Amalia De Luca "Carmina Pervia" (Ed. Thule)

di Giuseppe Bagnasco

 

 

 

Si resta interdetti a guardare in copertina quella mano dal tratto aristocratico, poggiarsi  inerte sopra un soffice ripiano e basterebbe già questo per comprendere il messaggio racchiuso in questa immagine: una rappresentazione plastica da cui  trarremo spunto per passare a quella espressiva della parola. La mano è certo un simbolo. Un simbolo come lo furono per le legioni romane il vessillo della mano aperta a significare la forza militare o, fino a qualche tempo fa, nella dialettica sociale, il chiedere ad un genitore la mano della figlia intendendo con ciò il passaggio del  “potere” su questa. Ma quella in copertina ha una connotazione ben diversa. E’ la percezione di un segno inequivocabile: il segno della stanchezza , dell’abbandono. E che questa interpretazione risulta corretta trova conferma nella frase di Fernando Pessoa qui riportata e che fa da anticamera alle “stanze” poetiche del volume: “Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze”. A conforto di ciò la conferma già nella prima lirica “Un saluto virtuale” nei versi che sottolineano “la contraddizione/ dell’essere che vive/ cerando invano/il senso di una vita che si spegne”.

   Si presenta così Amalia De Luca. Senza perifrasi  o sottintesi si pone e ci pone il senso della vita destinata a spegnersi e per questo in metafora, a immaginarsi dentro una barca che senza vele viene trascinata verso l’orizzonte, verso un futuro che lei non sa e non conosce. Si sa, i poeti vanno per metafore e questo non per mancanza di coraggio nel rivelare i propri reconditi pensieri quanto perché in esse si trasmuta un sogno. Delle sessantasei poesie che compongono “Carmina pervia – Olim et nunc” (Ed. Thule, Palermo 2019) col corredo di venti frammenti, dodici Aiku e sette epitaffi, ciò che se ne trae, come afferma Pierfranco Bruni in prefazione, è la visione di una “sacerdotessa dal canto profano che nella metamorfosi del mistero, vive il sacro”. Ecco dunque profilarsi in quell’orizzonte sconosciuto la parabola del mistero, una parabola intesa non nel senso evangelico, ma nel senso balistico che segna nel suo arco tre momenti: l’inizio della vita, il mistero del suo percorso e la fine col codicillo della speranza. “Gran segreto è la vita, e nel comprende che l’ora estrema”, afferma il Manzoni nel suo “Adelchi”, un segreto che la poetessa cerca di svelare vedendo nell’ultimo tratto della parabola quella speranza quale fosse una luce in grado di dare “ certezza dell’appartenenza allo spirito dell’universo”. Certamente un approdare ad una conclusione non certamente cartesiana ma che comunque rasserena l’animo sebbene non completamente come fosse una serenità turbata, un ossimoro. Infatti in “L’oltre” la Nostra trasmuta la sua serenità turbata in una sofferta stanchezza dovuta principalmente all’indifferenza umana a cui cerca di dare riparo con la ricerca di “spiragli di cielo azzurro”. E non è l’unica sofferenza perché oltre a ciò avverte un inesauribile sdegno per “ l’insolente ignoranza, l’insaziabile cupidigia e la grossolana ipocrisia” nella società dell’uomo. E a proposito di quest’ultima ci sia consentita una emblematica digressione.

