Antonio Sacco, "Eppure ancora i nespoli. Dissertazioni sullo haiku" (ed. Nulla Die)
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- Creato: 04 Agosto 2020
- Scritto da Redazione Culturelite
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di Lorenzo Spurio
Senza commiato –
eppure ancora i nespoli
stanno fiorendo
(Antonio Sacco)
La nuova opera letteraria del poeta, articolista e soprattutto haijin Antonio Sacco (nato a Vallo della Lucania, nel Salernitano, nel 1984, nel cuore del Parco Nazionale del Cilento), uscita da pochi giorni per le Edizioni Nulla Die di Piazza Armerina (Enna), porta come titolo Eppure ancora i nespoli. In copertina, sul fondo di un cielo chiaro che trasmette l’idea di pulizia, sospensione ma anche di tranquillità emotiva e universale, si staglia una pianta di nespole in fiore. La conformazione dell’apparato floreale, nel suo candore e voluttuosità nell’aria, ci fa immaginare con facilità, un’atmosfera dolce e speziata che non verrà mai meno nel corso della lettura del volume.
Antonio Sacco, che ha dato alle luce in precedenza un altro volume, ovvero In ogni uomo un haiku (Arduino Sacco Editore, Roma, 2015) giunge ora, con questa nuova produzione, ad affrontare l’universo della poesia orientale haiku (ma non solo) da una molteplicità di punti di vista. Si tratta senz’altro di questo approccio diversificato e prospettico nei confronti del genere haiku (ma, dovremmo dire, di una sensibilità empatica ed olistica, influenzata di certo dalla filosofia orientale) uno dei punti di forza di questo libro agile e curioso, importante e pregno di nozioni.
Nella nostra contemporaneità di haijin se ne contano a decine, al punto tale che sono nati – in ritardo, certo, rispetto all’universo anglofono ma non per questo meno importanti – anche nel nostro Paese vari “contenitori”, vale a dire di situazioni dove l’haiku viene richiesto, pubblicato, diffuso e fruito. Riviste di settore, ma soprattutto blog specifici sull’argomento o con determinate rubriche che ne consentono un oggetto di trattamento e discussione privilegiata, finanche competizioni letterarie che non possono più far finta che lo haiku non rappresenti una sfaccettatura, una componente importante della poesia contemporanea di qualsivoglia letteratura europea.
Antonio Sacco fa di più: non è solo un haijin, vale a dire un produttore di haiku, ma è anche un attento studioso del genere, delle sue forme, manifestazioni, influenze e ambienti nei quali prende piede e si sviluppa. Lo ha studiato, e continua a studiarlo, di certo per approfondire meglio la sua ricerca ma anche – ed è notevole osservarlo – per renderlo maggiormente comprensibile e fruibile anche agli altri. È di appena pochi giorni fa un suo interessante articolo[1] che, con l’adozione di una logica privativa (atta a descrivere ciò che è un haiku a partire da ciò che non fa un haiku) fornisce nozioni in maniera semplice e persuasiva, alla portata di tutti, rendendo il genere haiku da “troppo lontano” e a noi estraneo, come spesso viene percepito, a qualcosa di ordinario.
Scopriamo, infatti, leggendo gli haiku che essi non contengono quasi mai rivelazioni metafisiche né si arroccano su ardimenti linguistici e formali ma che, al contrario, sono diretti alla creazione su carta di istantanee visive[2] (vere e proprie fotografie), prevalentemente di ambienti esterni (la natura è sempre privilegiata) ma non mancano neppure componimenti che, oltre al dato visuale, dimostrano essere stati costruiti sull’esperienza sensoriale dell’olfatto (molto spesso) o del tatto (raramente). Opere con le quali l’emozione – come attesta Sacco nel volume – si coniuga a una sensazione che è primaria e istantanea nell’io poetante ma che ha la forza (o per lo meno dovrebbe) di divenire universale, dunque in qualche modo “propria” anche in chi legge lo stesso haiku.
