XVII Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

Cettina moglie di mio fratello Francesco con il loro primogenito Giancarlo

  Quando ero bambinissimo, quattro, sei annetti avevo un aspetto così fuori dall'andamento che in strada la gente si fermava e mi indicava. Ero con lo zio che allora credevo gigantesco, Nunzio, in abiti militari, è la fine della Seconde Guerra Mondiale, il mio parente, dicevo, maestoso, alto, chiomoso, passo solenne di combattente  mi teneva la manina trasmettendomi grandiosità. Invero ero piccolo, di età e di aspetto, di figura, vestito da ammiraglietto, i bottoncini d'oro, alquanto pettoruto, gli occhi grandi e sospesi, come mia sorella Ermanna, l'eccezionalità la manifestavo e contenevo nei capelli, non erano capelli ma grandi chiome boccolose che mi circondavano le guance spiovendo e incuriosivano, maschietto o femminuccia? Mi sentivo in ogni caso un reuccio, come i bambini imparruccati dei secoli che furono. Dopo qualche tempo, i boccoli li avversai irosamente, mi alteravano a femminuccia, e mentre al principio mi orgoglivo, ora mi avvilivo. Non trovo una immagine, io con il dorso della mano a fermare le lacrime perché mi vogliono fotografare con i boccoli, sui miei capelli vi è una macchia, nell'immagine, di inchiostro da me versato perché oscuri i boccoli. Non volevo che restasse quella memoria, ma adesso spero che l'immagine non sia perduta. Tuttavia senza boccoli conquistai la condizione maschile, felicissimamente, mi consideravo però non bello, bello era mio fratello, le mie due sorelle erano molto belle, io no o non mi consideravo come loro, magro, pallido, mantenevo gli occhi grandi, capelli nerissimi che si sarebbero distinti dalla notte, mi vulnerava l'ossessione delle. orecchie a sventola, quello destro, alquanto pendolante, mi osservavo allo specchio, premevo l'orecchio, e mi trasformavo, bastava la riunione dell'orecchio alla guancia! Fantasticavo di colla, cerotti, fili invisibile per la congiunzione, niente da concludere, ma questa ossessione finì spontaneamente, tornando in tempi futuri.Sempre con sguardo al corpo visto dalla mente, scavalco degli anni, non ero alto, allora, non corto, però, sui quindici, sedici anni mi venne la consueta malattia, e \stavolta\ continuò settimane, quando riuscii a sollevarmi barcollavo, mi ero accresciuto di tanti centimetri, e superavo il metro e ottanta, dovevo fondare il nuovo modo per ergermi e sostenermi, pervenni alle cime di quel mio parente che mi appariva gigantesco. In periodi successivi questi rapporti di me con me si complicarono, e non si frenarono al corpo piuttosto all'intero me come Io. Dopo la licenza liceale, nello sperdimento da una giornata immessa nella regolarità quotidiana e nella compagnia, la solitudine, l'accanita attenzione su me stesso mentre con le narrazioni che leggevo mi correva l'immenso universo di personaggi e imprese, ne suscitai una nuova metamorfosi, non solo il rifiuto del corpo, addirittura il rifiuto di me stesso, ero chi ero e non volevo esserlo, una situazione insostenibile, infelicità compatta, veleno ormai mortale, tutto e tutti mi negavano, mia madre che mi proteggeva oltremisura, mio patrigno nervoso, irato, mio fratello, la casa, ogni stanza, il cortile, il Viale San Martino, gli altri, il vento, ma era il mio essere Io che mi annientava, non volevo essere chi ero, e non volevo essere con chi ero, luoghi e persone, ma come strapparmi da me avverso me, come non esserlo essendo quell'Io che ero? Camminavo per Viale San Martino come un prigioniero che ha la possibilità dell'aria ma non risolvevo. Mi negavo, mi rinnegavo, mi rifiutavo, e restavo chi ero! Fuggire, altrove, non più quella città, non quella casa, non quelle persone. E me stesso, sarei rimasto sempre e ovunque me stesso? Ma negavo proprio me stesso, quindi fuggire era vano? Fu, ripeto, un periodo successivo alla fine del liceo quando improvvisamente vennero a mancare i due amici essenziali, Giuseppe Rossetti e Ferdinando Salleo. Giuseppe (Pippo) dovette ripetere l'ultimo anno di liceo classico, Ferdinando a Roma. La fine del liceo fu un dramma nel cambiamento, i miei compagni fermi, tutti i giorni, gli orari in classe, il cortile, il gioco pomeridiano, l'Università, almeno all'inizio, non mi dava ancoraggio. Ne dirò. Mia madre comprendeva che pativo e accresceva la sua tutela: Hai bisogno di questo, di quest'altro, che cosa vuoi mangiare, non leggere troppo, non fare tardi la notte. Non vi era momento della mia vita che mia madre non controllasse, nato di sette mesi, in circostanze agitatissime, conservava il bisogno di protezione ma io non volevo essere ancora un bambino, non volevo essere soltanto un figlio, amando sterminatamente mia madre, con un enorme piacere di averla presente, non la voleva incombente né che mi dirigesse la vita, divenni respingente, rifiutativo. Mi chiudevo tutto il giorno nella stanza da pranzo, ascoltando musica e leggendo. Fu un periodo intorcinato, rifiuto di me, rifiuto di tutto, voglia di fuggire senza essere più Io, coscienza di questa impossibilità ma comunque voglia di fuggire, immersione nella lettura per vivere una realtà diversa almeno pensandola, amore per taluni scrittori e taluni personaggi, anzi: i personaggi che vivono in me massimamente oltre le persone.

