settembre 2001 (le foto di quelli che sono saltati giù dai piani in fiamme…), e dei terroristi sottolinea la poetessa l’inossidabile freddezza: e poi (collocata la bomba) la vista è come al cinema…; oltre a ciò mangiano con appetito i loro cibi,/ pregano, si lavano i piedi, nutrono gli uccelli…). Una quotidianità ingrigita anche dalla incomunicabilità, che tocca persino l’Amore, che solo talvolta è appagato e appagante come nella poesia Notorietà: Eccoci qui distesi, nudi amanti,/ belli per noi ed è quanto basta… Io non ho intuito, né tu hai indovinato (a differenza della falena)/ che i nostri cuori splendono nell’oscurità. Più spesso l’Amore è fruito e fruibile soltanto nei ricordi e nei sogni (che occupano grande spazio nell’immaginario poetico della Szymborska), e sfocia in genere nella separazione e nell’estraneità (Prospettiva, Divorzio), al punto che l’amore felice (raro) -scherza la poetessa con tenera, dissimulata, nostalgia- sembra un complotto contro l’umanità. L’infelicità umana non ha però solo radici storiche, ma anche metafisiche. C’è una miseria ontologica dell’uomo, quasi una nullità, entro la misteriosa vastità del cosmo, universo infinito dalle regole ignote, e dalla terrificante lontananza si legge nell’incompiuta Buchi neri, muto e indifferente alle sorti degli uomini evoluti dal mondo animale, senza prospettive di eternità, sospesi fra istintualità e sopravvivenza darwiniana e incerte ascendenze platoniche e perciò sempre alla ricerca di un difficile e precario equilibrio, di una misura sfuggente di sé e del reale. Perché -si chiede la Szymborska nella poesia “Platone, ossia Perché”- l’essere ideale smise di bastarsi… perché si mise a cercare impressioni/ in cattiva compagnia della materia?...donde nel mondo una saggezza zoppa, un’armonia fatta a pezzi da acque agitate, un Bello con dentro budella sgraziate, il Bene con un’ombra, e il singolare “destino” dei poeti, trucioli/rifiuti (inquieti) del grande Silenzio delle vette. E mentre autoironica, e simulando giocosamente inanità e disinteresse, torna ciclicamente sul ruolo/necessità della poesia nella società (Serata d’autore,Tremarella, Ad alcuni piace la poesia, La cortesia dei non vedenti, La gioia di scrivere, Nell’arca, Una idea…), altrettanto fa con le ambizioni errori limiti crudeltà, ma anche positive potenzialità e illusioni dell’Uomo e del singolo, fra risentimenti/ammonimenti e stimolante ironia: Grotta, Uno spasso, Film-Anni Sessanta, Contributo alla statistica, Elenco, Recensione di una poesia non scritta, Scheletro di Dinosauro, Vermeer. Vi troviamo, spigolando qua e là, invocazioni del tipo: Dio dell’humour, fa’ di lui (uomo evolutosi in tre miliardi di anni) qualcosa alla svelta,/ Dio dell’humour, fanne qualcosa una buona volta; domande quali: Dove è il posto del libero arbitrio/ che continua a esserci e non esserci/ contemporaneamente… Perché ho preso per buone cose cattive/ e cosa mi occorre per non sbagliarmi più; la stramba recensione di una poesia non scritta che pone il problema di come vivere et cetera; il dato statistico di una bontà quasi zero; le allocuzioni in stentoreo, canzonatorio, climax ascendente in un confronto particolareggiato fra un grande dinosauro, estintosi per la sua ridicola testolina, e gli umani invece sopravvissuti, allocuzioni che culminano in un sonoro schiaffo-sberleffo per noi: Altissimo Consiglio,/ che mani abili,/ che labbra eloquenti,/ quanta testa sulle spalle.// Suprema Corte,/ che responsabilità al posto di una coda; il sogno minimalista infine di un mondo/umanità semplice e raccolto, come in un quadro di Vermeer: finchè quella donna… giorno dopo giorno versa/ il latte dalla brocca nella scodella,/ il Mondo non merita/ la fine del mondo.

