XXIII Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

IL PONTEFICE GIOVANNI PAOLO II CON SALVATORE DINO
Quando tornai in Sicilia, 1980, i miei congiunti, mia madre, mio patrigno, mia sorella di secondo matrimonio avevano cambiato casa, i luoghi nuovi non erano da me conosciuti, ma andavamo al mare, ed il mare lo coponoscevo e soprattutto conoscevo gli abitatori estivi, giungevano  da Messina, si erano  accordati e rendevano  quel paesino il loro punto di vacanza. Si costruivano villette a schiera, ville, il complesso aveva denominazione ERAT, il paese denominato Rodia, poco distante da Villafranca. Tutti gli amici di Messina si ritrovano amici a Rodia. Ctredo che mio fratello abbia avuto attivo compito, si era anche indaffarato nella impresa di un palazzo a Messina interamente acquistato da amici, gli stessi amici di Rodia.  Questo comunitarismo nelle città non grandi  suscita un modo di vivere diversissimo dalle vaste città. Nel palazzo che mio fratello favorì nell’edificazione e nell ’acquisto degli amici ebbero casa, anche i figli di mio fratello, Giancarlo, Claudio, Alessandra, mia sorella maggiore, Caterina, i figli anzi le figlie , Irene ed Ermanna, ed ovviamente mio fratello. La veduta sullo Stretto e le costiere montagnose della Calabria, i tramonti, fermavano ,lo sguardo, soltanto il Bosforo lo eguagliava, a mia conoscenza. Se mi recavo da mio fratello, dai nipoti, e salivo le scale, ad ogni piano, un saluto, amici, conoscenti, mio fratello adempiva una sua inclinazione, la socievolezza. Suonava, cantava, cucinava,giocavano a carte, tifavano per qualche squadra, ed erano professionisti operosi, con funzioni rimarchevoli.
La nuova abitazione di mia madre, mio patrigno, mia sorella Anna mi piaceva estremamente, era la casa dove avrei abitato sentendomi  nel luogo “autentito”. Non ce smemorassi quella del Ponte Americano, anzi, i miei ricordi sono inchiodati.  Ora, questa di Via Liberale, aveva aspetti Liberty, che amo estremamente, balconcini in ferro, stucchi, tendine a uncinetto, poltrone dorate come le specchiere, e dall’ampio terrazzo lo Stretto di Messina. Stanze luminose velate dalle tendine, i mobili sopravvivevano al matrimonio con mio padre, cristalli molati, vi abitava anche il coniuge di mia sorella Anna, e vi nacquero i nipoti Carlo ed Anna Paola. In quella casa mi sentivo “autentico”, ripeto, bastavano mia madre, mia sorella, i miei nipoti, se veniva mia fratello, mia sorella maggiore ero felice, completrato.. La familiarità della famiglia, i ricordi, la compagnia,  mia madre ed io ci rammentavamo l’infanzia, Gualtieri  Sicaminò, che ha fatto quello, avevo sempre lo stesso posto, mi avevano confezionato un tovagliolone per non sporcarmi a pranzo, mia sorella Anna era lei che preparava il caffè. Il Sole siciliano illuminava bianchissimo la stanza. Tutto sospeso. Io, che mi aggiravo nel mondo, ritrovavo il nido. Sul tavolo per decenni vi restava la lettera “espresso” con la quale avevo comunicato a mia madre che avevo trovato alloggio a Firenze. 1958.
