"A piccole dosi di interiorità. Note su «Dell’assenza e della meraviglia» di Mario Inglese" - di Maria Nivea Zagarella
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- Category: Scritture
- Creato: 06 Maggio 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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La singolarità della raccolta poetica Dell’assenza e della meraviglia di Mario Inglese sta nella dialettica fra dispersività e interiorità, fra nientificazione e stupore, fra assenza appunto e meraviglia, come recita il titolo. L’assedio/assalto all’io viene dal flusso eterno delle cose, dal loro mutare e perire (serpentinata tracimazione…subdola [unilaterale]normalità), e dall’umanità eticamente compromessa del mondo di oggi, intuito come una vertigine raso terra, che travolge gli individui in una pletora di impegni, fretta, egoismi, incontri-non incontri. Una globale insomma alienazione, che nei testi trova i suoi luoghi oggetti tempi, reali e simbolici, nella piazza, nelle strade accecanti, deserte o frequentate, nel giorno che divora, nelle tante frenetiche agende di lavoro, nella sequela anonima di stanze scale corridoi, nei passanti impazienti che divergono in varie direzioni, nelle chiacchiere/assenza di comunicazione (domandare per non sapere,/ rispondere per non svelare) e negli affollati similari ricevimenti, dove si piluccano cibi e parole in un grottesco minuetto di corpi che ora si avvicinano, ora si allontanano, o ancora, nel bus, altrettanto pieno di corpi (sic!) assembrati allineati attratti/astratti nei rispettivi cellulari e, con caustica ironia, negli atri odorosi/ vasti e rumorosi di aeroporti e stazioni ferroviarie dove sciamano quei zelanti viaggiatori/ del foro planetario che ancora nel 2002 trovavano i loro dieci minuti di potere e di gloria grazie ad altrettanto zelanti lustrascarpe genuflessi davanti alle loro sedie gestatorie. E non manca una sfumatura di irridente commiserazione pure verso gli odierni patiti della chirurgia estetica (con il corpo riplasmato) a caccia dell’eterna giovinezza, illusi di scampare al “tempo”, grande artefice/scultore -scrive Mario Inglese- del docile materiale che ci compone, carne ossa sangue, e che ci modella fino alla morte la quale resta evento traumatico sempre: un silenzio da riempire,/ e un enigma da scoprire. Attraverso l’icasticità di un italiano formale, ma non troppo, e perciò più accattivante (che si misura anche con l’inglese, e si interroga sul ruolo storico-antropologico della lingua), e sotto un cielo generalmente grigio di pioggia o dentro una cappa di gelo o di neve, o con un sole timido fuori o già basso a pranzo all’orizzonte, affiora dai vari componimenti il vuoto attuale di ideali e di “vere” relazioni umane. Vuoto evidenziato dalla prossimità forzata nel bus, dove la distanza reale fra le persone si legge nei volti impassibili assonnati assorti; parimenti estranea resta la folla dei fedeli dentro la cattedrale di Galway verso il prete africano che chiede prima della benedizione finale:<<Vi ho annoiato? Il mio accento ha complicato l’omelia?>>; e un muro di assenza e indifferenza alzano anche i tanti conati di dialoghi già moribondi e le presunte amicizie cosiddette “eterne”, cui manca solo il coraggio di troncarne definitivamente il filo. E la presente pandemia con l’irreale quiete diurna delle strade e con il voler fare e non potere/ come morte temporanea,/ come lava raggelata, non ha fatto che aggiungere ulteriore monotonia, lentezza, solitudine a un “vivere” che l’autore percepisce come esilio, come un lento purgatoriale procedere… allineamento di gesti, atti, riti… e corso delle cose,/ umile, temibile,/ inesorabile, invincibile. Ma a questa per così dire “realtà di fuori”, dispersiva e disperdente, appunto nientificante, il poeta reagisce e oppone la cittadella ben munita della sua interiorità: Venga il giorno,/ -scrive- estorca pure i suoi pedaggi,/ non mi sorprenderà impreparato. La ricchezza interiore tiene aperti infatti i contatti con l’altra dimensione dell’uomo, che non è soltanto “corpo”, prisma di dolore preda di lusinghe volubili, ma Spirito incarnato, e quindi potenzialità sempre aperta di sintesi ideali costruttive, razionali equilibri, scelte di vita misurate. Una vita anche “piccola“ per intenderci, microstoria tutta soggettiva, e “soggettivamente” salvifica, disposta alla “meraviglia” di aurorali esperienze rivelatrici (nella notte si allenta la presa/ del mondo esterno/ e restiamo -dice Mario Inglese- a contemplare/ la nuda natura dello spirito/ nel silenzio che ci sovrasta) e allo schiudersi finalmente di un grato colloquio: a fine lettera -si legge nella poesia Aggettivi- nella formula saluti cari anziché cari saluti, l’aggettivo, l’inversione sono più di una formula. Attraversata dentro di sé per intero, metaforicamente, la “notte” della disperazione e dell’angoscia (la morte della madre) e accettato l’esistenziale calice onnipresente dell’universale fato, il poeta viene pertanto poetizzando in testi complementari a quelli già visti la sua soggettiva microstoria, le piccole dosi di nostalgiche memorie, felici immagini, improvvise rivelazioni (la notte ieratica sotto un velo palpitante di stelle, il balenare