Pubblichiamo l'intervento di Michele Gelardi in occasione della consegna del premio "“Monsignor Giuseppe Petralia, vescovo e poeta” svoltosi sabato 22 luglio a Bisacquino (PA)

Mi avete dato l’onore e il privilegio di prendere la parola in un consesso così prestigioso, insieme ecclesiale e laico, che fa rivivere la memoria di un Vostro illustre concittadino, mons. Giuseppe Petralia, uomo di vasta cultura e profonda dottrina, guida spirituale e maestro di vita.  Ringrazio in particolare il Presidente del premio, prof. Tommaso Romano, il segretario del premio, prof. Antonino Sala, il sindaco di Bisacquino, prof. Tommaso Di Giorgio, le Autorità ecclesiali e politiche; ringrazio tutti Voi dell’attenzione che mi dedicate e della Vostra pazienza, della quale cercherò di non abusare.

Vorrei partire dal titolo stesso del nostro convegno.

1 - Perché la libertà è un valore fondamentale e perenne?

La libertà dell’individuo è la risorsa sociale più grande. Potrebbe sembrare un paradosso o un ossimoro; ma non è così. Non è corretto contrapporre, sia da un punto di vista meramente logico, sia da un punto di vista storico-antropologico, la libertà individuale ai valori sociali; correlativamente, non è corretto ritenere egoistica la difesa dell’individuo e ammantare di socialità soltanto ciò che attiene alla sfera pubblica.  Laddove si ritiene superiore – sempre, comunque e aprioristicamente  - la res publica rispetto alla res privata si commette un grave errore concettuale, con pesantissime ricadute sul benessere della società; in quel momento ha inizio la legittimazione del potere costituto, in nome dell’interesse pubblico per definizione superiore.  Da questa presunta superiorità assiologica della sfera pubblica, rispetto alla sfera privata, nasce l’autoritarismo che spesso sfocia in dispotismo irrefrenabile.

In questa sede non affrontiamo questioni politiche, ma ragioniamo secondo la logica astratta dei paradigmi mentali.   Per renderci conto fino in fondo dell’errore logico insito nella contrapposizione fuorviante fra diritto individuale e bene sociale, dobbiamo intendere compiutamente il senso della parola e del concetto.  La libertà non è una qualità dell’individuo.  È una relazione dell’individuo coi suoi simili.  È una relazione sociale.  Il naufrago che vive da solo nell’isola deserta non ha alcun diritto di libertà; egli non può essere considerato libero; è semplicemente solo.  Il diritto descrive la condizione dell’uomo nei confronti dei consociati. Orbene, proprio perché manca nell’isola qualunque relazione sociale, tale naufrago immaginario non ha il diritto di proprietà sull’isola, non potendo esercitare lo jus excludendi (contenuto essenziale del diritto di proprietà) nei confronti di alcuno.  Egli non subisce la costrizione da parte di alcuno, ma non può esercitare alcuna pretesa legittima nei confronti di alcuno.  Cosicché non ha alcun diritto. Insomma egli non gode di alcun diritto di proprietà, né di un diritto di libertà. 

Fatta questa premessa, ci rendiamo conto che la libertà è una relazione sociale, che designa la condizione di ciascuno nei confronti di tutti.  È un diritto di tutti e di ciascuno.  È di tutti e per tutti.  Non appartiene in maniera discriminata a una categoria piuttosto che un’altra.  Appartiene a tutti.  Per tale ragione è sociale per eccellenza, pur riguardando la persona individuale.  È forse il bene pubblico più grande, pur appartenendo alla singola persona.  Al contempo è una risorsa dell’intera società, perché il benessere di tutti e lo sviluppo economico e sociale nascono dall’inventiva e dall’iniziativa libera, dal libero scambio di beni e servizi, dalla libera circolazione delle idee e delle acquisizioni scientifiche e tecnologiche.  Senza questa libera circolazione delle idee e delle applicazioni tecniche; senza la divisione del lavoro guidata dal libero discernimento di ciascuno; la società non può prosperare.  

2 – Questa condizione di libertà della persona umana è un diritto originario e naturale, oppure è acquisito per concessione dello Stato?

Nel rispondere a questa domanda si scontrano due scuole di pensiero: il giusnaturalismo e il positivismo. Noi asseriamo la priorità logica, ontologica e cronologica dell’uomo rispetto all’organizzazione politica chiamata Stato.  L’uomo preesiste all’impalcatura organizzativa del corpo sociale; dunque preesiste a qualunque struttura giuridica; fin dalla sua nascita ha un corredo genetico di doni naturali, fra cui il libero arbitrio, ossia la sua libertà.  Nella nostra visione della creazione e del creato, vediamo un Dio che dà vita all’uomo e gli conferisce intelletto e volontà; Dio non infonde vita allo Stato, che è un’opera dell’uomo.  Tale preesistenza dell’uomo come persona e come aggregato sociale (formato da uomini) rispetto alla forma giuridica, peraltro moderna, dell’organizzazione dei poteri chiamata Stato è significata dalla massima latina ubi societas ibi jus (non ubi jus ibi societas).  Il che significa: la società dà vita alle relazioni di diritto, non è il diritto che forma l’aggregato sociale.  Ebbene la scuola di pensiero del positivismo giuridico distorce questo rapporto di priorità, perché pospone l’aggregato sociale naturale alla sua espressione giuridica, che è lo Stato; in questa logica positivistica, non viene prima la societas, bensì lo jus

