“I miti della storia - l’alimentazione insana del passato” di Carmelo Currò
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- Creato: 31 Ottobre 2018
- Scritto da Redazione Culturelite
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Ricordate il bel racconto di Antonio Borgese (uno tra i cinque professori universitari ad aver rifiutato la tessera del partito fascista) L’olio, il cui protagonista regala spesso a zio Gervasio, il vecchio contadino suo vicino, una bottiglia di olio d’oliva? (Nota 1: si può leggere in La Siracusana, Milano 1950, pp.41-47) Il ricco proprietario non avrebbe mai immaginato di rendere felice l’amico offrendogli un prodotto sempre sognato, poiché ogni tanto l’anziano condiva la sua minestra con poche gocce di olio di lino. Ma la domenica, quando aveva gli spaghetti, vi spremeva sopra solo il pomodoro, non potendo permettersi l’olio di oliva. L’olio di lino oggi è tornato in auge per offrire in cucina un altro tocco di eleganza alimentare da bei tempi. Ma ancora all’inizio del Novecento era un problema economico quello che proibiva al povero contadino di accedere al consumo del prodotto dell’olivo, in parte dovuto al fatto che nei secoli scorsi e in particolare dal Cinquecento fino alla metà del XVIII secolo, la piccola glaciazione, con il suo clima rigidissimo, imperversò su gran parte dell’Europa, rendendo difficile la coltivazione dell’ulivo che riprese vigore soltanto nel corso dell’Ottocento e fu incoraggiata da provvedimenti statali, come quello del Regno di Sardegna dove un decreto reale del 1806 conferiva la nobiltà a chi avesse ne incrementato la coltivazione e messo a dimora un certo numero di piante (2 - Cf. F. LODDO CANEPA, Nuove ricerche su regime giuridico della Nobiltà sarda, Cagliari 1932, p. 35).
E allora, eliminiamo un ingrediente ritenuto importantissimo di quella dieta mediterranea che oggi si crede abbia assicurato vite lunghe e sane ai nostri antenati. Ma quanti altri alimenti e modi di fare scopriamo leggendari, immaginifici come qualsiasi storia scritta dai nostri contemporanei, senza usare le parole e la documentazione degli uomini dei secoli scorsi; secondo quel che ci piacerebbe sia accaduto e non secondo la realtà.
Tutto, o quasi, è sbagliatissimo, nella storia dell’alimentazione mediterranea, dal momento che finalmente ci siamo resi conto come nell’esaminare la storia, spesso abbiamo inserito nei resoconti il pericoloso fattore delle nostre tardive o erronee convinzioni, secondo una mitologia frequentemente costruita a tavolino per pigrizia mentale, per scarse informazioni, per motivazioni politiche o per eredità scolastica. Una mitologia ancora ampiamente in costruzione, per fini oggi economici, come ha recentemente ricordato il caro Amico Rino Irace che ha rilanciato la notizia di Patrick Ricci sulla invenzione del pomodorino di Pachino, non prodotto tradizionale del territorio ma frutto impiantato dopo molte resistenze degli agricoltori solo nel 1989 (3 - Cf. https://www.facebook.com/photo.php?fbid=10217243109220370&set=a.1949323503358&type=3&theater) .
Dieta e alimentazione oggi esaltate ma mai esistite. Al solo sfogliare, invece le pagine di innumerevoli registri parrocchiali, dagli anni in cui sono stati generalmente redatti, ossia dal periodo post-tridentino, una società ben diversa si profila per le nostre conoscenze autentiche, iniziando dalla media della vita. Una vita estremamente breve, senza quei vecchi centenari con le barbe lunghe, una prodigiosa salute e una grande sapienza, di cui si nutre la nostra fantasia. Solo per Salerno e il suo hinterland, area delle mie indagini capillari per il periodo che va dalla seconda metà del Cinquecento ai primi anni del Settecento, l’età media degli abitanti si stabilizza addirittura sui 23 anni, con un’aspettativa di vita che solo raramente va altre i 40-50 anni (4 - Cf. C.CURRO’, Il sogno della dama ignota, Montoro Inferiore 2011, dove alle pp. 44 e ss. si trovano numerose tabelle sull’età della popolazione della Valle dell’Irno) e che, come ho dimostrato esaminando le registrazioni di morte nei libri delle parrocchie abitate da patrizi e professionisti, non si eleva per le classi più alte. Certo, la mancanza di igiene, le malattie infettive, la malaria lungo i rigagnoli usati per la concia delle pelli, facevano la loro parte. Ma dov’era la dieta? E dove quell’altra entità astratta che va sotto il nome di scuola medica, avanzo ormai teorico di una vasta letteratura medievale di cui abbiamo ricette e rimedi ma non risultati? (5 - Cf. C. CURRO’, Un metodo di cure e un approccio non dottrinale: le acque di Pozzuoli, in https://www.facebook.com/1436947459854075/posts/carmelo-curroun-metodo-di-cure-e-un-approccio-non-dottrinale-le-acque-di-pozzuol/1718754488340036/).