    Quasi cinquant’anni fa (era il 1972), l’uomo, alla ricerca di altri mondi, inviò nello spazio un oggetto con una targa su cui erano raffigurati una donna ed un uomo con il braccio destro alzato e la mano aperta in segno di pace. Un messaggio ipocrita e ingannevole poiché proprio in quell’anno divampava, dopo la seconda guerra dei Trent’anni ( 1915 - 1945), quella del Vietman, sanguinosissima e spietata. Ma la dissertazione più cospicua, dopo la vita e il suo mistero la De Luca la riserva all’ultimo tratto della parabola con il ritorno dell’uomo alla terra ( Polvere sei e polvere ritornerai- Genesi, 3-19). Un ultimo disperato tratto dove appunto si impernia la speranza. E la poetessa lo fa partendo da quell’OLIM, un periodo fatto di ricordi giovanili e d’amori dove, come sempre, in un delirio d’onnipotenza, la gioventù si crede immortale e capace di raggiungere, come la Nostra, quell’orizzonte dei sogni dove può “ gettare la rete” dei suoi progetti. Il tutto in contrapposizione a quel NUNC dove alberga la delusione e il dolore d’esistere e dove si fa assillante la percezione della fine del proprio tempo. Una sensazione che però viene mitigata dall’emergere di quell’attesa che, al di là di quell’oppressivo orizzonte, dia asilo a quell’ “Oltre” salvifico e un senso compiuto al cammino umano.

    Una percezione che nel cuore della poetessa, assieme alla resa, comporta anche la ricerca. Allora la domanda che qui si pone e che dà inizio alla parabola, è: Chi ci dà la vita? La De Luca non può, né poteva rispondere ad una domanda che rimanda ad un “Oltre” di cui non si conosce la genesi. E pertanto si rifugia in ciò che chiama “ Una Mano Creatrice”, una sorta di dogma che si accetta solo per fede ma non per scienza. Una Mano che dà la vita, intesa dalla stessa, quale fosse un “involontario veicolo/ destinato ad altri veicoli involontari di vita”. Un concetto, ma sarebbe meglio una congettura, che completa in “Non cercare” dove definisce la vita un “ effimero teatro/ della mia esistenza casuale sulla terra/ di cui nulla comprendo”. Un mistero quindi, quel mistero che sta al secondo punto della metaforica parabola per cui risulta inutile cercare una risposta per ciò che risulta incomprensibile. Pertanto l’unica speculazione possibile, conclude, è la “conoscenza del silenzio” attraverso la meditazione, una  ricerca che però risulta anch’essa sterile in quanto prodotta dal silenzio. Un mistero che per estensione, comprende oltre alla vita propriamente detta, quella della creazione del nostro pianeta. Per parte nostra, pur tra gli inevitabili perché, da sempre abbiamo sostenuto che la nostra Terra è un miracolo dell’Universo. Qui la vita ha preso dimora quando essa ha raggiunto il perfetto equilibrio tra le forze di gravità degli altri pianeti, dei satelliti e del sole, l’unico a reggere nel fantastico e pur reale spazio cosmico, il suo “sistema”. Non si spiegherebbe altrimenti il motivo che impedisce agli orbitanti la collisione tra di loro, non ultimo la nostra Luna che sta alla giusta distanza dalla Terra e questa alla giusta distanza dal sole così da permetterne la vita.

  E allora non resta per il detto mistero che cercare in noi stessi la risposta e la poetessa la trova in “un sorriso/…(nella) verità della parola/…(nella) appartenenza allo Spirito Universale”. O, richiamandosi alle altre creature della Natura, che chiama “speranza del divenire”, alla melodia di un grillo che “canta ancora/ alla stagione che muore/… al ritmo di una chitarra sorda/ nel vicolo buio/ alla nascente luce”. Nota di grande e vera poesia dove insiste e rimanda in metafora, all’accostamento dell’ultima stagione della vita, stretta nel vicolo buio dello scoramento, nell’attesa di una luce che dia certezza alla richiamata appartenenza allo Spirito dell’Universo. Ed è  nella sequenza “ mistero- attesa- luce” che è racchiuso il nesso di tutta la poetica di Amalia De Luca e dove la stanchezza dovuta allo scoramento e all’estenuante attesa sono evidenziati nella rappresentazione plastica della soprarichiamata mano. Un pessimismo quindi, una resa che sa di dolore e che noi  accostiamo prudentemente al pessimismo di Shopenhauer quando disegna la vita tra dolore e noia, sebbene nella De Luca non c’è la noia ma la stanchezza. Quella stanchezza che, lo riprendiamo, la porta allo scoramento quando si  immagina “abbandonata sul fondo di una barca / come zavorra gettata/ lì per caso/ aspettare senza paura/…prima del naufragare”. Quella stanchezza ben raffigurata in quella mano inerte e senza vitalità.