Ciò significa che i diritti di libertà della persona, nell’accezione positivistica, sussistono solo per il fatto che lo Stato li concede.  Ma se concede, può anche revocare la concessione; o scegliere fin dall’inizio di non concedere, poiché in ogni concessione si annida la discrezionalità.  La dottrina positivistica, dunque, fornisce la legittimazione ideale ad ogni autoritarismo di Stato e alla concezione idolatrica dello Stato (Statolatria).  Nella nostra concezione invece lo Stato non concede, ma semplicemente riconosce quella condizione di libertà, che appartiene all’uomo per diritto naturale. Ovviamente non sottovalutiamo questo atto di riconoscimento, per i suoi importanti riflessi sulla vita di ognuno di noi, ma non lo consideriamo un atto con efficacia costitutiva, ossia un atto di deliberazione che fa nascere la nostra libertà. 

La differenza concettuale tra atto di riconoscimento e atto costitutivo si apprezza meglio, ponendo a raffronto la libera società naturale degli uomini con una forma organizzativa più ristretta; per esempio un club o una società per azioni.  Solo un atto costitutivo notarile fa nascere la società per azioni, la quale vive e muore per deliberazione umana; si costituisce per volontà dei soci; vive attraverso gli atti di volontà dei suoi organi e muore parimenti per un apposito atto di scioglimento.  Ben diverso è il consorzio umano generale che non si costituisce innanzi al notaio ed è composto da tutti gli uomini che nascono su questa terra, non per deliberazione autoritativa; essi vengono al mondo, aprono i loro occhi sulle meraviglie del creato, senza chiedere il permesso all’autorità politica. La Costituzione, posta al vertice dell’ordinamento giuridico, storicamente è un documento volto a regolare e in qualche modo limitare i poteri dell’Autorità pubblica.  Il potere del Re non nacque dalla Magna Charta Libertatum; al contrario fu ristretto e regolato dal documento storico, da cui hanno tratto origine le moderne Costituzioni.  Anche la nostra Costituzione repubblicana non fonda, ma regola il potere costituito; e s’intende già costituito in precedenza.  Alla stessa maniera non fonda, ma riconosce i diritti di libertà naturali della persona.  Se così non fosse, ci dovremmo chiedere quale senso abbia la Carta ONU dei diritti fondamentali e naturali della persona; valida quand’anche il regime dispotico non li riconosca.

Ebbene, se siamo giunti a questo punto della nostra civiltà, nel quale possiamo dire che i nostri diritti di libertà sono riconosciuti e garantiti da tutte le Costituzioni dei paesi occidentali, dobbiamo chiederci

3 – Quale contributo ha dato storicamente il cristianesimo alla libertà dell’uomo?

La prima risposta va cercata nel fatto che la religione precristiana aveva in linea di massima un ruolo ancillare rispetto al potere costituito; il monarca era sacro, perché il suo potere gli veniva direttamente da Dio o dagli dei.  La religione legittimava il potere; e se il potere era dispotico, la religione non aveva alcuna carica liberatrice.  Al contrario, la religione cristiana si è contrapposta al potere secolare; lo ha ridimensionato, perché ci ha reso tutti uguali innanzi a Dio.  Il cristianesimo ha liberato l’uomo dalla paura di Dio e degli dei.  Nella religione cristiana, Dio è il nostro padre misericordioso, che ci dà il grande dono della libertà.  In ogni uomo c’è l’immagine di Dio, per questa ragione egli è libero. 

Inoltre la religione cristiana ha liberato l’uomo dall’invidia degli dei, significata dal mito di Icaro. Un grande sociologo, Helmut Schoeck, ravvisa nel mito di Icaro la rappresentazione e la sacralizzazione dell’invidia sociale. Icaro ha troppa iniziativa; osa troppo; non deve innalzarsi sopra gli altri; viene punito per la sua hybris, perché gli dei hanno invidia delle sue doti.  Al contrario l’iniziativa personale non incontra l’invidia divina nel contesto cristiano, proprio perché Dio ci lascia liberi di intraprendere la nostra strada e cercare la nostra realizzazione personale e professionale.  La parabola evangelica dei talenti ci dice che dobbiamo valorizzare le nostre qualità e innalzarle quanto più possiamo.  L’esatto opposto dell’immobilismo e della rinuncia che gli dei greco-romani pretendevano da Icaro.     

Il cristianesimo ha introdotto nella storia dell’umanità la distinzione tra il potere temporale e quello secolare. Ciò che appartiene a Dio è ben diverso da ciò che appartiene a Cesare.  È venuta meno col cristianesimo ogni legittimazione del potere oppressivo e dispotico, perché il Regno di Dio si è distaccato dal secolo; perché gli “ultimi” sono stati innalzato allo stesso rango dei “primi”.

