"Il mito della romanità nei barbari" di Gianfranco Romagnoli

Intervento tenuto al convegno Incontrarsi coi barbari: storia, cultura, medicina organizzato in collaborazione tra il Centro Internazionale di Studi sul Mito e l’Accademia di Studi Medievali Jaufrè Rudel, Gradisca d’Isonzo, Novembre 2008.
 
 
Chi erano i barbari
   E’ noto che i Greci, con il temine onomatopeico barbaroi, designavano tutte le popolazioni non di lingua greca: tale classificazione prescindeva dal loro grado di civilizzazione, tant’è vero che in essa facevano rientrare popoli di antica civiltà come i Persiani e gli  Egiziani.
   Questa discriminazione basata sul mero criterio linguistico fu la base di una visione negativa del diverso, dello straniero, che si ritrova nella definizione trasmessa dai Greci al mondo romano: infatti, dopo la conquista della Grecia, i Romani usarono il termine barbarus per designare i popoli che circondavano il loro mondo; in altre parole, era barbaro chi, più o meno civile che fosse, non apparteneva alla sfera culturale greco-romana.
   Con l’estendersi del dominio di Roma le province di nuova conquista furono romanizzate o avviate alla romanizzazione, sicché il termine ‘barbari’ venne a designare, più specificamente, le popolazioni specialmente germaniche che minacciavano, insieme alla conquista, tale processo: popolazioni caratterizzate agli occhi dei Romani da un alto grado di inciviltà ed insuscettibilità alla civilizzazione, come le dipinge Cesare nel De bello Gallico.1
   Con lo stabilirsi a Roma della forma di governo imperiale e in particolare dopo l’estensione, con l’Editto di Caracalla del 212, della cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’Impero, diventa sempre più chiaro che i barbari sono i popoli delle antiche civiltà dell’Europa del Nord e quelli provenienti dall’Est, che minacciano le frontiere dell’Impero stesso, e in particolare il limes stabilito tra il Reno e il Danubio. Un sommario elenco di questi popoli barbari comprende Goti, Visigoti, Ostrogoti, Avari, Longobardi, Franchi, Svevi, Vandali, Unni.
   Tuttavia i barbari, ancora prima della fase delle invasioni e dei regni romano-barbarici, vennero ad assumere un ruolo di importanza sempre crescente all’ interno dello Stato romano. Da  un  lato,  infatti,  Roma   già  da   tempi   antichi    si    era   avvalsa   proficuamente   di   reparti   formati
 
1 CAES. De Bello Gall. VI, 11-28
 
interamente da barbari (auxilia), specializzati come cavalieri, arcieri ecc. In seguito, vennero incorporati nell’esercito romano interi popoli barbari in qualità di foederati per difendere le frontiere dalle invasioni di altri barbari.     In cambio dei loro servizi, o semplicemente per non scontrarsi con essi, venivano accolti in talune regioni di confine con la formula della hospitalitas, divenendo assegnatari di un terzo terre. I loro capi, divenuti generali romani, influirono sempre più pesantemente sulla politica  romana
giungendo talora, sia pure con effimera fortuna, a farsi proclamare imperatori dalle loro truppe.
   D’altro lato, l’aristocrazia terriera impiegava schiavi barbari già prigionieri di guerra nei lavori dei campi: costoro, insieme a quelli impiegati come gladiatori, costituivano una presenza sempre più numerosa in Italia, che aveva portato alla guerra servile di Spartaco.
   Sarebbe troppo lungo ed estraneo agli orizzonti di questo intervento diffondersi su questo processo che aprì indubbiamente la strada a profonde trasformazioni sfociate nella caduta dell’Impero Romano d’Occidente e nell’avvento dei regni romano-barbarici.
   Soggiungeremo soltanto che i popoli più vicini al limes, avendo maggiori contatti con i Romani, ne assorbirono in qualche misura la civiltà,2 e che a tale esito contribuirono anche i barbari, specialmente i capi, che, avendo servito nell’esercito romano, erano poi rientrati presso i popoli di provenienza importandovi i modelli culturali romani.
 