di un volto/icona, angelo di lancinante bellezza), o di anelito mai spento a un dialogo e a una socialità positivi (Quest’incontro… è un ventaglio di ipotesi…; la sezione Occhi) indipendentemente dai risultati. Acquistano così anima, senso, dignità, o registrano un accrescimento della loro naturale, preesistente, dignità, bellezza, armonia, oggetti e cose che costituiscono l‘orizzonte semplice, domestico, quotidiano di un “individualissimo” stare e restare nel mondo, filigrana di una singolarissima “storia”. Nel caso specifico di Mario Inglese, fra le tante ripetute partenze per le destinazioni del suo lavoro accademico e i vari ritorni a Palermo, emerge il miracolo/meraviglia della kentia che sotto le luci accese del soggiorno con i suoi lustri ventagli pare svegliarsi con lui prima dell’alba e accompagnarlo, come la rugiada, gocciante sulla veranda o spolverìo dorato sotto i lampioni, “voci” familiari e familiarizzate dall’io, al pari del ronzìo del frigo, del respiro del freezer, del rumore di pneumatici sull’asfalto, o altrove un autocompattatore con uomini al lavoro nel rigore antelucano, o l’ascensore risucchiato nel suo astuccio/ e la cascata delle prime/ docce quotidiane, tutte percezioni assorbite nel cerchio fermo di una intima domesticità che conferisce una valenza altra a un usuale giorno lavorativo. Anche la pioggia nel segreto dell’interiorità, conosce le sue metamorfosi: dopo una giornata frenetica, finalmente a letto con il corpo stanco, il poeta si augura che nella sera che scende piano dietro le vetrate la pioggia crei un’altra musica tra le auto in corsa nel viale: musica dolce/ovattante? smemorante? Ora la pioggia familiarizza l’abbraccio degli alberi sugli edifici bassi del campus universitario, ora lava come acqua lustrale in un novembre palermitano tronchi insetti detriti, e l’erba la riceve ebbra e la solandra in giardino risplende di un verde squillante. E si azzerano le distanze tra l’isola natia e il Pacifico se nella luce di un agosto/ uguale come una stagione mediterranea, la baia di Vancouver si sbriciola/ in scaglie di cobalto e l’io si smemora fra platani torreggianti/ e aiuole grondanti di silenzio. Anche il ricordo della madre morta evoca gesti domestici e calde occasioni d’affetto (quando lo svegliava, quando spianava con le mani la tovaglia, oppure le tazze fumanti di tè, il vapore delle pietanze confuso con il loro respiro, la pioggia/pianto sui vetri della finestra). Ma resta la sua figura, in quella plaga sospesa del sogno, in quell’altrove del canto poetico (e fede) in cui si reincontrano, soprattutto come un riferimento etico, perché è sempre quella di un tempo: fosti tutto quello/ che dovevi essere/ sino in fondo/ compiendo/ la trama esatta della tua opera/ benedetto il tuo ventre/ benedette le tue mani. Nella poesia Natale ancora (2017) l’affettuoso indugiare nonostante tutto (il traffico scomposto della città, gli incorreggibili conterranei) sui sontuosi, colorati, carretti siciliani, frammisti alle luminarie natalizie, si affianca di nuovo al ricordo della mamma giovane, di mezza età, quando nella vecchia parrocchia partecipava ai canti della novena misurata nei gesti,/ persino timida. E un certo tipo di religione e di fede, su basi laiche e intellettuali, ispira alcuni significativi componimenti che integrano la microstoria soggettiva dell’autore: il poemetto Opere di misericordia spirituale, West Point Grey, Vancouver, e i versi finali de La cattedrale di Galway. Componimenti che fanno da pendant propositivo rispetto alla dispersività e assenza valoriale di cui si diceva all’inizio, e tendono a porsi per tutti come breve viatico di tutti i giorni, pur restando il prontuario personale dell’autore, l’altra sua “piccola dose“ di interiorità. Quanto al poemetto, procede nelle sue sette parti per opposizioni. Ma, se è difficile liberarsi dalla nebbia dei dubbi (consigliare i dubbiosi), imparare a soffrire con gli altri, uscendo dall’egoistica chiusura nei dolori personali (consolare gli afflitti), sgonfiare i vanagloriosi (insegnare agli ignoranti), “illuminare” i peccatori, dato purtroppo lo sdoganamento oggi dei piccoli fasti dell’illecito (ammonire i peccatori), vivere il perdono come amicizia amore stima verso l’offensore (perdonare le offese ricevute), impedire il proliferare di amicizie interessate (sopportare pazientemente le persone moleste), pregare, che appare oggi un privilegio data la vincente secolarizzazione (pregare per i vivi e per i morti), non c’è altra strada per Mario Inglese, contro le forze centrifughe e subdole dell’egoismo, che i sette infiniti precedentemente elencati: consigliare, consolare, ammonire, perdonare, sopportare, pregare che -sottolinea il poeta- formano da sé una compiuta sintesi. Alla quale l’esperienza diretta da parte dell’autore della suggestione del bello e del bene, che salgono dal quartiere West Point Grey di Vancouver, aggiunge il sogno fiammeggiante del “bene” che trabocca nella vastità della comune mensa umana, e la cattedrale di Galway l’onda della musica dell’organo che vuole straripare oltre il tetto e i muri per le vie del mondo, tutti tasselli di una ritrovata e ritrovabile “meraviglia”, alias uno sguardo/azione nuovi nel mondo.