Il latino? Ripensiamolo “futurista” - di Mario Bozzi Sentieri

Meglio tardi che mai. L’apertura del ministro dell’istruzione, Patrizio Bianchi, a favore dell’insegnamento del latino nelle scuole medie, è una “novità” da non sottovalutare: "Concordo nel riconoscere il valore formativo delle lingue classiche essenziali per comprendere il presente e per sviluppare i saperi fondamentali che conducono alla riflessione e alla più ampia conoscenza del mondo e della società moderni, allo spirito critico e al ragionamento necessari per l'emancipazione delle alunne e degli alunni, per la cittadinanza europea e per la difesa dei valori comuni” ha dichiarato il  Ministro. Dopo quarantacinque anni (risale al 1977 la scomparsa della lingua e grammatica latina dalla  scuola secondaria di primo grado)  si fa finalmente marcia indietro, almeno in linea di principio.

Nella risposta data ad alcuni senatori, che chiedevano chiarimenti sull’ipotesi del ritorno del latino a partire dalla Scuola Media, il Ministro Bianchi ha  però anche precisato  che purtroppo una reintroduzione in via ordinaria dell'insegnamento del latino per tutte le scuole "richiederebbe un intervento normativo di tipo regolamentare che vada ad incidere sull'assetto ordinamentale, organizzativo e didattico della scuola secondaria di primo grado con una rimodulazione dell'intero piano di studi e dei relativi quadri orari". Insomma rendere obbligatorio lo studio del  latino per tutte le scuole medie per ora non sembra cosa fattibile, anche se   è lo stesso Ministro a chiarire che le scuole che voglio proporre l'insegnamento lo possono già fare sfruttando appunto l'autonomia delle istituzioni scolastiche.

E’ importante – a questo punto – non abbassare la guardia, sia dal punto di vista culturale che da quello politico-normativo.  

Per anni  intorno al latino si è giocata una partita metapolitica, che individuava nella “lingua dei Padri” un’icona da abbattere, in quanto espressione tradizionale ed elemento distintivo  della “classe dirigente”. L’avere riconosciuto, da parte del Ministro,  “il valore formativo delle lingue classiche essenziali” è un segnale che va ripreso e rilanciato.

Lo studio delle lingue classiche (latino, ma anche greco) non è infatti questione che riguarda solo uno studio specialistico, una ristretta cerchia di cultori della materia, ma tocca la più vasta comprensione di un patrimonio culturale, insieme letterario, filosofico, scientifico ed antropologico. E’  una porta aperta per la conoscenza, una sorta di “battesimo profano – per dirla con Hegel – destinato a dare all’anima la prima e inalienabile inclinazione e disponibilità al gusto e alla cultura”, che riguarda certamente la formazione dei ceti dirigenti, ma non può non toccare la più vasta sensibilità collettiva.

Nel latino ci sono modelli ed impulsi spirituali che hanno segnato tutto il mondo civile. E’ quindi doveroso, da parte nostra, da parte di una visione culturale nazionale e popolare, rivendicarli con orgoglio, anche di fronte a certi tentativi di rendere predominanti modelli linguistici dialettali e provinciali o, d’altra parte, di farsi contaminare acriticamente dai neo-linguaggi della globalizzazione.

Ma è anche necessario, proprio nel momento in cui c’è una presa di consapevolezza sul ruolo e la funzione formativa del latino, ripensare modelli d’insegnamento e migliorarne la diffusione, attraverso un’adeguata opera “promozionale”.

E’ certamente un problema che tocca il corpo docente, a cui va chiesto di non limitarsi ad una pedissequa  ed un po’ stanca applicazione del metodo grammaticale-traduttivo, impegnandosi piuttosto a “vivificare” i metodi d’insegnamento, coinvolgendo gli studenti in un viaggio affascinante alla scoperta della tradizione e della cultura romana, ancora prima che all’apprendimento di regole. Ma è anche una questione ben più vasta, che deve toccare il nostro sentire collettivo, il senso di un’appartenenza in grado di parlare alla contemporaneità. Impresa difficile, ma non impossibile, sulla quale sarebbe interessante aprire una seria riflessione, ipotizzando inusuali “contaminazioni”.

Su questo versante, perfino il Padre del futurismo arriva ad offrirci qualche spunto interessante.

Invitato, nel 1931, da Ettore Romagnoli, membro dell’Accademia d’Italia e direttore della “Collezione Romana”  a proporre una nuova traduzione de La Germania  di Tacito, Filippo Tommaso Marinetti, quasi a volere giustificare il proprio impegno “passatista”, premette alla sua traduzione una sorta di decalogo, che offre –ancora oggi –  interessanti elementi di attualità.

In Tacito il Padre del futurismo  non solo trova elementi di “concisione, sintesi e intensificazione verbale”, ma rimarca come la creazione delle “parole in libertà”, l’originale creazione futurista, non provenga da ignoranza delle origini della nostra lingua, individuando nella “virile concisione Tacitiana” la sorella della lingua italiana, “contro la prolissità decorativa del verso e del periodo”. Di stretta attualità la chiosa marinettiana, impegnata a dimostrare “l’assurdità dell’insegnamento scolastico latino, basato su traduzioni scialbe, errate e su cretinissime spiegazioni di professori abbrutiti, tarli di testi e teste. Un efficace insegnamento della letteratura latina esige traduttori ispirati quanto i latini tradotti, e interpreti sensibili capaci di trasfondere la vita del genio”.

Come ha – del resto – ribadito, nei giorni scorsi,  Paola Mastrocola, convinta paladina di una Scuola “sfidante” ed autenticamente democratica (suo il libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza , uscito nel 2021, con coautore Luca Ricolfi): “Il latino è importante per imparare la nostra lingua e i meccanismi logici del pensiero. Ci obbliga a vedere la struttura della frase, come se facessimo una radiografia a quello che diciamo. E’ un’impalcatura che tiene su le strutture logiche e che aiuta sempre, qualsiasi percorso si intraprenderà, dall’idraulico al professore di filosofia al panettiere”.  

L’ipotesi di reintrodurre lo studio della lingua latina a partire dalla scuola secondaria di primo grado non venga perciò percepito come una passaggio di routine, ma come una nobile e grande sfida culturale. Per sentirci tutti più impegnati nella sua valorizzazione, magari ripensandola futuristicamente più moderna e dunque capace di parlare alla sensibilità delle nuove generazioni.

Ne va dei destini non solo della Scuola italiana e dei futuri ceti dirigenti, ma dell’intero Sistema-Paese.

 

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