In queste evenienze tutt'altro che sopportabili conobbi ancora persone reali che per qualche anno o per tutta l'esistenza fanno parte della mia vita. Nel tempo: il cognome è certamente Gentile, il nome credo Armando, era frequentatore totale del Gabinetto di Lettura, i quotidiani ma specialmente libri di Storia, o restava nel salone dalle poltrone vaste, o nello stanzino della bibliotecaria. Persona più brutta da me vista, come in certe raffigurazioni di pittori caricaturali, magrissimo, magro stecchito, guance affossate, labbruzze scolorite, bianco gialliccio di rivestimento pellaceo, occhi azzurrognoli,miopissimi, occhialeggiati, capelli sì e no, il colore non lo saprei definire, qualche punteggiatura di foruncoli estinti, essiccati, la voce lo riscattava anche se manteneva le accentazioni siciliane, una disponibilità al dialogo, una cortesia intima, spontanea, una affettuosità misurata e persistente, un fare per l'altro che lo trasfiguravano, oltretutto sapeva di Storia, magari i fatti più che i giudizi, e della Storia recente, e ne dicevamo, e confrontavamo, una sorta di misurazione di letture, hai detto questo, hai detto quest'altro, che dice questo, che dice quest'altro, su questo argomento si dice questo, no si dice quest'altro, uno scambio di letture nel senso di chi aveva letto di più e più sapeva, ma non a prevalere, vittoriosi, per amore di conoscenza. Più in età di me, non ne coglievo gli anni. Ci vediamo quasi tutti i giorni al Gabinetto di Lettura e una volta anche a casa sua, persone modeste ma l'affermazione delle buone maniere, amicizia, lealtà, cordialità. Il padre era in casa, anziano, incredibilmente, forse l'ho accennato, aveva conosciuto mio padre, questo signore dipendeva da mio padre nell'impiego, e lo descrisse quale bellissimo uomo, buon parlatore dalla gradevole voce, seduttivo e donnaiolo. Quanto conoscevo, ma fu l'unica testimonianza esterna alla famiglia e mi avvicinò all'Ombra di mio Padre massimamente. Non è che gli amici sostituiscono gli amici ma avendo perduto Giuseppe (Pippo) Russotti e Ferdinando Salleo, io, un solitario affettivissimo, con le situazioni mentali accennate, troppo in me stesso, ebbi una ulteriore circostanza di amicizia, questa: un giorno si presenta a casa un ragazzo, robusto, alto al mio livello, volto ampio, occhiali spessi ed occhi seri, fissanti, di marrone asciutto, chiomatissimo di capelli ondeggianti, si chiamava e si chiama Giuseppe Sobbrio, figlio di mio zio Francesco e di zia Piera, con entrambi mia madre aveva rapporti sereni. Un cugino, dunque, vi era un altro cugino, Salvatore, che tristemente morì giovane, e amava dipingere e ben dipingere. Giuseppe ebbe ed ha invece vita attiva e adempiuta negli scopi, divenne come voleva docente universitario, scrisse libri, fu preside di facoltà, Università di Messina, è poliglotta, anche lui ha la passione di radunare le proprietà del nostro avo materno in una mano, come tentò zio Nunzio. Diventammo amicissimi, e la stranezza fu che con lui, ragazzino, discutevamo soprattutto di filosofia, non storia della filosofia ma problemi della condizione umana, Dio, il bene, l'individualismo, la morte, e romanzi, Giuseppe poi si volgerà a discipline matematiche. Non è immaginabile la passione che accendeva i nostri passi a Viale San Martino, allora esisteva la disposizione a questioni esistenziali, non passeggiavamo per camminare ma per discutere. Non si studiava esclusivamente per un mestiere. Sia come sia, per noi fu così, ereditavamo il mondo greco.