 
I regni Romano barbarici.
   Ma è con la caduta dell’Impero Romano d’Occidente e con la formazione dei regni romano-barbarici che questo processo osmotico si sviluppa e giunge al culmine.
   Oggi nessuno nega che il medioevo, convenzionalmente iniziato appunto con la caduta dell’impero, sia stata la fucina della nuova civiltà europea: si posero le basi di un processo di progressiva integrazione tra barbari e romani, più o meno lento o accentuato, favorito da due fattori: il Cristianesimo e il mito della romanità, che sopravviveva alla fine (anch’essa graduale ed incompleta) delle sue istituzioni.
   Questi due fattori finivano per integrarsi e coincidere: fu infatti la Chiesa la vera erede di Roma, che ne perpetuò il mito dell’universalità: un potere spirituale ma ben visibile e riconoscibile anche attraverso segni e simboli, come  il  fasto  delle  cerimonie  religiose  e  la  loro  aura   misteriosa,  che
 
2 All’epoca di Tacito le tribù germaniche del Reno, costrette a fermarsi ai confini dell’impero, si civilizzarono lentamente:
le capanne erano sostituite da case rudimentali che costituivano le prime proprietà private, ed anche il bestiame cominciava a far parte del patrimonio delle famiglie, fra le quali venivano ripartite in usufrutto, tenuto conto delle bestie
possedute, le terre della tribù. Cfr. Pirenne, J. 1956, vol. I, p.469.
                                                                                                                                                         
secondo l’interpretazione più o meno leggendaria che se ne tramanda, avrebbe  fermato  Attila, ormai  incontrastato vincitore  sulla via di  Roma e che sfocerà nella conversione dei barbari alla religione cristiana.
   Ma neppure può disconoscersi che i barbari, anche se ormai padroni, sentivano fortemente il mito della romanità. Scrive in proposito Giorgio Spini:
 
malgrado che da tempo l’Impero Romano sia impotente ad opporsi alle loro occupazioni violente del suo territorio, i Barbari hanno ancoro l’animo talmente pieno di una venerazione poco meno che superstiziosa della maestà antica di Roma, della sacra funzione degli imperatori come supremi protettori della Cristianità, e della grande unità statale romana, che non osano, seppure effettivamente nella pratica la infrangano, ribellarsi a lei apertamente e dichiaratamente. I Barbari, piuttosto che romperla col mondo romano, tentano di sembrarne i continuatori, così da circonfondere in qualche maniera il proprio potere di fatto con l’antica maestà del diritti e della giustizia romana, da velare con la finzione giuridica della hospitalitas la loro effettiva invasione del territorio altrui.3
 
   Quanto ciò fosse dovuto alla venerazione del mito romano e quanto invece ad abile calcolo politico teso a non suscitare reazione da parte dell’ancora vivo e forte Impero Romano d’Oriente, è questione tuttora dibattuta dagli storici, che oggi sembrano orientati piuttosto su questo secondo versante.
   Sta di fatto, tuttavia, che i comportamenti tenuti dai re barbari e le linee ispiratrici della loro azione appaiono chiaramente ispirati a questa pretesa di continuità con il mondo romano. Ciò apparirà particolarmente chiaro nel
primo re barbaro di Roma: l’erulo Odoacre.
 
Odoacre
   Odoacre, ufficiale scita dell’esercito romano, è colui che vinse Oreste, un Unno romanizzato capo di un potente esercito barbaro il quale, nominato dall’Imperatore d’Occidente Giulio Nepote magister militum, aveva deposto
lo stesso Nepote e proclamato imperatore il proprio figlio giovinetto Romolo, detto Augustolo. Invadendo il palazzo imperiale di Ravenna a capo di un esercito di Eruli, Odoacre depose Romolo Augustolo, ma gli risparmiò la vita, spedendolo in domicilio coatto in Campania, con un appannaggio di seimila solidi annui.
   E’ con tale atto che nell’anno 475, ha fine l’Impero Romano d’Occidente ed inizia convenzionalmente il medio Evo, anche se i contemporanei non ne avvertirono la portata, confondendolo con le tante invasioni e lotte per il
potere imperiale che si erano succedute in quegli anni.
 
