“Il sogno del Cavallo” di Sandro Giovannini
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- Creato: 26 Aprile 2018
- Scritto da Redazione Culturelite
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Che ci fosse sopra, sotto, intorno, un’idea d’inganno non affiorata alla coscienza, lo sospettavo. Quella spinta così prepotente che si era imposta in me di realizzare effettivamente il grande cavallo, al di là della congerie d’impulsi determinatasi senza un’apparente causa, era d’evidenza innegabile. La furia ideativa e creativa non s’è fermata per un anno intero anche se ho continuato a fare contemporaneamente anche altre cose. Ma ero certo, ogni mattina, con il sole o la pioggia, freddo o caldo, che era quello che volevo perseguire, in un’abitudine assurda e compiaciuta, dove, alla fine, anche la stanchezza fisica trovava un suo quotidiano, meritato, riposo.
“...Un approccio psicologico significa quel che dice il suo nome: una via psichica al mito, una connessione con il mito che procede attraverso l’anima, includendo specialmente la sua bizzarra fantasia e la sua sofferenza (psicopatologia), un disvelare ed estrarre l’anima riconoscendone importanza mitica e viceversa. Infatti è soltanto quando la psiche si riconosce come una messa in scena di mitemi che può ‘comprendere’ il mito, sicché una esegesi psicologica del mito ha inizio con l’esegesi di se stessi, con il ‘fare anima’. E, reciprocamente: soltanto quando il mito è ricondotto nell’anima, soltanto quando il mito assume importanza psicologica diviene una realtà vivente, necessaria per la vita, e cessa di essere un artificio letterario, filosofico o religioso...”. (1)
Benissimo... che io ne fossi convinto o meno, o meglio che mi sfiorasse il potente dubbio che una certificazione psicologica comunque fosse e sarà sempre una buona sequela per rintracciare l’orma di verità comode o scomode, soprattutto per evitare che l’interpretazione a posteriori confermasse l’esaltazione fissata, (2) in questo caso latamente o strettamente artistica, direi che, mano a mano che i giorni utili crescevano ed il grande cavallo prendeva forma, il mio ‘fare anima’ si rinforzasse. Ma è come se tale intuizione fosse, platonicamente, il rivolgimento della coscienza dal sensibile al soprasensibile, che però come ben sappiamo non è di ordine logico-discorsivo, ma d’ordine noetico e favorisce l’uomo nel presagire progressivamente l’anima, l’intero, l’intelletto puro, il Nous, ovvero ciò che, in consapevolezza crescente, permane invariabilmente costante dietro l’apparire ed il divenire...
La stessa con-fusione delle forme, con da una parte il “valore avido di pericolo”, al modo di Seneca (...ma è già tutto l’alto pensiero greco, da Erodoto ad Eschilo, che presenta il coraggio di esporsi al pericolo ed alla sofferenza come primaria possibilità d’una conoscenza piena della realtà esterna assieme a quella del nostro animo) e, dall’altro estremo, il calcolo più strettamente esigibile partendo dalla predisposizione al rifiuto totale del rischio che vorrebbe oggi dominare (in tutti i campi) in un certo tipo di società consumisticamente sedata e medicalizzata, potrebbe così trovare al suo centro non la separatezza selvaggia artemidea od ermetica nell’odierna versione anarcoide, o la borghese soddisfatta autoesclusione normalizzata(si) ed esclusa(si) dal tragico, o l’atarassia fasulla della governance, o l’esotico approdo nel nirvana, od una più corriva e stanca evasione dalla storia, quanto l’investigarsi socratico, spinto ai limiti del potenziale umano (persino post-umanistico), ma sempre rammemorante l’inquietante daimon. La forma allora si confonde in uno, nel suo stesso processo di formazione, che è una vocazione impregiudicata ancor prima di essere un’invocazione consapevole od una scelta apparentemente lucida. Alla fine, se ben sperimentiamo, ci rendiamo conto che sono sempre i nostri sistemi ontologici, penetrati nella (dalla) persona e catafratti nella società, qualsiasi possa attestarsi la nostra più spinta consapevolezza, a scegliere per noi.
