«Francesco Carbone. “Arte del Fare”. Etica, Estetica e Spiritualità» di Giovanna Cavarretta

Molto si è scritto su Francesco Carbone, come critico e come socio-antropologo e spesso si è dissertato su Godranopoli, Centro di Arte Visiva, Documentazione e Sperimentazione, da lui fondato nella nativa Godrano, insieme all'amico artista Giusto Sucato. La sua scomparsa, avvenuta Il 23 dicembre del 1999, ha lasciato un vuoto nell’arte e nella cultura della nostra isola. L'originalità che egli riusciva ad individuare nelle opere degli artisti, la percepiva grazie al suo occhio critico, frutto di una sapienza intellettuale mischiata ad un intuito prepotente. Il tutto sorretto da una capacità di sintesi colta e raffinata. Una capacità che gli permise di “scoprire” un poeta suo concittadino entrato nell’oblio ma il cui giudizio nel capo della corrente letteraria “Futurismo”, quale fu Filippo Tommaso Marinetti, fu considerevole soprattutto nell’incoraggiarlo e nello spingerlo a pubblicare i suoi lavori.  Cosa che “l’ultimo poeta futurista” fece affidando all’editore Vallecchi il suo “Quand’ero pecoraio” e su cui il Nostro scrisse un corposo testo critico:” Si tratta di liriche che penetrano il tessuto agreste in cui esse vengono concepite e affidate alla parola, ad un segno letterario che le trasmetta, che da natura libera le trasforma in codice convenuto. Il territorio viene così tramato e attraversato in tutte le sue manifestazioni umorali, nei suoi dettagli strutturali, nelle sue infinite relazioni di armonia, di dissonanza, di vita e di morte. (…) E’ proprio nel momento in cui il Futurismo preannuncia ed esalta un nuovo modello di vita, una diversa cultura, l’inserimento di Giardina nello stesso movimento ne fa esplodere le contraddizioni interne, deflagrando in un personalissimo universo poetico. (…) Ma che cosa c’è di diverso in Giacomo Giardina, in quel suo situarsi in maniera del tutto propria e originale, tra primitività e attualità, tra creatività e gesto della parola, tra oralità e immagine, tra voce e scrittura.” Era il 1931 e il poeta era Giacomo Giardina nel cui Circolo culturale di Bagheria chi scrive è socia da qualche anno.  Carbone amava e decantava la Bellezza. Riusciva a vederla occasionalmente anche nella gente che incontrava per strada, trovando stimolante il dialogare tanto con gli eruditi quanto con gli incolti. Il suo era uno spirito dominato da un'immensa sete di conoscenza dell’animo umano. Qualsiasi persona con cui veniva a contatto, rappresentava per lui una fonte dalla quale attingere frammenti di vita vissuta e, come un'alchimista, trasformava ogni gesto ricevuto, ogni impulso emotivo, nel “Fare dell'Arte". Consacrato alla cultura e agli altri ma poco a sé stesso, considerava ciò un "pregio di inestimabile valore perché riteneva grande verità quella di considerare che noi siamo fatti degli altri, giacché gli altri non sono soltanto vicini a noi, ma dentro di noi".  Questo stralcio è tratto da una lettera che il Nostro scrisse a sé stesso in occasione di una festa all'“Atelier della Bellezza”, voluta nel lontano 1998 dal Direttore di Fiumara d'Arte, Antonio Presti. Lo scopo che si era prefissato consisteva nel misurare e celebrare il suo spessore intellettuale e umano il cui confine, peraltro imprecisato, restava sempre conforme all’esigenza del suo fare e del suo pensare. Carbone ha sempre considerato l'arte uno strumento d'indagine valido in molti campi dello scibile umano e rivolto al recupero di un'interiorità etica e sociale. Nella sua lunga attività ci sono le premesse per una risistemazione della “cultura del dubbio", in cui il sapere logico ed empirico ritrovano fondamento nell'inesorabile divenire estetico; la conoscenza viene così espressa non soltanto in concetti, ma in immagini. L'orientamento storiografico utilizzato teneva conto sia dell'inventario del tempo sia dello spazio, il che interessando anche i minori perimetri territoriali, gli consentiva di valutare la necessaria integrazione tra storia e geografia dell'arte. E ciò al fine di rilevare compiutamente la presenza di pittori ritenuti minori quasi sempre esclusi dagli avvenimenti promossi