3 SPINI G., 1953 vol. I, p. 56
                                                                                                                                                                                               
   Odoacre tuttavia, oltre a quest’atto di clemenza (o di riguardo per la maestà imperiale di Roma?) verso il deposto giovinetto, evita di proclamarsi imperatore egli stesso, ma rinvia le insegne imperiali a Costantinopoli all’Imperatore Zenone, del quale con questo gesto riconosceva l’autorità anche sulla pars occidentis dell’Impero, chiedendogli il titolo di Patrizio romano per governare l’Italia in suo nome. E come tale - pur in mancanza di un solenne riconoscimento formale - resse i territori conquistati, quasi fosse un funzionario imperiale, anche se di fatto governò in piena autonomia l’Italia (e parte del Noricum e della Raetia, nonchè la Sicilia e la Dalmatia): il suo titolo regale rimase soltanto quello di re degli Eruli, quale lo aveva proclamato il suo esercito alla presa di Ravenna.
   La moderazione di cui Odoacre diede prova nel governo, mediando tra l’altro i conflitti tra la chiesa ariana e quella cattolica, sembra ispirata a farlo
accreditare come princeps illuminato e restauratore della legalità: una condotta certamente dettata da accorte valutazioni d’ordine politico tese ad  
evitare conflitti ideologici, ma dovuta anche alla ammirazione per il mito della romanità, del quale volle farsi continuatore.
   In tale senso, conforme alla ricordata impostazione dello Spini, Valerio Massimo Manfredi, autore di documentati romanzi storici e storico egli stesso, scrive immedesimandosi nella psicologia del condottiero barbaro che aveva appena allora espugnato Ravenna ed ucciso Oreste:
 
Odoacre … dentro avvertiva forte il sentimento che lo aveva posseduto fin da giovane, quando era entrato nell’esercito imperiale: l’ammirazione per quelle città antichissime, per i fori e le basiliche, le colonne e i monumenti, le strade, i porti e gli acquedotti, le insegne e gli archi, le solenni iscrizioni di bronzo, i bagni e le terme, le case, le ville, così belle da sembrare residenze di dèi piuttosto che di uomini. L’impero era l’unico mondo in cui valesse la pena di vivere per un essere umano. 4
 
   Il tentativo di Odoacre di «far accettare il potere di un capo barbaro che fosse legittimato, al contempo, a governare i suoi in quanto rex e i Romani in forza del titolo di patricius, conferitogli dall’unico Imperatore residente a
Costantinopoli, Nuova Roma»,5 configurando così l’Italia in modo simile ad
altri regna dell’Occidente, era però destinato a non durare: infatti l’Imperatore Zenone, che non lo aveva mai pienamente accettato, aizzò contro di lui il re degli Ostrogoti Teoderico, del lignaggio degli Amali, che
sconfisse ripetutamente Odoacre e, dopo averlo indotto alla resa offrendogli di condividere con lui il potere, lo assassinò (493).
 
 
4 MANFREDI, V.M. 2007, p. 36                                                                                                                           
5 AZZARA, C. 2002, p. 38
 
 
 
Il regno di Teoderico.
   Teoderico aveva già i titoli di patricius e magister militum praesentialis, conferitigli dall’imperatore con il consolato e la cittadinanza romana a Bisanzio, presso la cui corte aveva a lungo soggiornato. Era stato inoltre proclamato rex dalle sue truppe a Ravenna nel 493, all’atto della sconfitta di Odoacre.
   Sulla stessa linea di quest’ultimo, anche Teoderico non volle rompere con la romanità, ma porsi in posizione di continuità con essa. Infatti per governare, oltre agli ostrogoti immigrati con lui, anche i Romani «… doveva tuttavia ottenere la legittimazione imperiale, per cui richiese a Costantinopoli la vestis regia…. Una simile legittimazione figurava necessaria in quanto il regno goto era pur sempre, de jure, una pars dell’Impero, unico e indivisibile, sulla quale il monarca barbaro era chiamato a governare per delega imperiale».6
   L’ottenimento nel 498 di questa investitura forniva una giustificazione
formale al governo in Italia di Teoderico, anche se non voleva in alcun modo significare una contrapposizione all’Impero: di fatto, veniva ribadita una simbolica correlazione subordinata del re barbaro all’ Imperator invictus: un rapporto, nel quadro di una gerarchia ideale, costituito al tempo stesso da dipendenza e compartecipazione a un medesimo sistema di valori e di prerogative. Dovendo governare Goti e Romani, al titolo di rex Gothorum preferì la formula romanizzante di Flavius Theodericus rex.
   Anche per Teoderico si pone il problema se sia stato spinto più dal calcolo politico che da un’ammirazione per la romanità che lo spingeva a farsene continuatore. La risposta sta nell’equilibrio tra questi due fattori.
   Abbiamo già detto che la formula adottata per giustificarne il potere comportava la condivisione di un sistema di valori, che non poteva che essere quello ereditato dalla tradizione di Roma. Cerchiamo ora un riscontro a tale condivisione nei suoi comportamenti e nella sua azione di governo.
   I comportamenti adottati da Teoderico furono quelli «tipici della sovranità
romana, carichi di un forte impatto ‘propagandistico’ sul ceto senatorio e sulle masse italiche, dall’allestimento dei giochi nel circo in occasione di un
soggiorno nell’Urbe all’ostentata cura dell’edilizia urbana e dei resti monumentali della classicità, fino all’impiego della porpora».7
   La sua profonda ammirazione per la romanità è d’altronde attestata dal fatto che chiamò presso la sua corte le più eminenti e colte personalità dell’aristocrazia senatoria romana, quali Simmaco e scrittori come Cassiodoro (che divenne suo segretario), Boezio ed Ennodio, che diedero
alla letteratura latina un ultimo periodo di gloria.
 