   A conclusione di queste note risulta oltremodo facile tracciare, semmai ce ne fosse ancora il bisogno, il profilo dell’Autrice impegnata nella ricerca di risposte esplicitate in queste liriche. In esse c’è il tracciato di una via che si snoda, parafrasando la teoria dei “terrapiattisti”, alla vana ricerca degli angoli nascosti della vita, dal momento che, come per quelli non ci sono angoli da esplorare data la sfericità della Terra, anche per la Nostra non esistono angoli da esplorare nella inesistente sfericità della vita. Infatti la vita per la poetessa non ha nulla di sferico, cioè niente che la riporti al punto di partenza dal momento che essa, secondo la nostra lettura, la ritiene come in geometria, una linea retta racchiusa tra due punti. I due punti (della parabola) che sanno di mistero in uguale misura poiché se molto si è chiesto sul mistero del dopo-orizzonte, nulla si sa sul mistero della nascita della vita che alla fine della  parabola discendente, si chiede cosa si nasconda oltre l’orizzonte. Un traguardo irraggiungibile quell’ “oltre” ma dove possono fiorire solo i sogni e nello specifico, “buttando il cuore oltre l’ostacolo”, dar vita alla poesia. Poiché la poesia nasce dal chiudere gli occhi della ragione e disegnare la realtà attraverso la lente dell’immaginazione, della fantasia, del pensiero “alato”. Ed è con questi “strumenti” che si lascia il proprio destino alla speranza, l’unica a tenere in piedi quel vaso di Pandora che racchiude tutti i mali (ma anche i beni) che compongono i tracciati della vita.

   Un percorso esistenziale quindi questo di Amalia De Luca e tanto più evidente quando afferma“.. sai solo che esisti/ non conosci il dove e il quando” (v. Molecola sperduta), oppure quando ci torna con “a noi viventi è dato in sorte/ percorrere solo un tratto/ di strada…poi…riprenderemo il cammino/ sotto sconosciute nuove spoglie”(v. XX dei Fragmenta). Né altro poteva essere, visto il sentiero percorso. Un percorso però fatto con tatto, con delicatezza, quasi a non turbare la serenità di quanti non cercano e non si interrogano. Una delicatezza frammista però ad una leggiadra malinconia con cui pone i suoi dubbi senza mortificare il credo nell’ “Assoluto”. Nella sua visione non c’è certezza, non c’è la supponenza di chi sa per certo e non ammette un contraddittorio, ma solo il dubbio. E si sa, il dubbio è la certezza che siamo, che sappiamo di vivere e per questo ci interroghiamo. E’ quel dubbio che ci distingue dagli altri animali che, giunti come noi e insieme a noi hanno solo avuto come unico scopo della vita, dato loro dalla Natura, la conservazione della specie. Ma anche in noi esiste l’istinto della conservazione della specie e che  dall’Autrice viene rimarcato nei versi ”...questo è il destino d’ogni donna/ chiamata al perpetuarsi della specie/ ad accogliere senza pena/ vita e morte/ l’essere e il non essere”. E questo del perpetuarsi-conservazione è un fenomeno naturale che si perpetua regolarmente nella stagione dell’amore (la giovinezza) quando spontaneamente si è attratti in quello che erroneamente crediamo sia irresistibile amore. Non è questo e tardivamente ce ne rendiamo conto poiché come tutti i sentimenti l’amore è mutevole e pertanto il suo fine precipuo e recondito è la conservazione della specie umana. Una conservazione che fu  propria degli istinti primordiali dei primi ominidi che da “sapiens” diventarono uomini sol quando in loro si fece luce la sofferenza del dubbio. Prerogativa e privilegio questo a cui non sfugge la poetessa. Pertanto possiamo definire la poesia di Amalia De Luca come la poesia del dubbio e dell’attesa, ma anche l’occasione per una introspezione per guardarsi dentro e attorno, soprattutto quando la parabola della vita sta per raggiungere il suo punto d’arrivo. Un traguardo per cui “Il dolore d’ esistere/ ha già obliterato/ il biglietto d’andata/ è tardi / “Rien na va plus”/ mio caro amico/ se è già cominciata/ l’ultima corsa”. Un punto d’arrivo quindi che vede “obbligato il cammino/degli uomini/ necessario il precipitare/ tra le ombre/.. nell’attesa che s’avveri/ la speranza/ siamo semi della terra/ destinati a nuovi fiori” (v. “Sine nomine”). Un motivo che si rinverdisce anche in uno dei sette epitaffi :”… ditelo a chi resta che non siamo eterni: Chi la vita per breve tempo ci consegna, poi ce la toglie per donarla ad altri”. Siamo quindi arrivati alla fine del cammino e ”nell’attesa che s’avveri la speranza”, al termine del nostro excursus da cui non ci esimiamo dal trarre le nostre conclusioni.