Qui si dovrebbe aprire una parentesi ampia, in merito alle forme di lettura di un haiku, alle quali l’Autore spesso rimanda nei suoi articoli contenuti nel volume che – vale la pena dirlo subito – necessitano non solo di un clima e di un contesto di calma e meditazione, di una filosofia poco pratica e utilitaristica, semmai di una commistione di visioni e un’apertura eccezionale verso il mondo ma – soprattutto – di un’empatia (che se c’è, c’è e che se non si crea non può esser forzata né cercata in maniera rocambolesca), una partecipazione attiva e collaborativa, un senso di collaborazione e creazione collettiva (un vero interscambio) tra autore dello haijin e il suo fruitore. Ogiwara Seisensui (1884-1976) sosteneva che “Ciascun haiku è come un cerchio, di cui una metà è frutto del lavoro dello haijin, chiudere il cerchio è però compito del lettore”[3].
Molte volte, come vedremo a continuazione, un haiku può avere più di una lettura e, anzi, più ne fornisce, più ampio e diversificato si mostra lo spettro delle sue possibilità, più si potrebbe avanzare che quello haiku è “forte”, “ben costruito”, “capace” di creare quella condizione di evasione e ricerca che, al contempo, il lettore sperimenta. La lettura di un haiku e l’immersione in questa filosofia alla quale lo haiku fa riferimento o s’inserisce non provvede, però, a un fenomeno di estraniazione e di annichilimento, vale a dire di allontanamento coatto o indotto dal mondo reale, di rabdomantica estasi fuori dall’immanente, ma si rinfoca proprio nella meditazione, nell’approfondimento interiore, nell’interrogazione.
Leggere uno haiku – ancor più di ciò che avviene con una poesia – è come percorrere un sentiero. Come la vita insegna i sentieri spesso prendono divaricazioni, si coniugano ad altri sentieri, prendono strade diverse, conducono a luoghi più o meno lontani, s’intersecano, combaciano, proseguono paralleli o sviano: l’interpretazione dello haiku non è mai fornito sul percorso sicuro ed univoco di una strada asfaltata che conduce verso una meta data e certa, incontrovertibile. Piuttosto è un sentiero sbrecciato, battuto fino a un certo punto, che si confonde con la campagna salvo riapparire per brevi tratti, si nasconde e continua, progredisce in maniera tortuosa, lambendo la natura e penetrando in essa. Durante il percorso tutto può accadere e le strade possono rivelarsi meno sicure di sentieri sbiaditi che, con intraprendenza e curiosità, possono far giungere a mete inattese, ben migliori di quelle fruibili generalmente da un dato di conoscenza collettiva.
Eppure ancora i nespoli di Antonio Sacco affronta questo tema e lo fa con una perizia di linguaggio che gli è propria, capace di rendere la comprensione su terminologie, concetti e aspetti che appartengono a un mondo orientale a noi piacevoli e necessari per comprendere al meglio quella fetta del Pianeta. Ma non si tratta solo di riferirsi a un mondo orientale (in quest’età cosmopolita e liquida dove definizioni limitati non dovrebbero sussistere) ma di conoscere, invece, una filosofia diversa dalla nostra, che mostra un più ampio respiro, dove la Natura diventa compagna inscindibile per l’uomo essendo il contesto e la depositaria al contempo di tanti richiami versificatori, di ammicchi linguistici, di presenza della fauna che intervengono a descrivere un ambiente ricco e multiforme, lontano da caos, inquinamento e in concordia universale.