Il fatto è che la Szymborska ama il Mondo e la Vita nel multiforme “esserci” di tutte le cose, animate e inanimate, anche minute (uno scarabeo) o invisibili (gli esseri che nuotano sotto i vetrini), o i fossili, come le foramine (incantevoli rocce bianche, emerse dal mare/ dal mare azzurro,/ rocce, che sono qui, poiché ci sono). E con esse ama la irripetibile singolarità della “persona”: un mondo nel suo insieme stupefacente! Sono -scrive di sé (e di ognuno) nella poesia “Nella Moltitudine”- quella che sono./ Un caso inconcepibile/ come in ogni caso. Nella casualità assoluta d’esistere hic et nunc di ogni individuo, creatura, cosa, dopo tante ere di non-presenza, sta per Wislawa l’incanto/stupore/miracolo del vivere! Perché -si chiede- di persona una volta soltanto?... Sola da me con me?... Non è troppo per me il sole, l’aurora?... tutto questo rigoglio, germogli, foglie e scaglie, lamponi, mirtilli, berilli, zampilli, l’ombra di una farfalla in volo sulla mano, e in coalizione incessante contro la morte: bulbi, baccelli, antenne, pinne, tracheeI cuori battono nelle uova -scriveva nel 1986- crescono gli scheletri dei neonati… Non c’è vita che almeno per un attimo non sia stata immortale. E riconsacra l’attimo: inciampare in una pietra, bagnarsi in qualche pioggia, perdere le chiavi tra l’erba, seguire con gli occhi una scintilla nel vento, ma anche stare dentro gli eventi con l’inclinazione a confrontare, cercare il più piccolo errore, distinguere il dolore dal non dolore, vivere la felicità nell’infelicità, stupirsi del mondo, scrivere scaglie argentate di versi come un ammiccare imbarazzato del buio. Il libro postumo Basta così che raccoglie poesie scritte dall’ottobre 2010 al novembre 2011 sunteggia a mo’ di viatico soggettivo e collettivo i punti salienti del suo intero percorso poetico-spirituale. Tutto l’irrefrenabile rigoglio vitale prima enunciato si ricapitola, in vitalistico aurorale erotismo, nei pochi versi di “All’aeroporto” nel corrersi incontro di due innamorati in abiti invernali, ma innocentemente “nudi” ai loro occhi, e sullo sfondo dell’ennesima inchiesta esistenziale (Nel sonno), i testi del volumetto ripropongono la sfida umanistica e arditamente soggettiva a non farsi folla, massa, tromba ideologica, violenza strumentalizzata irriflessiva, focalizzando (in metafora) ad apertura di libro un netturbino che nella quotidiana “raccolta dei rifiuti” (striscioni, fantocci, rosari, fischietti, preservativi…) requisisce una gabbietta per colombi perché resti vuota. A liberarsi -invita e insiste la poetessa- dalle catene delle certezze assolute, della crudeltà indifferente, dell’egoismo allegro-banchettante (C’è chi, Catene, Coercizione); a ri-decodificare termini ontologicamente fondanti della “persona” quali sentimenti, anima, sono, al di qua di ogni sicumera di conquista tecnologica e sociologica, e a non scordare che gli oggetti che produciamo sono “specchio” della Vita o della nostra autodistruttiva morte: lo specchio ad esempio isolato al IV piano della casa di una città rasa al suolo che non riflette più nessuna faccia ma, con terribile accoramento, nubi in corsa nell’aria impetuosa,/ polvere di macerie lavata dalla pioggia/ lucente, e uccelli in volo, le stelle, il sole all’alba. Perciò il suo amore per le mappe geografiche, per le loro bugie, mappe dove il pianeta si abbraccia con un solo tocco/sguardo, dove sono assenti fosse comuni e improvvise rovine, e si intravedono quasi esitanti i confini degli Stati, frontiere che non esistono in natura, mentre -rimproverava già Wislawa nel 1976 in “Salmo”- Solo ciò che è umano può essere davvero straniero. E ci consegna nella poesia “Reciprocità” l’ammonimento che almeno una volta ogni tanto/ ci sia l’odio dell’odio, dato che conclude, -e tutti i conflitti irrisolti stanno qui purtroppo a confermarlo cruentemente dall’Ucraina alla guerra Israele/Hamas ai 50 punti “caldi” oggi di stragi sul Pianeta- c’è l’ignoranza dell’ignoranza/ e mani reclutate per lavarsene le mani.

 

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