6 Ibid., p. 44
7 Ibid., p.46
                                                                                                                                                         
   Sul piano dell’azione politica e di governo, innalzò nuovi edifici pubblici, ristrutturò l’acquedotto di Traiano, fece dissodare o bonificare terre deserte o malariche; pur essendo ariano, mediò con grande equilibrio, su richiesta della chiesa cattolica, i conflitti tra questa e la chiesa ariana.
   Nelle ricordate attività di costruire e restaurare - intense pur se presentate con molte esagerazioni da vari autori del tempo - Teoderico si uniformava alla condotta degli imperatori tendendo ad accreditarsi come figura ideale del princeps romano e consolidava l’eredità tardo romana, rafforzando anche le fortificazioni prossime al nuovo limes alpino per qualificarsi, come i suoi imperiali predecessori, difensore della romanità.
Purtroppo sul finire del suo regno la guerra dichiarata da Giustiniano all’arianesimo fece precipitare l’equilibrio raggiunto, che avrebbe trovato la
sua sanzione nell’ Edictum Theoderici, peraltro a lui dubbiosamente attributo: ciò che ci introduce al tema delle codificazioni nei regni barbarici.
 
Le codificazioni
   Per quanto riguarda tema delle codificazioni, occorre preliminarmente tenere presente una fondamentale distinzione di base tra leges barbarorum e leges romanae barbarorum.
   Si deve indubbiamente all’influsso della civiltà giuridica romana, magna pars del mito della romanità presso i barbari e che sfocerà nella compilazione del Corpus iuris civilis giustinianeo (535), la comparsa di codificazioni nei regni barbarici.
   Alcune di queste (leges barbarorum), si limitavano a raccogliere in forma
scritta e in un latino rozzo8 le consuetudini dei popoli barbari in precedenza
privi della scrittura: tali sul finire del V secolo, la lex Visigothorum e la Lex Burgundionum, una trasformazione in diritto scritto delle rispettive consuetudini che dal contatto con l’Impero, oltre alla lingua latina, avevano
mutuato profondo influssi dello ius romanorum.
   Altre codificazioni (leges romanae barbarorum) furono volte a regolare i rapporti tra Romani nei regni romano barbarici, avvalendosi di fonti del diritto romano. Il principio che presiedeva a questo doppio binario legislativo era quello della separazione, nel senso che tra barbari si applicavano le consuetudini mentre nei rapporti tra romani continuava ad essere applicato il diritto romano dalle superstiti magistrature romane provinciali. Nei rapporti misti tra le due popolazioni, si applicava il diritto barbarico.   Si   affermava   così   un   dualismo   o   pluralismo   di   leggi e
 
