“L’arte magica di Nicolò D’Alessandro” di Piero Montana

Mostri di villa Palagonia
Dal buio più profondo della notte del mondo, la notte della nostra epoca scientifica e tecnologica, solo l’arte ci può salvare, perché essa ridestandoci dall’oblio di ciò che più propriamente ci appartiene, ci risveglia dal torpore di una ragione fondata ormai solo su un pensiero calcolante, che ha finito per dominare su quello meditante.
Se il pensiero calcolante mira, col misurarla, al dominio mondiale della terra, il pensiero meditante o rammemorante si rivolge invece a ciò che sfugge per fortuna ancora a questo dominio.
Questo qualcosa è lo spazio dell’arte e del suo luogo immaginario. Questo luogo è quello della fascinazione, il luogo dell’adescamento magico a cui i moderni oppongono una tenace resistenza, rinunziando all’incanto che l’arte offre loro, nel prospettarci essa un avvenire incerto, forse rischioso e pericoloso.
 Questo spazio è quello in cui il canto delle sirene potentemente si propaga seducendoci, stregandoci.
Nell’arte di Nicolò D’Alessandro la stregoneria è sempre in atto, costituendo il filo rosso da cui il suo disegno si dipana, quel filo che fu di Arianna e che ancora oggi ci porta fuori dai labirinti mentali e dai mostri in essi racchiusi.
L’immagine del labirinto ci si offre qui come emblema dell’intero lavoro dell’opera di D’Alessandro, perché è dai suoi meandri che l’artista cerca per sé e per gli uomini una via d’uscita, una via di scampo, di salvezza.
Seguendo il percorso esistenziale ed artistico di Nicolò noi riscontriamo in esso una coerenza assoluta che ci rinvia a quell’Absolum, termine col quale gli antichi per l’appunto designavano il labirinto.
L’arte di D’Alessandro nel suo intrigante ed intricato dipanarsi grafico ci rende prigionieri dell’opera, che nel suo costituirsi in realtà “immaginale”, ci indica la ricerca di una via d’uscita fuori dalla contingente povertà di questo mondo.
Rispetto ad esso l’artista non pone una via di fuga, di evasione, ma un’alternativa possibile, offerta dal contrapporre al suo limitato orizzonte tutta la magia dell’arte.
Perciò è proprio da una lamina magica degli arcani maggiori dei tarocchi, graficamente interpretati da D’Alessandro, che vogliamo partire.
Questa lamina è quella del mago, che è l’alter ego dell’artista, che opera con i suoi strumenti di magia che hanno il potere di affascinarci, di calamitare la nostra attenzione.
Questo arcano è il primo dei ventidue che costituiscono il Libro di Thoth, illustrato da D’Alessandro con notevole sensibilità riguardo ad una materia che è sempre stata la quinta essenza dell’esoterismo. 
Ed è in questa materia che l’artista dispiega quella sua abilità grafica, che qualitativamente contraddistingue il suo lavoro di instancabile di disegnatore.
 Ma pure tra queste ventidue lamine, illustrate dal nostro, vogliamo soffermarci, sia pure brevemente, su quella del Diavolo, non perché essa sia la meglio riuscita e convincente, ma perché in essa è più evidente quel ruolo di agente magico proprio dell’essere diabolico, ma che pure è proprio dello spirito creatore. Il Diavolo di natura ermafrodita è raffigurato nel disegno di D’Alessandro, con una fiaccola, che impugnata dalla sua mano destra ci illumina sulla sua natura di Doppio. Egli infatti è il Rebis composto da un duplice corpo, metà umano e metà caprino, con un volto anch’esso duplice, che sul suo lato destro appare informe, del tutto incomprensibile al nostro allo sguardo, mentre sul suo lato sinistro è suo sorriso sardonico che viene a deformare i suoi lineamenti.
 In questo disegno D’Alessandro opera quel che Jung psicologicamente avrebbe definito un processo di individuazione. In esso infatti si viene a rappresentare la non scissione del maschio e della femmina, del conscio e dell’inconscio, ricorrendo strumentalmente alla figura di una fiaccola che getta in profondità luce sulla natura razionale ed al contempo cieca, bestiale di una entità non trascendente, ma al contrario immanente nell’uomo, al cui dominio questi sembra essere sottomesso.
Dall'illustrazione dei Tarocchi, nella seconda metà degli anni '80 il nostro artista passa a raffigurare, secondo l’estro fantastico che gli è congeniale, i mostri di Villa Palagonia. Si tratta di splendide chine su cartoncino, ma in esse D’Alessandro rassoda per così dire il suo segno grafico, rendendo nella loro raffigurazione, volumetria e consistente spessore a queste figure di mostri, di certo con l’intenzione magica di arrestarne l’usura del tempo, che corrode di giorno in giorno le loro statue di tufo. Questi mostri sono rappresentati tutti nella loro enigmaticità. Che cosa infatti nella mente del Principe Gravina volevano significare? E davvero c’era in essi un significato da cogliere? Ed ancora tali aborti di natura erano davvero espressione della “pazzia” del Principe?
Ma se invece il Palagonia, al di là della follia che comunemente gli si attribuisce, rifacendosi al “De divinatione” di Cicerone e a tutta una cultura del Cinquecento, che, amante della classicità, individuava nei mostri l'incarnazione di oracoli viventi, volesse con l’erezione di queste sue statue mostruose, semplicemente annunciare calamità e sventure imminenti, sventure che poi realmente sarebbero sopravvenute nel suo tempo?