La prima parte del volume, il cui sottotitolo è “Dissertazioni sullo haiku”, dopo una suggestiva prefazione del poeta e haijin Matteo Contrini (nato a Montichiari nel 1988) e a una necessaria introduzione dello stesso Sacco che fornisce un po’ i parametri di sviluppo del libro, si compone di un’ampia scelta di haiku commentati. Un’operazione, questa, senz’altro curiosa e in contro-tendenza, dovremmo dire, nel panorama librario contemporaneo nella quale l’haijin ci fornisce le sue gemme più preziose, gli haiku che ha suddiviso in quattro sezioni che rappresentano le stagioni, e a continuazione un suo commento critico sugli stessi. Una sorta di analisi del testo fatta dall’autore stesso (in alcuni casi si percorrono anche più possibilità di lettura) che non va visto – e mi piace rimarcarlo – come espediente autoreferenziale ma come tentativo di argomentazione attorno allo haiku per meglio far comprendere a chi leggerà il libro non solo come si scrive uno haiku ma come dovremmo porci nel momento in cui lo leggiamo, ovvero come tentare di percorrere il periplo dei tre versi, come affrontarne i contenuti. Questa sezione, che risulta di certo utile e preparatoria all’approfondimento che segue nelle pagine successive, credo debba avere come metro di analisi proprio questa: l’haiku è un componimento polisenso e interpretabile, aperto, potenzialmente infinito nelle sue accezioni, caricabile – con onestà e parametri – di contenuti “altri”, non direttamente riscontrabili a una lettura epidermica perché interiorizzati (e da esternare), allusi, evocati, presenti in quell’aurea potente dell’haiku dove è il lettore a porsi, in questa comunicazione fluente e rigenerante tra haijin e lettore. La gran parte di questi haiku commentati sono stati, come le note in calce a piè di pagina fedelmente ricordano, pubblicati su riviste specializzate di settore, tanto italiane (“Poesia Ultracontemporanea”, che straniere (“Otata”, “Daily Haiga”, “Asahi Shimbun”, “The Mamba”, “Harusame”, “The Mainichi Shimbun”) con le quali Sacco nel corso degli anni ha collaborato.
Lo haiku si compone di tre versi di cui la ripartizione sillabica degli stessi è individuata nello schema 5-7-5. Il computo delle sillabe può avvenire in due modi diversi (libertà di scelta dello stesso haijin che, per uniformare la sua adesione a una delle due modalità “o scuole” dovrebbe in qualche maniera seguire la preferenza per l’una o l’altra) ovvero con o senza sinalefe (conteggio sillabico ortografico o metrico). La sinalefe rappresenta l’incontro di due vocali nel medesimo verso, poste una a chiusura di parola e l’altra ad apertura della parola seguente che, nel computo con sinalefe, appunto, fanno sì che esse debbano essere considerate un’unica unità.
Tra le caratteristiche formali che Sacco ben approfondisce nel saggio che appartengono allo haiku vi sono l’assoluta mancanza di un impianto rimico, la presenza del kireji, ovvero lo “stacco”, rappresenta una cesura (graficamente è data dal trattino) che ha come funzione quella di “far respirare” l’haiku dando una pausa permettendo una sospensione utile per separare le due unità visive (spesso contrastanti, altre conformi) che costituiscono lo haiku. Sacco parla del kireji anche nei termini di un momento di “sospensione del giudizio […] [e di un] effetto di suspense” (80). Lo haiku non ha titolo perché questo svelerebbe troppo sul suo contenuto o, al contrario, influenzerebbe da subito il lettore, prima di leggere lo stesso, sul tipo di interpretazione da poter dare al contenuto. I componimenti haiku, come pillole di un discorso continuo e inarrestabile, non hanno un vero inizio né una vera fine; sono aperti e circolari, si aprono con la minuscola e raramente prevedono l’uso del punto al loro intero; i segni grafici prevalentemente usati, oltre al trattino, sono la virgola e i due punti. Finanche in chiusura dello haiku mai si pone il segno interpuntivo di chiusura dal momento che il fluire delle immagini evocate nei tre versi non deve avere forma di contenimento, rimanere libera e aperta a influssi di ogni tipo. Contenutisticamente appare rilevante (elemento che può anche pregiudicare la valutazione dello stesso haiku[4]) la presenza del kigo (che si differenzia tra grande kigo e piccolo kigo) vale a dire l’elemento stagionale (questo può essere palese, vale a dire diretto, o indiretto, alluso tramite una particolare pianta e la fase di crescita, un animale, un evento metereologico, il tipo di luce, etc.) e del kikan ovvero il binomio inscindibile uomo-Natura. Insito nello haiku è il cambio d’immagini che lo haijin propone, spesso avvalendosi del kireji, tale confronto (spesso una giustapposizione vera e propria, uno scontro) è definita toriawase.