in altre aree più progredite. Questo per sottolineare come in Sicilia essi siano stati spesso isolati e non adeguatamente stimati nei loro valori reali. Egli reputava ogni composizione moderna e avanguardistica come contributo essenziale per la creazione della "vera opera" e cioè quella che racchiude in sé elevati contenuti ideali ed etici. Infatti, l'accostamento all'Antropologia gli permetteva di cogliere la fitta rete di relazioni fra "trasformazioni sociali e valori" onde individuare, nella varietà delle espressioni contemporanee, le poetiche e la poliedricità dei linguaggi. Tale processo analitico fu da lui definito come un momento operativo, all'interno del quale tutte le manifestazioni sono determinate dall'interazione tra natura e cultura connesse con il ruolo, significativo, assunto dall'estetica. Quindi dall'intimo legame tra il bello e l'arte, si arguisce come l'esigenza di quest'ultima dovesse avere piena consapevolezza del proprio rapporto con la realtà sociale. Cosicché, collegandosi all'agire, l'azione che ne scaturiva si sarebbe potuto inquadrare in un'altra più vasta e complessa. Influenzato dal pensiero gramsciano, nella cui si immedesimava, Carbone era convinto che l'intellettuale dovesse essere capace di svolgere un atto in cui teoria e pratica fossero congiunte e pertanto gli uomini d'ingegno dovessero essere degli "organizzatori di cultura", cioè gli artefici di una sapienza acquisita non in quanto tale, ma per la vita.  In tale contesto, egli fonda un “Centro di Ricerca e Documentazione, Godranopoli, che diventa il manifesto di un rinnovamento speculativo " dall'interno, aprendo sorprendenti orizzonti intellettuali e morali" nonché creativi. E questi l’Artista li esprime nella dinamica o fenomenologia contemporanea, sperimentandoli in alcune tappe: dal Figurativo realista all'Astratto caldo, dall'Informale all'Iperrealismo, dalle Installazioni alla Land-art, dal Body-art alla Scrittura Visuale. “Questa scrittura- scrive Carbone- ha assunto via via motivazioni diverse e differenti modalità d’uso e di rappresentazione. (…) Quindi, non può più essere al servizio della sola voce, intesa come espressione diretta della parola. (…) La nuova scrittura, pertanto, non mira più ad essere la traduzione fedele del parlato, ma a collocarsi in una dimensione tutta propria, dove gli assetti semiotici della scrittura stessa riflettono le reali connotazioni dell’universo segnico e non più quello prevalente (prima) della parola.” In tale contesto assurge un importante ruolo “La Scuola di Caltanissetta” a partire dagli anni Settanta. Nella seconda metà del Novecento con l’affermarsi delle avanguardie storiche e letterarie, la Scrittura Visuale, come mezzo di comunicazione artistica, diviene uno strumento d’indagine, volto ad un ribaltamento dei linguaggi espressivi al fine di sperimentare nuovi modelli. Cosicché, Calogero Barba, Giuseppina Riggi, Lillo Giuliana, Franco Spena, Michele Lambo, Salvatore Salamone ed Agostino Tulumello si cimentano in opere dalla struttura ancora scritturale ma che presentano elementi altri, come il colore o le figure geometriche. Questi artisti portano avanti una ricerca che prende forma all’interno dell’utilizzo di una parola contemporanea che, mentre subisce il fascino di un dettato antropologico che le appartiene, non resiste alle seduzioni e alle possibilità morfologiche offerte dalle tecnologie e dal colore. Ragion per cui nelle loro opere si evince un approccio mediterraneo alla Scrittura Visuale che, indagando gli orizzonti possibili e tenendo conto della posizione storica della Poesia Concreta e della Poesia Visiva, si sviluppa in maniera indipendente e libera dalle influenze del passato. Gli sbocchi a cui perviene, rivelano trasformazioni e diramazioni inerenti alla cultura e all’arte siciliana che la portano ad appropriarsi di una conoscenza sempre più approfondita ed esauriente in tutti gli aspetti della civiltà trinacriota. E’ questa una ricchezza dovuta dall’incontro della sua cultura con quelle differenti che si sono susseguite sul suo territorio nel corso dei secoli. Nel percorso di Carbone riscontriamo la nozione di "configurazione", che concerne "l'aspetto primario e semplice della percezione- secondo la definizione di Arnheim- che fin dal momento iniziale si manifesta come una formazione concettuale generalizzante". Per il Carbone l'occhio umano è fortemente suggestionato dalla cultura attiva. Infatti, i nostri modi di vedere e di rappresentare sono sottoposti a specifici condizionamenti socio-ambientali e, in quanto ricercatore gestaltico, pone l'accento "sull'esplorazione del mondo, sulla semplificazione, nonché sulla globalità dell'esperienza". L'arte per rigenerarsi pertanto deve seguire una sola regola: la legge del ribaltamento e del dubbio, la sola che può incidere sui meccanismi volti a creare un dialogo costruttivo con il fruitore. L'istituzione pubblica in grado di concretizzare questa tesi è, per Lui, la Biblioteca Comunale, che oltre ad adempiere alla funzione informativa, deve mostrare ciò che appartiene al proprio territorio o che è connaturato sia al suo compito che alle prospettive del suo servizio. E cioè tale da diventare la sede di incontri per inediti sistemi di aggregazione nonché da suscitare, come egli scrive, nelle popolazioni locali una più avvertita coscienza civile racchiusa tra innovazione e tradizioni. Ma, affinché le si attribuisca una connotazione differente da quella che le è propria, essa deve liberarsi dalla pesantezza dovuta "all'accumulo organizzativo", trasformandosi in un centro propulsore al servizio dei cittadini. Conseguentemente nasce il “Movimento comunità di base Busambra” il cui raggio d'azione si estende in diversi settori: dalle arti plastiche e figurative al cinema e al teatro, includendo le tradizioni popolari, l'architettura, per concretizzarsi sia in una Pinacoteca d'Arte Contemporanea che in un Museo etno-antropologico.  Pertanto, tutto ciò che Carbone realizza nel corso della sua esistenza è testimoniato dal suo pensiero sull'arte: " Essa è la manifestazione di eventi creativi che conferiscono alla vita un significato straordinariamente nobilitante”. Un iter culturale e umano che trova piena compiutezza nell’affermazione di Tapies, ossia che “la convinzione che si debbano cancellare dal campo estetico le questioni trascendentali si unisce spesso alla cospirazione indubbiamente retrograda che mira a mutilare l’arte del suo contenuto più profondamente umanista per trasformarla in una pura tecnologia delle superfici senza la minima influenza attiva sulla vita reale e sulla nostra trasformazione intima, tuttavia necessaria.” Il XX secolo è stato caratterizzato dalla nascita di molteplici forme linguistiche che sono alla base dell’arte contemporanea. La rivoluzione delle tecniche ha altresì contribuito ad approfondire la discussione intorno al concetto di arte, al suo significato in perenne mutazione e al suo valore in rapporto all'opera e alla sua legittimità. La conquista da parte dell'artista di nuove tecnologie lo hanno reso libero nell'appropriazione di ulteriori soluzioni formali nonché di un sistema fatto di “nuovi segni" che declassano e sostituiscono i vecchi modi tradizionali, come pittura e scultura. Sono questi ad aprirgli il varco sia verso una totale emancipazione dal passato, sia verso una presa di coscienza di un possibile affrancamento essendo non più ancorata a mezzi espressivi ormai desueti. Nel 1919 il drammaturgo polacco Stanislaw Witkiewicz sosteneva come l’arte fosse arrivata alla sua fine giacché riteneva che "il processo di decomposizione fosse già iniziato", indicando come una delle cause il fatto che l'umanità avesse perso “l'inquietudine metafisica". Ma ripercorrendone le varie tappe si assiste da parte dell’artista ad una proverbiale attenzione verso la propria vita interiore che in precedenza mai aveva provato ad avere. Ad aggravare ciò il contributo del distacco dell'arte dall'idea di bellezza, in primis della bellezza assoluta, cosicché, dal primo Impressionismo in poi, il richiamo dell’autore alla soggettività diventa punto fondamentale dell'Espressionismo. E’ In questo clima che si affermano le Avanguardie Artistiche, il cui termine "avanguardia" sta ad indicare il proposito degli artisti di " rompere antichi argini", al fine di scoprire orizzonti "altri". "L'opera d'arte, come scrive il Grassi, è specchio, rispecchiamento della personalità dell'artista e dell'uomo insieme...L'opera d'arte è processo, costruzione. di un'immagine dall'interno verso l'esterno, mediante un processo che è spirituale". Ed è proprio sulla "spiritualità del processo artistico", in quanto atto di creazione e quindi sulla centralità dell'uomo quale artefice di "un'arte del fare", che si dipana l'intera opera di Francesco Carbone e di quel gruppo di artisti che a lui facevano capo e la cui ricerca va sotto il nome di “Arte Antropologica”.   