Prossima a Rodia in altro paesino, San Saba, vi abitava, estivamente, il mio carissimo amico di adolescenza e compagno di studi, Giuseppe Russotti. Ci eravamo scompagnati, ignorati, incontrati soltanto in occasione di un festeggiamento del  quindicesimo, ventesimo, non so, anniversario  della licenza liceale, al matrimonio di mio fratello, al suo matrimonio o  ad entrambi gli eventi. Nella ricorrenza della licenza liceale, accadde un penoso fatto, il compagno di liceo, Tresoldi, pretore, aveva ad alto vocio promesso che Giuseppe Russotti sarebbe stato soggettato a sicura condanna per mano sua o altrui, ma di certo. Del resto già lo aveva incriminato un altro compagno di fanciullezza, Elio Risicato, anche egli magistrato. Questo Tresoldi non si frenava. Chi sa da quanto immaginava di incontrare il compagno  di un tempo e sbraitare minaccioso. Ritengo che nell’arsura di giustizia sussistesse anche rabbia invidiosissima. I Russotti , Sebastiano e Giuseppe, possedevano ricchezze immani rispetto al comune cittadino, persino i traghetti per un qualche periodo, confezionavano autostrade, migliaia di appartamenti, alberghi,anche all’estero, ville e abitazioni estesissime. Giuseppe era il donnaiolo riconosciuto, sportivo, abbronzato, un motoscafo di altura,macchine , a pranzo, a cena mai senza ospiti, figurarsi un pretore che annota il modo di vivere del trascorso compagno di aula mentre fatica sulle carte! Era l’epoca dei “pretori d’assalto”. Un aspetto dolente della giustizia, che viene amministrata da uomini, nei quali possono anche insorgere invidia, rancori, valutazioni ingiustissime. Quel Tresoldi in piedi, verdebile, puntato avverso un compagno di adolescenza  mi resta negli orrori vissuti. E avrà effetti orrendissimi. Per anni in seguito, tornando a Messina, rivedrò il mio amico di un tempo,  Giuseppe Russotti, e passavamo ore a rammentare, ritrovare la vita. Rivivere.
A Roma vi era un altro Francesco, non mio fratello, tipo non corrente, deliberatamente originale , Francesco Grisi, ne ho detto. Un giorno, credo nel 1978, a Roma . via Nomentana, lo incontro casualmente, mi invita ad accompagnarlo, intende farmi conoscere un tipo anch’egli speciale, un “soggetto”. Stradina, appartamenti a villette , modello Liberty, entriamo , un anfratto,  una scultura riproduzione  credo di scultura romana, giovane ricciuto, vetrata colorata, sento lo sguardo alle spalle, mi giro, vedo, suppongo, questo ipotetico “personaggio”, occhi marroni incassati, netti di sguardo, abbastanza alto in specie per l’agilità del corpo , snello, compatto, vibrante, teso,  naso lievemente arricciato, bocca stretta e ferma, volto  indurito, capelli schiacciati  e fronte corta, ferrea, un’aria di atleta energico, indossa una giacca dal taschino sboccia un fazzolettino con le punte schiumanti. Lo porterà sempre, mi fissa, mi circonda osservativo, mi stringe la mano con naturale forza, ha movimenti  scattanti. Fu in tale maniera che conobbi una tra le persone determinanti della mia vita, come lo fui per Lui. Salvatore Dino. Esistono gli amori a prima vista, e le amicizie a prima vista. Era il 1978. Per circa trent’anni, rotti da un minimo intervallo, non fu giorno che, dopo qualche mese dell’incontro, evitammo di vederci, sentirci, progettare. L’incontro di allora avveniva per confezionare un libro, il libro si riferiva al nuovo Pontefice, Giovanni Paolo II. Venni a sapere che questo signore , Salvatore Dino, suscitava libri monumentali,  copertine dorate o argentate, e le consacrava a Capi di Stato, Pontefici, aveva clientela facoltosa,  volumi costosissimi, in tutta la nazione e persino internazionale, lo Scia di Persia, Reza Phalevi, era stato monumentalizzato nei libroni di Salvatore Dino, il quale aveva affidato a Ugo Spirito di coniare un testo il quale disegnasse la politica economica e culturale, la modernizzazione dell’ Iran. Ugo Spirito ne scrisse,  pubblicazione di centinai di migliaia di  stampati. Poi, avvenne la modificazione islamista, e la finalità   collaborativa si chiuse. Spirito teorizzava un’economia statale e privata, mista, e soprattutto il potenziamento dell’istruzione. Ma il personaggio che dominava l’editorialità di Salvatore Dino era Benito Mussolini, vendeva strepitosamente ai nostalgici del Ventennio, con libri dignitosi nella sostanza storica. Dino era legato a Edda, Vittorio,  Romano Mussolini. Edda  conservava lo sguardo del passato, larghi occhi  marroni, scurissimi, di pantera,  piccola,almeno nello sguardo rammentava il Padre, tuut’akltro Vittorio, quieto, dimesso, e Romano, somigliante al Padre perà csocievole, “borghese”, alla mano.