Se poi comunque la fatalità ci inganni, se sembri divorarci tutto il tempo e lasciarci come gusci vuoti, dopo le infinite consumazioni subìte o temute, comunque gelidamente operanti, noi possiamo ancora implicarci in un totale vittorioso capovolgimento del nostro atteggiamento. Almeno del nostro. La malia del mondo olimpico: un’onesta incuranza per la necessità imposta(ci), l’attrazione della universale competizione (sperabilmente, per noi) non finalizzata, (agire senza agire). Cercando di non rimanere stregati all’interno dello stesso cerchio magico che ci siamo creati da soli, con tanta fatica ed intelligenza o d’illudersi di poterne fuoriuscire facilmente. Raggiungendo quella fine misura delle ‘affinità elettive’: “... chi vuol liberarsi dal male, sa sempre quel che vuole, chi vuole qualcosa di meglio di ciò che ha, è sempre cieco...” Riflessione utile anche per porci di fronte al baratro della responsabilità... verso il fare, che non è solo, allora, goethianamente, il fare comprensibilmente umano contro la sofferenza, ma il fare ben al di là delle stesse avversità, odi, timori, ingiustizie, falsificazioni, incomprensioni, potenza tamasica. Non solo, ovviamente, nel fare artistico. Avremmo allora incredibilmente ancora risorse (le ricostituiremmo per osmosi) per assumerci la responsabilità del destino di fronte a questa vacuità che attira come un vortice.
D’altra parte riconfortiamoci: se scopriamo definitivamente che anche quella che chiamiamo psicopatologia è un modo essenziale della vita psicologica, un luogo comune (il dicibile/indicibile/ineffabile, perché prospettivamente di tutti, per tutti, ma senza alcuna banalità) della vita... come anche la clinica ha spesso dovuto ammettere, pur grandemente turbandosi e rendendosi fondamentalmente inetta a penetrarla soprattutto rispetto a certi plessi di cosiddetta “depravazione” (...il balbettio della comunità), sappiamo però ancor di più che ogni vacuità ed ogni destino, quindi ogni errore/orrore e controscelta, sono anch’essi dentro il mito costitutivamente ed inespugnabilmente, dentro la cognizione del dolore e del piacere e quindi in noi fin dall’inizio dei tempi e vi staranno fino alla fine. La strategia di sognate negazioni, dissimulazioni, silenziamenti o sedazioni orwelliane del dolore, come l’opposta strategia dell’avviluppamento dell’intero universo nel dolore (meno nel piacere), rivelazioniste od orientaleggianti, non ci faranno meglio penetrare nelle categorie del tragico (qui e ora... non solo di un tragico filologico) ma nel grottesco. Questo lo verifichiamo costantemente e possiamo crederlo per accertamento. Qui allora si squaderna definitivamente il vero inganno della storia lineare, ma questa rivelazione non appare, appunto, per esaltazione fissata, ideologica, ma per conquista operativa.
Ovvio che non possiamo fare - allora, partendo dal posteriore - delle artificiali “costruzioni mitiche”: “...Queste non sono perciò rappresentazioni mitiche, ma costruzioni mitiche. In un certo senso viene messa in atto più verità mitica nel vicolo che nei templi siciliani di Crowley o in un laboratorio di psicodrammi californiano dove si eseguono danze paniche...”. (3)
In tal senso l’opera che nasce dalle nostre mani deve rifuggire anche - come deviante deriva - dall’eccessiva costruzione artificiale a priori. Non essere quindi programmata come artificiale, per quanto di artificiale abbia tutto, poi, resa in atto, ma come un’evenienza irresistibile - dati certi percorsi d’autoformazione. Ma non è la parodia risibile del creativo, dell’attimo fuggente, del maledettismo, dello sregolamento, della devianza. Perché fantasia e comportamento, il dentro ed il fuori, non siano (sono) antitetici ma una sorta di continuum. Certo questo non sarebbe scuola, od in parte laterale, ma vita. Un continuum ibrido, denso, per nulla sistemato, a priori. Verranno dopo le sistematizzazioni, le giustificazioni, le attente analisi. Pur utili. Ma la ragione prima è la stessa dell’impulso incontrollabile, perché del tutto panico. Ciò è l’archetipico, ma non certo per una riflessione posteriore (o meglio... la riflessione può entrarci - è persino inevitabile - per non perderne il profumo ed il sapore - sin dall’inizio... entrare in quel continuum, ma con estrema discrezione, come memoria degli istanti originarii), quanto per una pregnanza indissolubile. E questo non impedirebbe, poi, il massimo possibile d’autoriflessione.