 
8 Tra i popoli barbari, solo i Goti possedevano la scrittura.
9 ASTUTI G. 1973, vol XXIII pp. 851-53
consuetudini nazionali a carattere personale, anche se in determinate materie una nuova legislazione regia a carattere territoriale veniva imposta alla comune osservanza dei sudditi, barbari o romani.9
   Questa sopravvivenza del diritto romano e delle istituzioni romane
provinciali era dovuta peraltro, più che a una particolare generosità dei
barbari o alla loro venerazione per il mito della romanità, anche al fatto che
essi, nei territori conquistati, erano largamente minoritari. Le stesse
consuetudini barbare, d’altronde, erano tutte più o meno influenzate dal diritto romano: «gli Ostrogoti, federati dell’Impero dal 454, si erano cristianizzati e romanizzati al punto che le loro consuetudini erano in gran parte scomparse, di fronte al diritto romano, già quando Teodorico si stabilì a Ravenna».10
   Tra queste leggi romano-barbariche, la prima fu la Lex romana Visigothorum (506), più nota come Breviarium Alarici, composta soltanto da fonti di diritto romano in quanto volta a regolare soltanto i rapporti tra Romani, che influenzò a lungo il diritto medievale, e la Lex Romana Burgundionum o Papianus, di pochi anni posteriore. In seguito i costumi si romanizzarono così velocemente, che nel VII secolo il re visigoto Recesvindo emanò la lex Visigothorum o Liber iudiciorum che, pur abrogando espressamente l’uso del diritto romano, era in realtà un vero e proprio codice romano, dichiarato valido sia per i goti che per i romani e che faceva sopravvivere, delle antiche consuetudini barbare, soltanto il guidrigildo, ossia il pagamento di una somma alla famiglia dell’offeso che estingueva il reato.
   Tra i primi anni del VI secolo e il 527 Teoderico avrebbe emanato emanò il famoso Edictum Theoderici. Tale tradizionale tesi è oggi messa in discussione in quanto l’editto è attribuito al re visigoto di Tolosa Teodorico II, il che lo farebbe datare al 460-461, e non avrebbe pertanto avuto vigore in Italia.
   Si tratta di una raccolta di fonti romane adattate ad un ordinamento barbarico, dichiarata applicabile a tutti i popoli del regno, sia di origine germanica che romana, con l’espresso intento di favorire la fusione tra Romani e Barbari: in tale senso sia nel proemio che nell’epilogo dell’Editto viene affermato il principio della generale obbligatorietà della legge romana per tutti, romani o barbari. Tuttavia, la pratica dei diritti consuetudinari dei popoli germanici, che nei rapporti tra Goti continuava ad applicarsi, fece sì che la legge romana perdesse il carattere di legge territoriale generale e si affermasse il già ricordato dualismo. Nei processi misti al comes goto era associato un iudex romano. Laddove l’editto non  
 
 
PIRENNE J. cit., vol I, p. 464.
 
prevedeva una regolamentazione, si ritiene peraltro che venisse applicata come ius commune la legge romana.
 
I Longobardi
   Con l’arrivo dei Longobardi (568), si assiste ad una radicale eversione degli assetti della tarda romanità. Invero essi non erano venuti come foederati o per delega imperiale, ma di propria iniziativa e in contrapposizione con l’impero. Inoltre erano una delle stirpi barbare meno romanizzate, avendo avuto scarsissimi contatti con il mondo romano in epoche anteriori, pur se impiegati al soldo dell’impero contro i goti. Il superstite apparato amministrativo romano fu disperso e l’amministrazione senatoria non  partecipò affatto all’amministrazione del nuovo regno, come invece era avvenuto con i goti.
   I due gruppi, romano e longobardo, inizialmente rimasero separati socialmente, giuridicamente e anche fisicamente, ognuno nei suoi quartieri. Inizia però quasi subito un processo di romanizzazione e le differenze vanno attenuandosi, come è attestato dalla progressiva scomparsa dei tipici corredi funebri dalle tombe longobarde. Durante il regno di Agilulfo e Teodolinda (591-615) i monarchi tentano di connotare il proprio potere in termini che trascendessero la sola tradizione di stirpe, facendo ricorso pure a stilemi che appartenevano al modello ellenistico-cristiano. Oltre all’adozione del titolo di rex totius Italiae anziché di rex Langobardorum, il figlio ed erede di Agilufo, Adaloaldo, viene battezzato e incoronato nel circo di Milano con una cerimonia che per il luogo scelto, già sede di pubblici pronunciamenti e cerimonie sotto l’Impero, si caricava di un forte simbolismo imperiale.
Vengono poi ricercati consiglieri romani come l’ecclesiastico Secondo di Non, padre spirituale della cattolica Teodolinda, mentre l’iconografia longobarda si mescola a quella romana.
   La reggia di Pavia diventa poi sede fissa dei re longobardi e di uffici amministrativi di modello romano
   Con l’editto di Rotari (643) vengono codificate in latino leggi tramandate
oralmente in lingua longobarda, in un’opera che risente l’influsso del Corpus iuris civili giustinianeo, ponendo il principio del princeps fons legum, estraneo alle civiltà barbare nel quale la fonte che sanzionava il diritto consuetudinario era l’assemblea tribale. Inizialmente applicabile ai soli Longobardi, la sua validità venne estesa nel secolo VII anche ai Romani.
   Tuttavia, con il nuovo ordinamento in ducati dato all’Italia, si profilava insieme alla fine dell’alto medioevo, l’alba di una nuova era, nella quale l’unica continuatrice della romanità, al di là del distante e sempre più diverso Impero d’Oriente, sarebbe stata, nella sua universalità, la Chiesa e per essa il Pontefice di Roma, fonte di legittimazione per il Sacro Romano Impero che si sarebbe presto stabilito ad opera dei Franchi. 
 