Al contempo l’uomo e la donna sono divenuti uguali in dignità, innanzi agli occhi di Dio. 

Inoltre il cristianesimo ci ha insegnato la tolleranza nei confronti di tutte le altre religioni e dottrine filosofico-politiche.  Una delle più significative espressioni di questo spirito di tolleranza è la netta distinzione, da sempre professata dalla Chiesa cattolica, fra “errore” ed “errante”.  Si condanna la dottrina errata, ma non l’uomo che sbaglia, il quale può sempre redimersi e, per quanto errante, è comunque beneficiario della misericordia divina.

Ma oggi che abbiamo raggiunto questo livello di civilizzazione; oggi che i pericoli per la nostra libertà non vengono più dall’alleanza del potere temporale con quello spirituale; oggi che lo Stato moderno è diventato pienamente laico; oggi che la donna e l’uomo sono equiparati di fronte alla legge; oggi che non sentiamo più l’invidia oppressiva degli Dei; ci dobbiamo porre una domanda:

4 – Si è esaurito il compito storico del cristianesimo? La dottrina cristiana possiede una forza liberatrice ancora attuale?

Vorrei rispondere con la celebre frase di Antonio Martino: “il Padreterno è liberale”; e aggiungerei “però chi lo vuole sostituire non lo è affatto”. Il primo ci ha lasciato la possibilità di sbagliare, in virtù del libero arbitrio; il secondo si preoccupa tanto di noi, da dirigere i nostri passi, riducendo o eliminando del tutto la nostra possibilità di sbagliare, insita nella libertà. All’idea del Dio creatore e pantocratore si associa necessariamente l’accettazione del suo creato e delle sue creature, con le imperfezioni connaturali; al suo sostituto si associa necessariamente la ricerca della perfezione su questa terra, nella quale si suppone esaurirsi l’interezza dell’esistenza. Il perfettismo è il nemico principale della libertà, perché alla possibilità dell’errore sostituisce la necessità della scelta giusta, essendo una sola la strada che conduce al risultato voluto. Mentre il contenuto dottrinario del liberalismo si può ridurre al postulato di fondo del libero arbitrio dell’uomo, tutte le varie declinazioni dell’ideologia perfettista convergono infine sul sacrificio della libertà, in nome dell’uniformità. L’uomo per sua natura aspira all’assoluto; se il suo orizzonte non trascende la sfera terrena, è su questa terra che deve cercare il suo traguardo di perfezione; ed è l’autorità politica che deve condurre la società a quel traguardo. La conduzione ovviamente non può che essere autoritaria, perché tutti gli uomini devono collaborare a raggiungere il fine. Cosicché la supposizione di Dio difende gli uomini dagli abusi dell’autorità politica, proprio per il fatto che la perfezione viene rinviata alla dimensione ultraterrena e l’autorità politica non è legittimata a cercarla in terra. Ovviamente il ragionamento è valido, sempreché il sostituto non agisca in nome del sostituito, giacché la santa alleanza tra il potere temporale e quello spirituale limita ulteriormente gli spazi della libertà umana. In sintesi possiamo dire che quando Dio scompare, altri idoli vogliono prenderne il posto.  Si deifica lo Stato; si idolatrano le sue istituzioni; si ritiene infallibile quella pseudoscienza che non si sottopone ad alcun contraddittorio e asserisce i suoi postulati senza possibilità di confutazione; quella pseudo scienza che intende regnare perfino sulle leggi del sistema solare.  Rinunciando al Dio onnipotente, l’uomo stesso si veste di onnipotenza; ma l’uomo onnipotente, che presume di conoscere la meta della nostra convivenza su questa terra, si identifica con l’autorità politica che tutto può.  Per una via diversa, si perviene dunque allo stesso risultato: la legittimazione dell’autoritarismo politico, che comprime o nega del tutto la libertà individuale.  Oggi questa legittimazione non è più cercata nella religione subordinata al potere; è cercata nello scientismo, che non è scienza, bensì un suo surrogato pervertito. La negazione di Dio a cui corrisponde l’idolatria dello Stato riduce la persona individuale da soggetto a oggetto; ne fa un suddito, una piccola particella di un organismo complesso; l’individuo diventa l’ingranaggio di una macchina, un semplice oggetto subordinato alla dinamica dell’intero organismo. Sono dunque attualissime le parole dell’enciclica Centesimus Annus di Giovanni Paolo II, secondo cui l’errore delle dottrine politiche di indirizzo social-comunista, contrapposte alla dottrina sociale della Chiesa cattolica, è quello di “considerare il singolo uomo un semplice elemento ed una molecola dell’organismo sociale, di modo che il bene dell’individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale”.  Mons. Petralia ci ha ammoniti sui pericoli del laicismo, che non è vera laicità; dello scientismo, che non è vera scienza; del perfettismo, che si risolve in utopia, poiché ricerca un Bene assoluto e una perfezione che non appartiene a questa terra; e ci ha insegnato che solo l’accettazione delle imperfezioni umane può realmente compiacere la libertà che Dio ci ha donato.

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.