“L’incontenibile incapacità di declinare la pace” di Tommaso Romano

Ci sono vari modi per non estraniarsi dalla storia del proprio tempo: una è l’ignavia, la passività intellettuale ed la complicità esistenziale, l’altra è la reazione alla barbaria attraverso forme di violenza uguale e contrarie e, infine, vi è la disposizione attiva e positiva a comprendere, ad analizzare criticamente fatti e avvenimenti e ad assumere con determinazione un modo di essere e di fare che, della propria coscienza, giunga alla efficace comunicazione irradiante e, a volte, pedagogicamente redimente.
Il compito dell’arte non è solo formale ripetizione e acritica illustrazione. E’ soprattutto consapevolezza etica, che può dare anche prove e risultati di manifestazione estetica di qualità.
In questa ultima direzione, e da alcuni anni, Liana Taurini Barbato affronta la mostra villafratese, con forte tensione, due fra le moderne tragedie del nostro tempo che si autocelebra come il migliore dei mondi possibili: la guerra e l’esodo. Sicuramente l’umanità,  che ha già nel suo DNA il conflitto, l’abbandono e lo sfruttamento, come nevralgici costanti dolenti, non ha risolto, anzi ha aggravato specie con le armi, la sua incapacità di declinare la pace, la giustizia sociale, l’eguaglianza come atti risolutivi. La logica perversa sta anzitutto negli interessi e in una volontà di potenza di distruzione e quindi di morte. La famosa risposta di Freud ad Einstein sulla pulsione violenta, dovrebbe far cambiare direzione.
Certo, perché accanto una coscienza civile di minoranze determinate convivono le maggioranze assuefatte e narcotizzate.
Liana Taurini Barbato non illustra Daraya, Aleppo, l’esodo immigratorio necessitato da guerre e fame e come strumento di nuovi conflitti e inumani egoismi. Le opere dell’Artista, pregnanti di una lucidità espressiva di grande forza, sono capaci di coinvolgimento anche emotivo, con le pastose e incisive pennellate disegna un mondo di rovine, di lutti, di angosce che la guerra – tutte le guerre – ci consegnano. Si entra nella straziante controversia del dolore e del lutto, con la sofferenza che le opere della Taurini Barbato non occultano nella retorica, che è un rischio incapacitante. Non siamo noi a osservare e meditare, sono le stesse opere, la scelta cromatica esemplare, a darci la viva sensazione di una interrogazione costante, non distraente nel particolare, essendo la visione complessiva in termini di necessità impellente. Nella stessa dimensione possiamo affrontare la drammaticità delle rotte dell’emigrazione,  che sono conseguenza di una colonizzazione a fini di sfruttamento non certo nuova e quindi con le colpevoli invasioni che datano secoli. L’oblio della ragione, la disumanizzazione che l’Occidente beota e utilitarista ha attuato con scientifica violenza morale e materiale, ha prodotto un ritribalizzazione che ha portato fame e violenza e da cui - non certo per viaggi a fini di piacere o di conoscenza -  il Mediterraneo e non solo sono diventati il centro di una speranza che spesso naufraga rovinosamente nel sangue innocente di chi affoga per viltà, gli egoismi e gli interessi meschini della politica e della finanza apolide, che intravede vantaggi e occasione per nuove schiavitù mascherate da falsità solidaristiche.
Anche in queste tele la Taurini Barbato non indulge alla tentazione bozzettistica, va al cuore della controversia, assume l’onere della risposta veritativa scarna, essenziale, dura a volte in grado di compiere una palingenesi che solo l’arte può consegnarci attraverso la simbolizzazione dell’eterno contrasto fra bene e male, fra umano e disumano, fra buono propositi e pessime soluzioni attuative.
La tragedia mediterranea può anche registrare approdi di salvezza, insieme agli ottusi respingimenti violenti. A volte si risolve nell’affidare le più umili mansioni a chi cerca una dignità altra e una libertà vera, pagati però al caro prezzo della marginalizzazione umiliante e di una accoglienza e integrazione più declamata che reali. Ecco così ritratti dei nuovi proletari venuti da lontano, sfruttati e sottopagati, confinati nelle periferie a scontare una “liberazione” che rischia di ridursi a nuova sottomissione. Tutte costanti che l’emigrazione ha sempre drammaticamente scontato, Italia compresa “Non è questo che speravamo” fa risuonare come accusa all’Occidente del mercantilismo e del vizio, la Taurini Barbato, nelle sequenze delle tele sugli esiti degli sbarchi. E di è in tale contesto, altrettanto drammatico, che la sofferenza non si placa, che la dignità non si tutela, che i lavoratori in nero si moltiplicano, al pari dei cercatori disperati nei cassonetti dello scarto dell’opulenza, fino alle “Farfalle della notte” costrette a vendere il loro corpo con la prostituzione e l’umano degrado morale.
Seppure si sviluppa la solidarietà autentica, si invoca al contrario l’egoismo degli interessi che è planetario, oltre che europeo e italiano.
Come lame entrano in dialogo solenne e terribile, queste visioni compiute, insiemi realistiche e drammaticamente liriche della Taurini Barbato, che rivolge il suo pensoso sguardo, il suo dettato pittorico, anzitutto all’intelligenza e al cuore di chi potendo e dovendo fare per il prossimo, volta lo sguardo nell’indifferenza colpevole o nella truculenta avversione.
Ma l’arte è anche segno vivo di speranza e la Taurini Barbato ce l’affida con coraggio per iniziare a cambiare, innanzitutto noi stessi.
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