“Il semplice e il complesso nello haiku convivono e coesistono a stretto contatto” (29), scrive Sacco, vale a dire la capacità di scoprire il meraviglioso (non il fantastico, ma ciò che crea meraviglia in quanto fuori dai canoni comuni e dotato d’imprevedibilità) nell’ordinario. Il becco di un gabbiano fotografato (ed eternizzato) in un componimento haiku è qualcosa di semplice che tutti, almeno una volta nella vita abbiamo avuto modo o occasione di vedere, ma il modo in cui ce lo restituisce l’haijin in quel momento, in quel contesto, con quella data luce, in sintonia con un dato ambiente e soprattutto mediante l’uso di determinati lemmi atti a descriverlo, contestualizzarlo, renderlo “vivo”, ha (o può avere) un effetto meraviglioso (inatteso, unico)[5]. Tali considerazioni ben si coniugano alla considerazione dello haiku come pensiero inespresso, come contenuto in qualche modo invalicabile, dal momento che esso ha i caratteri di un “vero e proprio koan ovvero un enigma[6], un problema senza soluzione” (38). D’altro canto, in questa essenzialità formale e in questa concisione versificatoria, l’haiku si dimostra capace – quando ben scritto, ma anche quando ben recepito – di fornire immagini e messaggi ampi e nevralgici, capace di contenere, pur nella sua limitatezza, un mondo variegato di esperienze e possibilità come ricorda Sacco citando Mario Chini (1876-1959), quello che può essere considerato il vero pioniere in Italia della tradizione haiku: “in tre versetti/ tutto un poema e, forse,/ tutta una vita” (43).
L’haiku non guarda solo al mondo di dentro, al nostro microcosmo in relazione al macrocosmo (la Natura), ma spesso può avere una concettualizzazione diversa, in linea con i tempi che corrono, finanche di analisi e di denuncia sociale, della condizione dell’uomo, del suo deprecabile distanziamento dalla natura, dalla ghettizzazione della società, dalla vera mancanza di libertà dinanzi alle imposizioni e ai rigidi trantran della vita odierna dove ben poco tempo può concretamente esser dedicato alla contemplazione, all’osservazione, all’auscultazione di sé. Ciò che è rilevante è lo shasei ovvero l’impegno dell’haiku verso l’onestà di sabiana memoria: il raccontare la vita in maniera fedele per com’è senza superfetazioni né edulcorazioni di sorta: “lo haijin non abbellisce niente, evita rigorosamente fronzoli lessicali e la sua penna riporta soltanto ciò che vede” (65).
C’è poi tutto un mondo di liminarità ed ellissi, di scarto e di impalpabile che contraddistingue lo haiku. È stato rivelato da più parti – e anche Sacco nel suo libro più volte lo rimarca – che la potenzialità comunicativa dello haiku si ravvisa, più che attorno all’alone di parole (e i loro legami) che sono contenuti, in quel magma arioso di non-presente, di non-detto. L’haiku ha la capacità – come la più perfetta poesia allusiva, compagna della tradizione ermetica ma non solo – di svelare messaggi anche attorno al non detto, a una possibilità di contenuto, a legami invisibili eppure in qualche modo profondi e riconducibili a un “dire” che il lettore, il chiosatore, deve esser in grado – sempre in base alla sua capacità persuasiva, collaborativa ed empatica – di far venire fuori. Antonio Sacco osserva a tal riguardo che “Non è necessario e nemmeno auspicabile dire, descrivere o fornire tutti i particolari in uno haiku, si deve, invece, lasciare spazio alla libera interpretazione del lettore, alla suggestione, perché è proprio la suggestionabilità il segreto delle arti giapponesi” (44). Va da sé – e intendo ricalcarlo – che affinché ciò avvenga è necessaria una contemplazione idonea che solo nel silenzio, nella calma dalla frenesia, nel ripiegamento e nello scambio fertile e reciproco di influssi tra sé e l’ambiente naturale ospitante (si pensi alla “forte empatia verso l’albero di melo”, 53, ma anche di ciliegio e nespolo, appunto, e verso le camelie, i glicini e le magnolie che spesso ritornano), si può avere.