Parlare di sacro o di spirituale nell'arte odierna e delle metodologie attraverso cui essa si manifesta, costituisce un'importante tematica del nostro presente storico sia da un punto di vista estetico che culturale. Il fattore fondamentale nella teoria di Carbone è rappresentato dall'avere assunto l'arte come riflessione antropologica, per poi iniziare le sue indagini sull'analisi delle forme culturali dell'uomo. Il termine "cultura", qui si riferisce, come lo studioso scrive, "a quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro della società". Quindi, tutte le forme e i contenuti permettono di cogliere un momento creativo o un fenomeno dell'Arte Contemporanea come fattore prioritario per la formulazione di una poetica e di un linguaggio artistico. Sono questi ad essere tesi alla distinzione di personali connotazioni inerenti all'immaginario creativo ed operativo degli artisti di quel gruppo che attorno a lui gravitavano. Quest'ultimi, che definirei "operatori del fare", attingendo attraverso un'originale inclinazione alle fonti antropologiche e utilizzando quegli elementi che non sono solo della "cultura materiale", riescono a rielaborarli così da rendere manifesta la complessità metodologica di quell'indagine artistica ed estetica che pone in primo piano il rapporto arte-cultura. Il grande contributo che Carbone e l’Arte Antropologica hanno dato al "sacro" consiste nell'avere posto l'attenzione sulla spiritualità enunciata attraverso i modi e le vie dell'arte, da lui ritenuti "manifestazione di tutti gli aspetti della vita" e pertanto della sacralità della vita stessa in tutte le sue manifestazioni. La sua “cultura del fare” non escludeva la propensione verso la trattazione di questioni trascendentali in quanto nel “fare” riteneva presente sempre qualcosa di divino. Si tratta di quel Divino, “celato”, che è presente tanto nell’arnese realizzato dal contadino per lavorare la sua terra, quanto nell’opera d’arte dove si ritiene essere questo “manifesto”. E per confutare ciò basterebbe fare riferimento ad alcuni esponenti della corrente Informale come il Burri o il Fontana, le cui opere sono ammantate di "una visione mistica ed assoluta". In modo che, anche se le tecniche tradizionali, come pittura e scultura, hanno lasciato il posto a nuovi linguaggi, ogni opera comunque realizzata stabilisce una forma di comunicazione simbolica con il Divino. E questo sia in un racconto o in un episodio o in un singolo frammento della storia della salvezza in cui viene evidenziato un significato e un valore che nell’arte cristiana sono sempre stati manifesti. La “Parola” che nell’arte aulica ha trovato le sue corrispondenze formali e cromatiche, in quella antropologica di Carbone si incarna nella pratica del quotidiano. Infatti, nell’arte del fare lo spirito dell'artista e la fisicità dell’uomo, uniti da un legame indissolubile, risultano assolutamente protagonisti. E’ questo che li rende portatori di principi e di valori senza i quali la stessa vita intima non avrebbe motivo di esistere, né tantomeno potrebbe evolversi. Un ruolo fondamentale, nelle le teorie di Carbone, ebbe l’amico ed artista Giusto Sucato. L’opera “Uccel di bosco”, dedicata al Maestro, ne testimonia l’essenza. E, non a caso, raffigura un uccello in procinto di spiccare il volo verso Rocca Busambra. Certo, una metafora ma così era Francesco Carbone: un uccel di bosco, sempre pronto a volare per oltrepassare i confini dell’arte e dell’animo umano. Uno spirito libero quindi, che amava trastullarsi in quel luogo