XXXVIII Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

  
Antonio Saccà con nell'ordine da sinistra: editore Dino, sen. Domenico Fisichella,
lo scrittore Francesco Grisi, prof. Domenico Caccamo, on. Gennaro Maglieria.
Fu un mercoledì, l’ho forse accennato, e da quel giorno temo quel giorno, dopo pranzo, lei , Stefania, a riposare, dormire, immaginare, fantasticare, io nei corridoio, uno sguardo alla porta della camera  di Stefania a letto, uno sguardo e non soltanto lo sguardo alla domestica, l’azzardo della furtività, il piacere rubato al percolo. Ma quella volta, fu mercoledì , ed era iniziato il pomeriggio, il sole lo ricordo, trapuntava nel salone, ma il corridoio in ombra, e lo stanzino della cameriera con la spoglia lampada, la vedo, sola , solitaria, forse pensa al figlioletto avuto da chi sa chi, forse alla sua squallida esistenza, forse a qualcuno che fornicherà, forse a niente, o mi aspetta, la vedo, seduta,  siedo accanto,  , qualche parola, non ricordo, un gesto, sì, quel gesto, la mia mano  sfiora il suo volto,  la mia mano minimamente nel suo volto, le dita scendono lievemente sulla guancia, un niente, una minuzia, e la vita si travolge, da quel momento, attimo, la mia vita diventa un’altra vita. Alla porta come un'ombra  gigante, incapace di parlare, un cipresso mortuario, Stefania, come vedesse intrecci di serpenti, ferma, muta, ammutolita.. Poi con voce   quieta le ordinò di uscire, via, via, sparire,  la sciagura raccolse il suo niente, e uscì. Io la inseguii, le consegnai denaro. Quella visione , divenne il “per sempre”, fui obbligato a  ripetere il teatro. E mi interrogava: “accarezzavi la cameriera perché ti aveva affatturato”, Pour di salvarmi, e non  giudicarmi spregiativo di lei, Stefania. Io non potevo liberamente avere rapporti co la cameriera, un sortilegio, streghe, qualcosa che mi aveva alterato a me stesso. Una vittima. Privato di volontà. Pur di salvarmi  dall'essere  stato volontariamente contro di lei,  mia moglie, Stefania Ferrero, concepiva sortilegi. Da quel giorno tutti i giorni, e  diceva: ”il tuo sguardo non era il tuo sguardo, tu non eri  te stesso”,i voleva farmi succube,  stregonerie di gente  contadina, i scampo, io non ero io, strega di campagna, si spinse alle diavolerie, un continuo andare in chiesa, acqua benedetta,gettata su di me, giorni, ogni giorno, mesi, inchiodata a quella visione , e si inoltrò, svegliarsi la notte ,cacciarmi dal letto, io ero  indemoniato e lasciavo  segnali sulle pareti , chiamare la guardia pubblica, notte, dovevamo sorvegliarmi, notte, il telefono in pugno, la frenavo a stento, molte notte di molti mesi, luce improvvisamente, lei che stringe il telefono, non riesce a numerare, indica una impronta sulla parete, l’orma diabolica,  mesi mesi e mesi ,finché, l’estremo, dopo la morte del genitore,  si uccide Paolo Ganna, suo legame per anni. Uomo gentile ,pittore non spregevole, chissà perché scese nel Tevere, quadri,giornali, taniche  e si bruciò . Stefania sconnessa più della morte del padre, credette che  un “qualcosa” si accanisce contro di lei e mi guardava atterrita anche da me,  in silenzio mi interrogava: che vuoi fare, che volete fare di me? Qualche anno dopo me lo chiese  gridando: NON FATEMI DEL MALE!  Questa disperatissima angoscia, la ripetizione ossessiva dell'evento, non furono il colpo della morte mentale, manteneva ragionevolezza, ma poi accadde, Una  studentessa mi trascino in una catastrofe erotica ,non bella, ma senza catene, nata per darsi amanti, avventure da contarle come una capigliatura, coniuge inconsapevole,  mi diceva Ma stavolta sentimentalismi, scrivere il mio nome nei quaderni,o  non so che altro mostra-va di amoroso. Sicchè infine  il coniuge di una delle donne più concessive  dell’Emisfero Occidentale, innumerabile le  persona  anche di nome e sbalorditive le maniere per le sue voglie, lesse  e vide cuoricini trafitti, nomi circonfusi, mio e suo, della consorte, indicazione di incontri, e gli insorse furia di vendetta, rivelando a mia moglie la mia vicenda con sua moglie. Caddero le stelle, la terra  bruciò, i mari  svaporati. Di vivo restava uno spaventapasseri. Incredibilmente Stefania impugnò la circostanza, separazione e con il timbro della legge.  