La seconda – nutrita – parte del saggio contiene le “dissertazioni sullo haiku”. Sono degli articoli e degli approfondimenti su vari aspetti del mondo haiku ai quali reputo importante riferirmi per poter tracciare, in via sinottica, gli oggetti di discussione (rimando, comunque, ai saggi presenti nel volume per una lettura onnicomprensiva degli argomenti analizzati). Il percorso investigativo è aperto dal contributo “Sulle caratteristiche peculiari della poesia haiku” (pp. 77-83) sulle quali ci siamo concentrati – pur nel generale – sulle principali delle stesse. Una chiosa di Ogiwara Seisensui (1884-1976) risulta illuminante in questo percorso appena intrapreso: “Ciascun haiku è come un cerchio, di cui una metà è frutto del lavoro dello haijin, chiudere il cerchio è però compito del lettore” (77). Segue l’articolo “Lo haiku: come nasce un genere poetico unico al mondo” (pp. 84-91) dove s’inserisce la nascita e lo studio dello haiku in seno alla grande famiglia della poesia breve orientale del waka con riferimento al tanka come unità formale e semantica base della lirica giapponese. Si accenna anche alla produzione dei quattro grandi Maestri ovvero Matsuo Bashō (1644-1694), Yosa Buson (1716-1784), Kobayahi Issa (1763-1828) e Masaoka Shiki (1867-1902). Ulteriori approfondimenti scaturiscono dalle indagini che Sacco si è posto di fare con gli articoli seguenti: “Lo haiku come modello di approccio alla poesia” (pp. 92-98) nel quale l’autore concepisce lo haiku come stadio primordiale di creazione poetica, forma base di un dire – in chiave lirica – più ampio e diversificato, richiamando lo haiku quale “atomo poetico”; “Le tecniche di composizione di uno haiku” (pp. 99-101), dal piglio più tecnico, dove con puntualità e prontezza di esempi, Sacco tenta di tracciare alcuni degli aspetti più pregnanti della costruzione di uno haiku; “Lo spirito dello haiku” (pp. 102-106). Seguono poi degli interventi critici dal taglio più specialistico tesi a indagare alcune particolarità (con opportuni esempi) dello haiku: “Il chukangire: quando lo stacco cade all’interno di un verso di uno haiku” (pp. 107-110); “Kakekotoba, polisemia e omonimia nello haiku” (pp. 111-115); “Un caso di haiku polisenso: esempio del ruolo della kakekotoba nello haiku italiano” (pp.116-117); “Gli haiku e i koan zen” (pp. 136-137); “Shu – Ha – Ri e haiku” (pp. 143-144) dove ben è spiegata la massima orientale “Segui la regola del Maestro, viola la regola, trascendi e sii tu stesso la regola); “Haiku e kaizen” (pp. 145-146) in cui viene analizzato il concetto di kaizen (economia) alla luce del discorso haiku in oggetto; “Eziologia di una poesia haiku” (pp. 147-150) e un curioso “Test e profilo poetico per ciascuno dei quattro maestri di haiku” (pp. 118-124) dove, rispondendo a dieci domande a risposta multipla e conteggiando le rispettive risposte date, Sacco ha previsto, in chiusura, a un apparato con quattro profili che descrivono le tendenze e gli orientamenti distintivi dei quattro maestri haiku (Bashō, Buson, Issa e Shiki).