Conclusioni
   E’ assai difficile, al di là della tradizionale prospettazione denigratoria e di
alcune attuali sopravvalutazioni, fare una bilancio obiettivo del ruolo dei barbari nella edificazione della moderna civiltà europea.
   Certamente essi, a fronte di una civiltà romana sempre più esausta e in disfacimento, furono portatori di sangue nuovo e contribuirono a quel rimescolamento di razze che è alla base dell’odierna situazione antropologica e culturale in senso lato.
   Non sembra tuttavia che essi siano stati apportatori di sostanziali innovazioni né sul piano della cultura stricto sensu (senza con ciò sottovalutare il valore, spesso artistico, dei loro prodotti di artigianato e delle loro antiche saghe tramandate oralmente), né sotto il profilo ordinamentale, almeno sino all’epoca longobarda.
   Può dirsi invece che i barbari abbiano dato il meglio di se stessi venendo a contatto con la civiltà romana, che videro come un mito e dalla quale, scartati gli aspetti caduchi, assorbirono vari elementi rielaborandoli specie sul piano artistico, mediante la fusione con le loro tradizioni, in moduli nuovi ed originali, senza il cui apporto la civiltà occidentale non sarebbe oggi quella che è.
   I barbari, insomma, nonostante le violenze iniziali, furono la soluzione della crisi dell’impero romano, e guai se non ci fosse stata. Dice in proposito il poeta greco contemporaneo Costantino Kavafis nella sua poesia Aspettando i Barbari:
 
Che aspettiamo, raccolti nella piazza?
Oggi arrivano i barbari.
Perché mai tanta inerzia nel Senato?
E perché i senatori siedono e non fan leggi?
Oggi arrivano i barbari:
Che leggi devon fare i senatori?
Quando verranno le faranno i barbari.
Perché l’imperatore s’è levato
così per tempo e sta, solenne, in trono,
alla porta maggiore, incoronato?
Oggi arrivano i barbari.
L’imperatore aspetta di ricevere
il loro capo. E anzi ha già disposto
l’offerta d’una pergamena. E là
gli ha scritto molti titoli ed epiteti.
Perché i nostri due consoli e i pretori
sono usciti stamani in toga rossa?
Perché i bracciali con tante ametiste,
gli anelli con gli splendidi smeraldi luccicanti?
Perché brandire le preziose mazze
coi bei ceselli tutti d’oro e argento?
Oggi arrivano i barbari,
e questa roba fa impressione ai barbari.
Perché i valenti oratori non vengono
a snocciolare i loro discorsi, come sempre?
Oggi arrivano i barbari:
sdegnano la retorica e le arringhe.
Perché d’un tratto questo smarrimento
ansioso? (I volti come si son fatti seri!)
Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non son più venuti.
Taluni sono giunti dai confini
a dire che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Dopotutto, quella gente era una soluzione.
 
(Traduzione di Filippo Maria Pontani)
 
 
 
BIBLIOGRAFIA
 
Altiforni, Enrico
1998 Storia Medievale Roma, Donzelli
 
Astuti, Guido
1973 Legge-Diritto intermedio in Enciclopedia del Diritto vol. XXIII, Milano,
Giuffrè
 
Azzara, Claudio
2008 L’Italia dei barbari Bologna, Il Mulino
 
Kavafis, Costantino
1961 Poesie Milano, Mondadori
 
Pirenne, Jacques
1956 Storia Universale Firenze, Sansoni
 
Spini, Giorgio
1955 Disegno storico della civiltà italiana Roma. Perrella
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