ameno qual era il rifugio di Alpe Cucco, in mezzo al bosco di Ficuzza, alle falde del monte Rocca Busambra. Sorto nel dopoguerra, grazie alla cooperativa " La città del sole" e ricavato dagli edifici dell'ex colonia arcivescovile della curia di Monreale. E tanto importante fu il sostegno che l’intellettuale dette non solo alla creazione di quel rifugio ma anche alla valorizzazione di quel territorio da essere stato per anni il presidente onorario. La scultura di Sucato, concetto al quale Carbone era molto legato, è stata realizzata con materiali attinti dal "luogo", quali pezzi di motozappa, vomeri e perfino un aratro. Questi etno-reperti costituirono un punto fondamentale per le ricerche antropologiche da lui teorizzate, centrate principalmente sul concetto di territorio. Quindi, l’artista misilmerese coglie intenzionalmente il vecchio reperto nella sua essenza materiale, trasformandolo in opera da inserire nel quotidiano. L’intervento sull’oggetto, inteso come “Struttura di pensiero” o “Struttura della realtà”, costituisce un’operazione volta ad esaltare il processo di creazione che si esplica nel “fare”. Una ricerca fondata su un sapere fenomenico, ossia non su criteri teorici ma sui fatti dell’arte. Partito da un’esplorazione delle esperienze più significative della storia dell’arte: Cubismo, Dadaismo, Futurismo, Espressionismo Figurativo, fino all’Astratto e all’Informale, egli perviene in seguito ad una sorta di depurazione e di scarto che lo conducono ad una sorta di identificazione con il proprio lavoro di artista. Attraversando quelle tappe egli intuisce la possibilità di rinvenire ed inserire il suo “istinto pittorico”, dove colore, materia, gesto e segno mirano ad unificare la pittura o la scultura in cui, nel concetto primario originario, si appalesa il netto rifiuto di ogni definizione. La manualità tipica artigianale conferisce valore al processo operativo sì da indurlo a superare le barriere dell'obiettivo prettamente estetico. Pertanto, credenze, superstizioni, miti e riti che prima albergavano nelle case dell’artigiano o del contadino, divengono un momento di meditazione sui valori dell’habitat tradizionale, con la conseguenza che tra gli anni “80 e gli anni “90 porte, tetti e pareti delle case di costoro diventano fattori primari dell’indagine artistica di Sucato. Superato il dato antropologico, egli estende lo sguardo ad altre culture, (africane ed orientali) dalle quali assume forme, colori e decorazioni in stretta simbiosi con la civiltà mediterranea. Tale innovazione si rende evidente nell’impiego della Scrittura Visuale prodotta tramite l’uso dei chiodi, riproponendo, in chiave artistica, caratteri simili all’idioma di quei popoli. L’opera così realizzata presenta quindi una serie di elementi formali che portano ad una rottura significativa e definitiva rispetto alle fasi storiche da lui attraversate. Da qui il dirigere la sua attenzione verso una diversa cultura, quella africana. Ciò trova conferma nel “saloncino polivalente” del rifugio dell’Alpe Cucco dove ebbe luogo una mostra personale composta da sedici pezzi di maschere afro-mediterranee. In conclusione, possiamo pertanto affermare di trovarci di fronte ad una sorta di viaggio inter-antropologico. Un immaginario viaggio compiuto nel mondo magico e sacro dell'Africa tenendo però sempre presente come questo inizi e finisca per confluire nei meandri della memoria della nostra civiltà isolana. Non possiamo non chiudere questo breve excursus su Francesco Carbone non senza alcune conclusive osservazioni. La ricerca della libertà espressiva, con il necessario ricorso all’invenzione e alla creatività, unite alla necessità intima di oltrepassare confini già conosciuti, trovano in lui attento spirito d’accoglienza e considerazione. In lui esiste la precipua volontà di trovare, superando i dettami di una tradizione ormai desueta propria dell’intuizione e dell’azione del “fare arte” i due principali capisaldi della sua ricerca artistica. Sono questi i pilastri dell’insegnamento, lungo tutta una vita, che in eredità riceviamo da questo “grande” di Godrano.

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