Meritano un approfondimento più ampio due dei contributi critici presenti nella raccolta, già diffusi in rete nei mesi scorsi e recentemente ripubblicati con il consenso dell’autore sul sito Blog Letteratura e Cultura. Il primo di essi, dal titolo “Lo haiku e i grandi poeti occidentali”[7], rintraccia, con una fresca e suggestiva elencazione, alcuni degli autori – soprattutto stranieri – che nel corso del tempo, a latere della loro produzione poetica o narrativa, si sono avvicinati allo haiku e ne hanno scritto esemplari, taluni pubblicando anche dei volumi. Del contesto americano senz’altro vi è una predilezione per l’haiku negli autori della Beat generation, esponenti in rivolta contro il mondo e impegnati in una battaglia sociale, affascinati dalle dottrine e dalle filosofie orientali. Esempi in tal senso sono, oltre ai componimenti di Allen Ginsberg (1926-1997), gli haiku di Jack Kerouac (1922-1969), maggiormente noto per il romanzo On the road (1957), che in una dichiarazione – riportata da Sacco – ebbe a rivelare: “L’haiku americano non è esattamente come quello giapponese. […] Penso che l’haiku americano […] debba preoccuparsi delle sillabe […] [esso] deve essere molto semplice e privo di ogni trucco poetico e descrivere una piccola immagine” (132). Uno tra gli haiku di Kerouac scelti da Sacco per essere riportati nel suo saggio, tradotto nella nostra lingua, così recita (e ben comprendiamo quanto sia distante dall’haiku giapponese stricto sensu): “Nel mio armadietto dei medicinali/ la mosca d’inverno/ è morta di vecchiaia” (132)[8]. Attenzione viene posta anche sulla produzione di haiku in altre letterature a noi “sorelle”: per la lingua spagnola vengono citati lo spagnolo Federico García Lorca (1898-1936), l’argentino Jorge Luis Borges[9] (1899-1986) e il messicano Octavio Paz (1914-1998) mentre per il francese Sacco si sente di citare Paul-Louis Couchoud (1879-1959) che – sembrerebbe – fu l’importatore e iniziatore della letteratura haiku in Francia, Paul Éluard (1895-1952), Paul Claudel (1868-1955) e Paul Valéry (1871-1945). In altre lingue ancora: Rainer Maria Rilke (1875-1926) e il Premio Nobel per la letteratura nel 2011, lo svedese Tomas Tranströmer (1931-2015) dei cui haiku si parlò qualche anno fa anche sul Corriere della Sera[10]. Del caso italiano, invece, dopo il già menzionato Mario Chini (1976-1959), prolifici produttori di haiku furono Edoardo Sanguineti[11] (1930-2010) e, soprattutto, Andrea Zanzotto (1921-2011) autore di numerosi haiku (definiti da alcuni, per le loro “irregolarità”, pseudo-haiku[12]) prodotti in inglese e poi tradotti in italiano, confluiti nell’opera Haiku for a season (2012)[13].