    Quello compiuto dalla poetessa è un percorso fatto di illusioni ma anche di speranze: “ venga il sole/ torni l’azzurro/ e tornino i gabbiani/ a volare intorno”. Speranze  che non sono solo quelle che investono il campo esistenziale ma anche quelle riservate alla Natura e nella specie, alla campagna dove ”i ruscelli han vera voce…” o allorquando “il tempo/ … si consuma/…(e) rinascono a primavera fili d’erba profumati/ e farfalle…” . E non solo. La poetessa concede al sentimento dell’amore, che non conosce età, una parte emblematica dei suoi Carmina, come in “Immagine tardiva:  “…aspetto/ ti aprirò la mia porta/ vorrei donarti/ la mia follia/ e tutto il desiderio/ dei miei vent’anni” (v.Immagine tardiva), oppure semplicemente esistenziale come in “ Carole di fiori”: “… nell’estasi dell’eternità di un istante/ la morte e la vita/si prendono per mano/ annullando ogni mediazione”. Ma a margine di tutto ciò, aleggia sommessamente nello spirito della poetessa il mondo della classicità e del mito che da sempre hanno accompagnato la sua vita di docente e di intellettuale. E a questo ci rifacciamo, quando l’Autrice in alcune liriche accenna alla riva sinistra dell’Acheronte ( v. I sentieri del tuo corpo) - che richiama la sponda sinistra del Nilo, posta a occidente dove moriva il sole, e dove per ciò, gli egizi erigevano i sepolcri ai loro re – o ai pastori di Teocrito (v. Il giardino eterno) o ai leggeri cavalieri di Pegaso (v. Sulla strada)  o alle ninfe che corteggiano i sogni (v. Ora con un sorriso), o infine al dolce canto delle sirene (v .Dal tuo battello).

   Opera complessa quindi e di grande spessore questa raccolta di Amalia De Luca. Una cantica che noi, entrati nelle sue pieghe, vorremmo chiudere a suggello, con alcuni passi della lirica “Incontrandoti”. Qui, anche tra le affermate incertezze, si leva una “nota” che alta risuona e, quale a compendio di un travaglio, si riversa, pur tra le siepi del dubbio, nell’Infinito Oceano dell’Essere: “…Forse, non so dove, questa monade/ incontrandoti Signore del’Universo/…confesserà la speranza accarezzata/ …celata in antiche pieghe della memoria/ tra frange di nuvole diradate dal vento” 

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