E d’altra parte ancora non è che possiamo (un esempio fra altri) raccogliere il senso di una “negatività dialettica” alla Kierkegaard, costitutiva dell’essenza dello spirito, da una parte come opposizione alla dialettica idealistica classica che alla fine tese comunque a conciliare la gnosi con la rivelazione o dall’altra, all’opposto tavolo di lavoro, la dissezione infinita, come sotto la lente pur validamente cangiante ma sempre decostruttiva del positivismo scientifico. Ed ancora il discorso sulla necessità del recupero del tragico che viene avanzato dal migliore Pensiero di Tradizione attuale (Sessa, Damiano, etc...) si determina proprio in totale contrapposizione alla spinta che enormemente preme dal basso (soprattutto come contesto occidentalista, ovviamente) di una fuga dalla responsabilità, per effetto della... “...convinzione che i processi di recupero di ciò che preme sulla coscienza per essere redento dalla sua inerzia o dal suo disfacimento (il dolore, il passato, la memoria, la colpa, la morte) non possano ormai sensatamente intendersi se non in forma di miti, allegorie, creazioni artistiche, configurazioni del desiderio. Molte situazioni della vita delle persone (dolore, malattia, vecchiaia, morte) vengono infatti giudicate ormai irriscattabili, perché non possono più venir ritenute seriamente redimibili, né in un aldilà religioso, in una condizioni di risarcimento paradisiaco per il male sopportato, né in un futuro laico di generale soddisfazione terrena, mediante l’avvento di una società migliore, che toccherà in eredità ai nostri pronipoti. La trasformazione magico-alchemica del negativo in positivo e le promesse di ripagare le sofferenze patite nel presente per mezzo delle gioie fatte balenare nell’avvenire sono per molti diventate inattendibili. Si tende di più a sfruttare le occasioni e a vivere nel presente, sembra prevalere il desiderio di cogliere immediatamente, come doni irripetibilii, i rari momenti dell’amore, dell’amicizia, del piacere o del benessere, che altrimenti non potrebbero più tornare. E, parallelamente a sopportare nello stordimento e nella cupa rassegnazione un dolore ridiventato inspiegabile, una pena la cui sopportazione non mostra alcun elemento di nobiltà d’animo...” (4)
Dei tanti tragici (semplificando al massimo), di cui il postmoderno può tener conto, quello mitico, quello fideistico, quello romantico, quello idealistico, quello nichilistico, quello decostruttivo, etc., nelle loro partitarie innumerevoli declinazioni, noi abbiamo come riferimento primariamente quello mitico, proprio per la sua originarietà indiscutibile e perché porta in sé il minor peso possibile di una consumazione storica che ci può impedire sovente di coglierne gli elementi essenziali. Discorso non privo, comprensibilmente, di pericoli e contraddizioni, anche perché noi siamo consapevoli che il tragico come strumento, in un mondo del trapasso, è fondamentalmente diverso da quello che si imporrà, assieme a tutte le dimensioni della leggerezza e della gioia e persino dell’esaltazione, in un universo che abbia potuto effettivamente superare la crisi nihilistica.
In tal senso ora procediamo a rivolgerci originariamente alla dimensione triadica dialettica, ove riscontriamo, comparativamente, ogni tipologia archetipica. Rivelante, in quanto fondante, ogni altro tipo di ricomprensione rivolta all’origine.
Riflettiamo, quindi, della dialettica, la dimensione ontologica. Allora sappiamo bene che oltre alla trinità assiso-babilonese, la dimensione originaria ne declinava ben altre. C’erano quelle induiste, buddiste, greche, etrusche, romane, galliche, iraniche... Ancora Adamo di Brema, diceva che nell’antico tempio di Uppsala, in Svezia, nel XIII secolo, venivano persistentemente venerate le statue di tre divinità: la più potente, Thor, aveva il trono al centro, ed invece, ai lati, Odino (Wotan) e Fery (Freyr). Nel culto di Mitra, vi è una triade formata da Ormuzd, Anahita, Mithra. Nelle tradizioni dell’estremo oriente, fin dai Veda a noi noti, ricorre sempre il tre. Brahma, Visnù, Shiva. Dalla metafisica aria, per la manifestazione del sacro. Tutto sembra, dal centrale al laterale, dall’ordine alla devianza, dall’equilibrio alla sproporzione, dal femminile al maschile, dall’attrazione alla repulsione, persino in ogni innegabile evenienza specifica, doversi rimoltiplicare all’infinito per tre, come inarrestabile processo dialettico...
E, i tre orizzonti dello scenario ontologico, corrispondono, nella dimensione antropologica, ai tre stati di coscienza dell’uomo: la veglia, il sogno ed il sonno profondo, sperimentando che ognuno di tali stadi fondamentali, preso a sé, ha potenti attributi sugli altri, ma, che, nel terzo stadio, mirabilmente riassuntivo dei due (...perché della “…stessa sostanza del Padre”), si determina una complessione che “....riposa nello spazio che è interno al cuore”... apprendre par coeur... e...“...ci fa muovere a piacimento nel nostro regno” (6) e ciò, almeno in apparenza, del tutto autonomamente oltre ché spontaneamente. E, comunque, in ricerca tramite tante vie, qui al mezzogiorno, nella piena luce senza ombra (perché poi dobbiamo riconoscere che è la fase di veglia trasfigurata, che sperimenta e che invera le altre... ed è dalla veglia comunque che moriamo, ovvero interrompiamo la nostra venuta al mondo...), il tempo si potrebbe arrestare, come lo spazio indefinirsi, nel fornirci l’esempio concreto del centro, quell’unico (moltiplicabile) centro nostro e solo... un continuum (dei tre stati) rivelatosi efficace. La stessa teoria del piacere e del dolore, l’infinita diatriba sul chi abbia più consistenza ontologica o preminenza gerarchica, fondante linee spirituali, religiose, filosofiche, (ed ora anche scientifiche… basterebbe approfondire solo un poco la ricerca neurobiologica sugli arti fastasma e sulla predeterminazione del sistema nervoso centrale…), qui si potrebbe spegnere, nel continuum, nel centro realizzato, almeno in parte ed in divenire.