Su questa stessa linea d’indagine, con un raffronto comparativista tra cultura occidentale e orientale, si snoda il saggio “Diverse modalità di approccio di fronte alla morte attraverso la poesia in Oriente e in Occidente”[14] che, pur scostandosi leggermente dall’analisi tecnico-formale unicamente sullo haiku, pone sul piatto varie forme di composizione poetiche adoperate nel corso della storia per “cantare” la morte. Del mondo occidentale Sacco parla dell’epitaffio (termine di derivazione greca, da epitaphion ovvero “ciò che sta sopra il sepolcro”) sottolineando – con un riferimento all’epitaffio della tomba del poeta romantico inglese John Keats (1795-1821) al Cimitero Aconfessionale di Roma, la carica simbolica delle epigrafi spesso impiegate nelle lastre sepolcrali. Nel caso degli intellettuali spesso si tratta di versi o estratti scritti appositamente dagli stessi prima di andarsene o, in altri casi, scelti per il loro potere evocativo, da successori. A tal riguardo non può non venire a mente anche la possente raccolta di epitaffi dell’americano Edgard Lee Masters (1868-1950), l’Antologia di Spoon River (1915). Sacco fa poi riferimento al genere dell’elegia per mettere in luce quel particolare componimento (vicino al pianto) spesso utilizzato sia per esprimere il proprio dolore per la morte di una persona cara ma anche con motivi celebrativi ed encomiastici, per innalzarne la figura e onorarla per i suoi alti meriti. A tal riguardo mi viene, invece, da pensare al celeberrimo Llanto por Ignacio Sánchez Mejías (1935) scritto da Federico García Lorca (1898-1936) per commemorare la morte dell’amico e torero sivigliano morto per una cogida fatal sulla plaza de toros di Manzanares. Del mondo orientale, invece, Sacco riporta alcune forme poetiche tipiche quali i jisei, o death poems, con i quali il poeta attua un’operazione di congedo dal mondo (come nell’esempio di Bokusai riportato da Sacco nel saggio) e la particolarità dei jisei no ku di Bairju, finanche dei sijo coreani. Gli esempi riportati sono chiarificatori, oltre di un diverso metro impiegato per ogni genere menzionato, anche di un diverso approccio del poeta (dell’uomo in generale) nei confronti della morte che, nel mondo orientale, è vissuta con un più facile accoglimento e positività, pacificazione e stadio di un percorso circolare continuo. Al contrario, nella lirica occidentale si tende a sottolineare e a sopravvalutare il dolore, l’ansia, la depressione, il tormento, l’angoscia del momento che corrisponde a una sorta di fine di certezze e un pianto continuo che non stempera la paura. Morte come accettazione di un percorso che fluisce (mondo orientale) e morte come termine di un percorso (mondo occidentale). Si tratta di una semplificazione patente dal momento che anche nel mondo occidentale, in autori e opere pervase da un sentimento religioso, l’accettazione della morte, dopo un percorso di sofferenza e di elaborazione, può comunque compiersi.
Di interesse, infine, anche l’articolo “Relazioni tra pittura e poesia” (pp. 138-142) che prende forma a partire dal motto oraziano Ut pictura poiesis e nel quale Sacco, adoperando un avvicinamento tra i due codici comunicativi del linguaggio (parola) e della pittura (immagine) parla dei fenomeni sincretici tanto nell’arte occidentale (com’è il caso dei calligrammi di Gustave Apollinaire (1880-1918) e poi di tutta la poesia visiva cara a (tra gli altri) Corrado Govoni (1884-1965), agli avanguardisti della prima e della seconda stagione, sino alle sperimentazioni di Adriano Spatola (1941-1988), Patrizia Vicinelli (1943-1991), la parentesi di Anna Malfaiera (1926-1996), solo per citarne alcune) e orientale (lo haiga, termine col quale s’intende un’immagine accompagnata o giustapposta a un componimento di poesia haiku). Sono, in entrambi i casi, attacchi d’arte, veri e propri atti performativi che mettono in luce, in maniera esaltante, approcci di tipo diverso con il risultato di un’opera mista e stratificata, ibrida, plurievocativa, capace ancor più di ampliare la lettura, la fruizione e la comprensione della stessa, sempre sulle basi di un desiderio dell’autore di creazione e accrescimento di suspense che, nel fruitore, ben si amalgama alla ricerca del senso e al suggerimento di proposte.
La terza e ultima parte del volume è dedicata a una selezione di sei haibun introdotti da una nota dove viene spiegato di che cosa si tratta: “Lo haibun (letteralmente “scritti haikai”) è un tipo di componimento di origine giapponese che mischia prosa e poesia. Di solito (ma non sempre) è il resoconto di un viaggio […] una breve descrizione di un posto, una persona o un oggetto […] [che] deve lasciare al lettore una sensazione di “incompiuto”, suggerendo più che mostrare esplicitamente” (167). Compongono la sezione, tra gli altri, alcuni haibun relativi a un viaggio in Medio Oriente e in Norvegia.