Mentre i laudatori della supposta dieta mediterranea esaltano le virtù di un’alimentazione sana, supportata da abbondanza di vegetali, olio di oliva, moderazione nell’uso della carne, devo rilevare che l’età media ha cominciato ad allungarsi solo quando quello che veniva chiamato già nel Cinquecento “popolo della foglia” (poiché la gente si cibava troppo di erbe selvatiche raccolte nelle campagne) ha potuto accedere più facilmente alla carne e al grano. Il prezzo proibitivo della carne, la necessità di mantenere il bestiame a disposizione della concia, della tosatura, della produzione di latticini, il suo quasi esclusivo possesso da parte di una ristretta classe di proprietari, faceva sì che il suo consumo fosse estremamente limitato. Pensiamo poi ai freddi cinque-seicenteschi che non consentivano un adeguato raccolto di cereali, i cui semi spesso marcivano e gelavano a causa della pioggia e della frequentissima neve; e che permettevano quasi sempre colture composte solo da orzo, fave, piselli, come dimostrano innumerevoli resoconti di decime che i contadini erano tenuti a corrispondere come pagamento delle tasse allo Stato e alla Chiesa. In estrema diminuzione anche il consumo del vino, i cui confini produttivi, un tempo comprendenti ampie zone del nord Europa, nel corso del XVI secolo si restrinsero drasticamente per i rigori climatici.
Questa dieta monotona si arricchì solo tardivamente dei prodotti importati con la scoperta delle Americhe: pomodori, patate, zucche, fagioli, peperoni, e prodotti di importanza minore ma economicamente rilevanti come il cacao e le nocciole. Nessun contadino, tuttavia, avrebbe voluto assaggiare per anni pomodori o patate, frutti di piante ritenute velenose; e persino il leggendario ragù napoletano, nella migliore delle ipotesi, era composto da pezzi di carne con erbe selvatiche, funghi o cipolle, condito in genere da strutto; se non da mollica di pane raffermo, ammorbidita e ridotta a polpetta (oggi, unendovi la salsa di pomodoro, c’è chi riesce a dare a questo preparato un autentico sapore di carne), rosolata e accompagnata dal solito contorno di erbe e cipolle. I boschi rappresentavano una fonte essenziale di cibo; non carne, spesso riservata ai padroni feudali. Ma riserva di erbe, funghi. rane, lumache, e poi castagne o piccoli uccelli (lo ricorda anche Laura Mancinelli in un passo del suo delizioso romanzo Il miracolo di santa Odilia (6 - Torino 1989); e come non farsi venire in mente la descrizione che Maria Scarfì fa in un suo libro, quando ricorda gli abitanti di Torre Faro che in primavera levavano le reti dalla spiaggia per trasferirle su canne ai margini dell’abitato e catturare gli stormi di rondini in volo, da cucinare poi in umido con l’aggiunta di aglio e origano ( 7 - Cf. M. SCARFI’ CIRONE, Il ponte di corallo, Savona 2004, p.85)?
C’era insomma di che ingegnarsi per arricchire la propria dieta e sostenere l’organismo esposto a periodiche carestie e contagi. Ma con i freddi, il lavoro di lunghe giornate, il pericolo dei lupi, non era facile e prudente addentrarsi nelle campagne. Niente olio di oliva, dunque, niente o quasi vino, carne, grano. Per la maggioranza della popolazione dell’interno niente pesce, prima di tutto a causa dei difficili trasporti, poi per la paura del mare percorso dai barbareschi che avevano resi spopolati tratti costieri lunghi, per esempio, l’intero percorso da Salerno alla Calabria.
Il mito della dieta mediterranea è un’altra favola, alla pari dei miti edificati su personaggi, gruppi, fatti, e su cui troppo spesso si parla per convinzione ma non per conoscenza.