Certo D’Alessandro  nelle sue chine ha focalizzato l’attenzione sul loro aspetto enigmatico, e sta a noi, al di là delle intenzioni dell’artista, oggi proporre una loro lettura ermeneutica.
Folle o profetico e in ogni caso veggente e visionario Il nostro Principe di Palagonia con la loro realizzazione ha forse voluto eseguire un progetto assai lucido per rendere a tutti palese il suo angoscioso presentimento, quello della fine imminente del mondo, che in vero fu poi la fine solo del suo mondo, il crollo di quell’Ancien Regime, il cui fondamento teocratico la filosofia del dogma della ragione avrebbe mandato in frantumi.
 Crollo che inevitabilmente tuttavia avrebbe comportato l’apertura di un vuoto esistenziale che pure il nostro artista ancora ai giorni nostri sembra avvertire e innanzi al quale erge in particolare nei disegni dei mostri di Villa Palagonia, tutta l’imponenza e stabilità volumetrica delle loro figure quasi per raffermarle e non farle precipitare nell’abisso da quel vuoto spalancato.
Non possiamo qui soffermare la nostra attenzione sull’intera opera di Nicolò D’Alessandro, giacché finiremmo, col far questo, per scrivere un libro, che merita comunque di essere scritto, essendo assai numerose le sue opere, che per qualità grafica ed immaginazione creativa necessitano di essere criticamente investigate. Pertanto ci limiteremo a fare solo i nomi di quelle che ci sembrano più importanti, quali “Il giardino delle delizie” del 1976, “Studio per una maschera” 1993, “Il falconiere” del 2000,” Etneide” del 2001 e tutta la serie delle chine su carta dei “Don Chisciotte”, ispirate, tratte liberamente dal Doré.
Tuttavia non possiamo non parlare delle sue “Torri di Babele” e delle altre opere dedicate alla scrittura asemica e allo sviluppo che essa ha poi avuto nella la costruzione delle sue scatole magiche.
Iniziamo dunque dalle Torri, che sono un omaggio a quella confusione delle lingue, da cui miticamente il nostro artista fa derivare l’odierna scrittura asemica. La sua è di certo una lettura metafisica del linguaggio e propriamente del segno solo significante. I segni privi del loro significato deriverebbero in base ad essa, che tiene conto della relativa narrazione biblica, non da un presunto castigo divino per la scalata al cielo da parte degli uomini, ma al contrario dalla necessità artistica di svincolare il linguaggio dalle sue zavorre terrene, dal suo uso insomma prettamente pratico, che ne farebbe uno strumento di sola comunicazione intersoggettiva. Nel linguaggio asemico, come è evidente, l’intersoggettività viene del tutto abolita, ed esso diviene pertanto solo l’espressione di un’intima dimensione dell’anima e l’anima, si sa, aspira sempre a ritornare al suo luogo di origine, alla sua patria celeste.
Per questo il linguaggio asemico di D'Alessandro s’innalza in una dimensione più rarefatta, in una dimensione più alta e vicina all’Altissimo o alla sua dimora che è Il Logos, ma un Logos tuttavia ineffabile, che non ha più niente a che fare, a partire da Platone fino ad arrivare a Nietzsche, con una filosofia, fondata esclusivamente sulla strumentalità dell’ente, che in questa sua sola realtà oggettuale viene a disconoscere l’Essere, relegandolo pertanto nell’oblio.
Per questo le opere asemiche di Nicolò D’Alessandro, non sono altro che “rappresentazioni” di un “linguaggio angelico” o paragonabile solo alla lingua degli uccelli, che del cielo sperimentano in volo l’altezza e la realtà degli elementi più sottili, sottratti alla legge di gravità.
Il passaggio da una grafica "surreal-figurativa" ad una scrittura asemica costituisce dunque per D’Alessandro una svolta significativa della sua arte, di un’arte che nella sua prima fase, pur inseguendo i “luoghi” fantastici dell’utopia e dell’immaginario, manteneva tuttavia salde le sue radici per terra sia che essa fosse la terra “en trance” dei suoi Don Chisciotte sia quella magica- esoterica dei tarocchi o ancora quella dei mostri di Villa Palagonia.
Abolita la figurazione, e con essa ogni suo referente oggettivo, solo un’altra e più alta magia poteva realizzare l’arte di una personale e convincente scrittura, l’arte di una scrittura, costituita da altri segni ed altre formule di un testo impossibile da decifrare, essendo un tale testo da attribuire non tanto alla mano o alla mente dell’uomo, ma, come pure fa Borges in uno dei racconti più belli di Aleph, alla scrittura di un dio.
Si perché tale scrittura nell’opera di D’Alessandro non è altro che rivelazione dell’Ineffabile.
E non abbiamo paura di essere considerati dei mistici o dei visionari, se della sua scrittura asemica, da quanto da noi sopra detto, ne deriverebbe una concezione del tutto aliena alle teorie semiologiche oggi in voga.  
D’Alessandro è anche l’artefice di scatole magiche, vere e proprie scatole delle meraviglie. Esse sono di certo destinate a custodire i tesori in nostro possesso, ma questi saranno mai gli ori e le gemme più preziose?
Se infatti si trattasse di questi beni, di queste ricchezze in che cosa consisterebbe la loro magia?
In verità D’Alessandro sembra suggerire che altre sono le ricchezze gelosamente da custodire in esse.
Queste scatole infatti non sono che contenitori alchemici, non sono altro che athanor, e la vera materia preziosa che in questi dobbiamo riporre è la nostra intima quinta essenza, l’unica e segreta materia di ogni magia, di ogni autentico e meraviglioso potere di trasmutazione.
Enigma asemico
 
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