MA NON VOLEVA STACCARSI DA ME ED IO NON VOLEVO STACCARMI DA LEI. Narro a memoria, I  Diari fermeranno le vicende,  restai a Largo Fregoli, 8, credo ,ma in un appartamento sottopiano, o feci abitazione altrove, non lontano, forse le situazioni avvennero entrambe ,  in successione, Di certo chiuse tutte le stanze, tranne l’ingresso e il salone,  io, per ritrovare i miei quaderni dovevo uscire nel terrazzino e rientrare dalla finestra della stanza accanto, prendere i quaderni, ricompiere per uscire.. Aveva chiuso le stanze, potevo entrare soltanto nel salone. ED  ERA SCOMPARSA. Scomparsa, invisibile, ignorata, nel non so dove, forse morta, forse uccisa, istante, minuti, ore, giorni e la mia mente non sa, teme, si disperde, non ero in me stesso, appartenevo all’ansia della  inesistenza di Stefania, ero nella sua inesistenza, camminavo perchè avevo il corpo, ma io non ero in me, e niente dicevo, a nessuno chiedevo, non  intendevo farla malgiudicare, o far malgiudicare me con lei.. Sei mesi , centottanta giorni, ma non vivevo i giorni, gli attimi, quelli conficcarti nella consapevolezza che lei chi sa quale sorte , quelli vivevo, .una trafittura  attimo  nell’attimo.  Le mie stanze erano sotterranee, e scendendo tubi, filamenti, pareti tumefatte, poi l’abitazione gradevole, perfino un  piccolo giardino, però scendendo mi sentivo inabissato e le case dei piani soprastanti mi schiacciavano. Tutto finito, per me, e in me la fine. CENTOTTANTA GIORNI. Dovevo  rivolgermi a chi fa ricerche. Almeno il suo corpo, almeno sapere.
LA VIDI CHE APRIVA LA PORTA ED IO SALIVO DALL’OLTRESOTTO. La vidi e non la vidi. Forse era lei, forse  fantaseggiavo. Ma quando si girò e mi saluto ed accennò che  entrassi, sì, era tornata, viveva. Non in condizioni temute, anzi, quasi avesse restaurato padronanza di sé. E narrò, finalmente qualcosa di suo, AVEVA COMPIUTO QUALCOSA, non era l’ombra mia, non oscurata, lei aveva da dire, voleva dire, sedette e parla, parlò. Non voleva scomparire, era  stata in Germania, accompagnandosi ad un fondatore di abitacoli sotterranei per   difendersi dalla guerra nucleare certa e prossima(1990) ,un gruppetto di fedeli con la missione di salvare convincendo persone ricche a concedere il loro denaro generosamente ai risultati della salvezza. Ascoltavo. Stefania era  credulina in fatto religioso eterodosso, ma tratteneva un residuo totalmente borghese, avveduto, utilitaristico, di suo avarissima, forse qualche insistenza, qualche richiesta anticipata , forse l’inesistenza delle cave protettive, o che altro, Stefania non divenne Sacerdotessa della Salvezza, e tornò a Roma. Una qualche animazione, un’esperienza esisteva, il suo dimostrare a se stessa di valere non aveva risultato che l’esperienza di una possibilità, certo, non si era afflitta di danno, sperpero, però conquistato niente,e matrimonio in rotta,
 
Sebbene in condizioni desertificate, continuavo a scrivere, a pubblicare. Addirittura la biografia di Sigmund Freud(IL COPRESSO DI MOSE’, DINO EDITORE) lo scrissi tenendomi  i fogli addosso perchè Stefania aveva li gusto  neurotico di cambiare serrature. Scrivevo e pubblicavo. Da Salvatore Dino, nel vastissimo salone  della villa che Egli accresceva , convegni, presentazioni dei miei libri. E di taluni libri  scriverà estesamente. La drammaticissima esistenza “privata”,ma  esisteva la animosissima vicenda culturale.
 
 
 
 
 
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