Il sogno del cavallo, allora, s’era insediato giustamente nel secondo stato di coscienza, come in una sua dimensione centrale ed in fondo inespugnabile, ma baluginava dal profondo l’archetipo insondabile e riportava sempre poi, e ci riporta ancora ora, nella veglia, al rifrangersi infinito nello specchio che noi ricreiamo ad arte. Comunque in quell’intelligenza del rischio, di scoprire parti presentite (e forse, in parte almeno, sperimentate) e di metterle in un duro gioco senza eccessiva paura o timore del secolo. Poi in quella veglia quotidiana, che ci fa estraneo il cavallo per la sua diversità radicale ed assieme orma indelebile e muta della memoria ancestrale... quindi contemporaneo. Col suo essere innegabilmente rozzo e raffinato assieme, qualcosa del noi più reagente, forse persino discentrato, ma vitale...
Cosa importa se sia stato solo l’enosichthon, (7) lo scuotitore di terra, la parafrasi di un terremoto che esclude la conquista, forse a ricordare un rivolgimento epocale od una disgrazia somma, una decadenza innegabile nei secoli od una specifica guerra spietata, oppure quell’yppos, (8) quella concava nave dei doni e delle primizie dedicate agli dei della terra e del mare per impetrarne accoglimento o dipartita... o tutte e due? Non lo sapremo mai e tutto sommato poco importa farne un’esegesi che soddisfi la necessità, pur comprensibile, delle corrispondenze esterne.
Osserviamo invece come il sogno del cavallo si sia solidificato e poi catafratto in una storia ben più ampia del solo inganno, del solo espediente, della sola realtà della follia... Noi siamo andati dalla mitica distruzione per fuoco di Troia, tramite il cavallo, dentro il cavallo, sulle statue sopra il cavallo, anche negli specchi che riflettono i nostri dubbi e le nostre certezze e la nostra stessa ventura di uomini consumati dalla civiltà terminale, fino alla scaturigine dell’idea, fino a quel concretissimo SPQR, (9) nato dal fuoco, che brucerà per sempre, nello stesso fuoco della disperazione, del sacrificio, della rinascita.
Note:
1) James Hillman, Saggio su Pan, Adelphi, 1977, pag. 29.
2) Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata: esaltazione fissata, stramberia, manierismo, Bompiani.
3) J. Hillman, cit., pag. 89.
4) Remo Bodei, Il senso della sofferenza, in: “Piacere e dolore”, CUEN, 1999, pag. 44.
5) Ginette Paris, La grazia pagana. Artemide, Hestia, Mnemosine, Moretti e Vitali, 2002.
6) Bṛhad-āraṇyaka-upaniṣad, II, I, 17.
7) “...Il racconto tradizionale della fine di Troia è, in realtà, talmente debole che secondo il solito Dione di Prusa (Orazione, XI,118) la guerra si sarebbe conclusa con un accordo che lasciava la città in mano ai Troiani, e dunque con un sostanziale fallimento della spedizione (da notare che, dagli scavi condotti nel sito di Troia, non risulta che vi sia mai stato un insediamento acheo nella città). Interessante l’ipotesi, già avanzata da F. Schachermeyr (Poseidon, Bern 1950, 194), e recentemente riproposta da E. Cline (Poseidon’s Horses: Plate Tectonics and Earthquake Storms in the ‘Late Bronze Age Aegean and Eastern Mediterranean’, “Journal of Archaeological Science” 27 [2002] 43-63, nonché, con specifico riferimento a Troia, Troy as a ‘Contested Periphery’: Archaeological Perspectives on Cross-Cultural and Cross-Disciplinary Interactions Concerning Bronze Age Anatolia, in “Hittites, Greeks and Their Neighbors in Ancient Anatolia: An International Conference on Cross-Cultural Interaction”, Atlanta, 17-19 September 2004), secondo cui il cavallo di Troia sarebbe da considerarsi come metafora di un terremoto, essendo il cavallo animale sacro a Poseidone, «scuotitore della terra» (Enosichthon)...” Da: Eleonora Cavallini, a Proposito di Troy, Quaderni di Scienza della Conservazione, pag. 301-333, nota 50, pag. 328.
8) Secondo la recente teoria dell’archeologo navale Francesco Tiboni...
9) Iliade, XX, 208..., “La profezia di Enea”, Heliopolis Edizioni, collana Tabulae, varie edizioni.