Non vorremmo ricordare vorremmo rivivere, ricordare non è rivivere No, assolutamente no, anzi l'opposto, ricordare è non rivivere, le passeggiate con Armando Gentile, con mio cugino Giuseppe Sobbrio nel Viale San Martino, le grandi discussioni sono nella mia vita, però in me, non le vivo fuori di me. Le rarissime volte che ormai torno il Viale San Martino mi sembra un deserto lunare, non conosco nessuno, non vi è segno di noi, io invece ricordo minuziosamente dove ci fermavano a chiacchierare, Piazza Cairoli, sentivamo il fruscio degli uccelli, o all'inizio di via Tommaso Cannizzaro, mio cugino saliva per la sua abitazione, al Ponte Ameriucano, Armando Gentile saliva per la sua abitazione, io scendevo a casa, a domani, a domani, e domani ve ne furono, poi altri domani, altrove, ciascuno a suo modo.

Mio fratello scorrazzava tra donne e musica, studiò quanto serviva a laurearsi, Giurisprudenza, e si laureò, a Palermo. Aveva amici, era molto associativo più che sociale, riuniva lui le persone, in tempi successivi promuoverà una edificazione dove sono riuniti parenti ed amici. Gli amici erano i compagni di Liceo, rimanendo a Messina non visse il distacco che io vissi. Laureato, voleva e\ dove\va\ lavorare oltre che suonare e cantare e dongiovannare. Tra gli amici compagni di Liceo nel passato vi era Elio Mazzaglia, figlio del Segretario Comunale del Municipio della Città. I Mazzaglia erano oltre Elio, la sorella Concetta (Cettina), una sorella minore, Titty, la consorte del Mazzaglia una signora piccola, magrolina, accogliente, sorella di un noto e ben affermato avvocato, Giuseppe Gentile(credo parente del mio amico Armando). Non so come, dopo laureato mio fratello mutò, in parte, tuttavia mutò, volle farsi un professionista, rendersi un avvocato, e fu immesso nello studio dell'avvocato Gentile, il quale era coniuge di una bellissima donna, Sara, e padre di una graziosissima figlia, Titti, che sposerà il mio amicissimo costruttore Giuseppe Russotti. Da questo circuito spunta un sortilegio, il dongiovannesco avvocato cantante suonatore Francesco Saccà si fidanza con la fanciulla Concetta (Cettina) Mazzaglia. Quando mio fratello me lo dichiarò, da non credere. Cettina era riservata, ragazzina, frenare, contenere mio fratello mi sembrò arduo. Si sposarono. La Chiesa, Santa Maria degli Alemanni, per il ricevimento, una Chiesa antica, un resto di Chiesa, interrata, archi a sesto. Vi erano tutti gli amici, rimarranno amici per l'intera vita di mio fratello. Difficile, forse non vi è scelta uguale per tutti, se rimanere in un luogo, con le medesime persone, illude che vi è qualcosa di stabile, consistente, o accettare il divenire, il passaggio sfuggitivo. Io ho l'esperienza del mutamento. Mio fratello mi disse che, divenendo padre, doveva pensare ai figli. Non credo che rinunciasse a “vivere”, per niente alla musica, ma fu un coniuge dedito alla famiglia e laborioso strenuo. Ormai non vivono né lui né la consorte, anzitempo scomparsa, restano i figli, Giancarlo che prosegue degnamente l'attività del padre, Claudio, Alessandra. Ad essi è affidato il nostro cognome.E la memoria.

Torno alla mia giovinezza. La mia vita restava nel mio interno, il rifiuto di me, il rifiuto della mia casa, perfino dei miei parenti, perfino di mia madre, di colpo tutto rifiutato, il rifiuto di me stesso, camminavo e mi rifiutavo di essere chi ero, mi guardavo continuamente allo specchio e volevo annientare la mia immagine, lo specchio era una voglia imperante, mi guardavo per non accettarmi, proponendo la raffigurazione per annientarla, se in strada qualche conoscente mi scorgeva e mi accostava, evitavo, io non volevo essere io con alcuno, non potevo essere considerato. Una magnifica ragazza con una treccia bionda da racconto di favole si sporgeva dalla finestra ogni occasione di mio passaggio, niente, non potevo essere io soggetto di attenzione, io non meritavo sguardo, la conobbi dopo tanti, tanti anni e mi fece capire che ero pazzo, ma lo avevo compreso da me. La vita era nei libri, e nei personaggi delle narrazioni, ma quei personaggi svilivano la mia esistenza “paesana”. Ne verrà una animazione tra farsesco, velleitario, con risultati così estremi che mi convincono di una verità contraria al buon senso, occorre l'irragionevolezza per oltrepassare l'esistenza comune, al dunque, i massimi risultati li ottenni quando ero quasi folle. La mia vita comincia adesso. Con dei viaggi “assurdi”.

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