Dino aveva si era immediatamente approssimato a Giovanni Paolo II, andava ai vertici spavaldamente, al quale intendeva offrire un testo , addirittura quasi una linea direttiva, un suggerimento, una aspettativa concepiti da intellettuali italiani. Francesco Grisi ordinava  e coordinava la pubblicazione.  Indicare una progettazione sociale era l’ossessione di Salvatore Dino, il Suo “progetto”, differenziaro dal capitalismo e dal comunismo. Ne dirò ampiamente. Il testo sul Pontefice uscì credo nel 1978: “Papa Woytila-Una Certezza”, vi fu anche un mio scritto.
 
Quando  tornai dalla Sicilia, 1980,certamente alla fine di agosto, con la studentessa ci eravamo salutati come se fosse un addio, un  saluto da condannati a morte, silenzio per mesi,     luglio ,agosto, la rividi, era un'altra persona, perduti i colori, spenti, essiccati, gli occhi smorti, quasi cadenti, gli abiti spenzoloni, a che dovuta quella trasformazione? Lontananza,  dubbio che l’avessi dimenticata? Allora parlare a distanza non era comodo, ed i suoi genitori mi osteggiavano, e forse non aveva strumenti in casa, si recava nelle Marche. O era riapparso il giovane che le era promesso  sposo? A Rodia ebbi qualcosa con una piccola, vitalissima ragazza del Nord, di Bergamo, un’altra mentalità, prendeva l’iniziativa, la voglia di vivere i desideri . Ci incontrammo con la studentessa, venne dove io insegnavo, camminavamo  a fianco,  sgomentato a guardarla, il suo corpo cadeva su di sè, tutto le precipitava, lo smagrimento la afflosciava ed i vestimenti ora troppo larghi accrescevano la  caduta del corpo. Non i seni alti e fieri, non il volto tondeggiante, non l’occhio largo e fermo, e quei capelli inariditi,  biondo essiccato! Le gambe , stecchite. Le braccia. Stecchite. Venne tutti i giorni , e tutti i giorni qualche centinaio di metri, non le chiedevo di venire da me, non mi diceva che sarebbe venuta da me. E però giorno su giorno tornava al passato. Sì, i capelli rifiorivano, sì, i colori degli occhi rilucevano, e le braccia si impolpavano, e le gambe, ed i seni spingevano la camicetta, e gli abiti non pendevano, e si ergeva. Giorni avanti mi ero trovato in uno dei luoghi più rinomati della Città, Piazza della Muse, ai Parioli, pomeriggio, il Bar con la vista su Roma, cammino,  una donna, sola, aria assorta, occhi mesti, mi sorride minimamente, la guardo, mi sembra di conoscerla, un viso rifinito, piccolo, occhi scuri, la guardo, mi guarda, è seduta, mi accenna di sedere, siedo, ci presentiamo, ecco,  una mia conferenza, Lei con  accompagnatore e quando avevo finito si accostò e mi sorrise. Andammo a cena. Poi venne nel mio confuso appartamentino  che abitavo dopo la separazione da Norma. Mi disse che era incapace di vivere la femminilità. Ma non fu così. E ne stupì. Si chiamava Stefania. Stefania Ferrero. Dopo pochi mesi diverrà Stefania Ferrero Saccà. Mia moglie. Una ereditiera dalla parentela risonante.La studentessa venne come ogni giorno, risplendeva , la vidi, stavo in auto, mi accompagnava un collega, mi vide, che mi allontanavo accennando un saluto, ebbe un piegamento, quasi ricevesse un colpo, non l’ho rivista. E’ tra i misfatti della mia vita. Soffriamo e facciamo soffrire involontariamente, per il divenire .Ed il mio divenire era in quel tempo Stefania. E sarà tanto estremo che il poterlo narrare mi sembra il ritorno dall’aldilà.
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