Un plauso ad Antonio Sacco per aver redatto, in poche pratiche pagine e con un linguaggio consono alla facile comprensione, un manuale sul mondo della poesia orientale, i suoi meccanismi di scrittura e le particolarità di un genere oggi abbastanza diffuso al punto da divenire “popolare” ma del quale in pochi conoscono veramente orientamenti, tendenze e peculiarità distintive. Questo testo può rivelarsi, oltre che un approfondimento originale e spigliato per un qualsiasi lettore, un buon programma di auto-analisi per gli stessi haijin, per misurare la propria produzione con gli stilemi e i caratteri fondanti del genere nella sua forma originale.
[1] Antonio Sacco, “Come non si scrive una poesia haiku”, Poesia del nostro tempo, 24/07/2020, link di caricamento: https://www.poesiadelnostrotempo.it/come-non-si-scrive-una-poesia-haiku/?fbclid=IwAR0a3sy2vVDxHiBCmMO9-fxbjRB4SZcqQf2lvEeclMSk-WLho2XXfzv0Rj8 (Sito consultato il 25/07/2020).
[2] “La scrittura di uno haiku è il frutto di un irripetibile istante” (70) sosteneva il Maestro Bashō.
[3] È lo stesso Sacco che riporta questa citazione nel corpo del commento critico allo haiku presente a pagina 23. Ricordiamo – cosa non banale dal momento che in molti commettono questo errore – che lo haiku non ha titolo. Per cui per riferirsi a uno haiku scritto da un autore o si danno i riferimenti bibliografici o intertestuali di dove appare o si riporta, in forma prosastica, in un’unica linea, con opportuni slash che contraddistinguono le chiusure del verso.
[4] Tuttavia, come Sacco osserva, vi sono anche haiku senza kigo. Quest’ultimi vengono chiamati muki.
[5] Ciò può avvenire, come dimostra lo haiku di Sacco a pagina 35, anche da un fenomeno non di rado presente negli haiku che tende a “ingigantire il piccolo […] originando inaspettate connessioni fra oggetti così diversi e ordini di grandezza così differenti” (35).
[6] A tal riguardo si legga l’approfondimento nell’articolo “Gli haiku e i koan zen” dove si legge: “I koan sono racconti, enigmi, problemi senza soluzione, paradossi logici, che fanno toccare con mano quanto sia arduo lo sforzo razionale di penetrare la realtà ultima” (136).
[7] Antonio Sacco, “Lo haiku e i grandi poeti occidentali”, L’ombra delle parole, 25/06/2019, link: https://lombradelleparole.wordpress.com/2019/06/25/antonio-sacco-lo-haiku-nei-poeti-occidentali-federico-garcia-lorca-pound-allen-ginsberg-paul-eluard-pierre-albert-birot-paul-claudel-andrea-zanzotto-jorge-luis-borges-tomas-transtromer-jorg/ (Sito consultato il 09/07/2020); ripubblicato su Blog Letteratura e Cultura, 09/07/2020, link: https://blogletteratura.com/2020/07/09/lo-haiku-e-i-grandi-poeti-occidentali-saggio-di-antonio-sacco/ (Sito consultato il 25/07/2020).
[8] Un altro haiku di Kerouac tradotto in italiano: “Mattina presto fiori gialli/ pensando/ agli alcolisti del Messico”, cit. in Giuseppe Gallo, “La cultura giapponese e la Beat Generation”, Il Mangiaparole, n°5, gennaio/marzo 2019, p. 51. Una buona quantità di haiku di Kerouac vennero pubblicati nel volume Scattered Poems (1971).
[9] Autore dei 17 haiku che nel nostro Paese vennero pubblicati nel libro La cifra, traduzione di Domenico Porzio, Mondadori, Milano, 1982. Per un approfondimento rimando a Giuseppe Gallo, “I 17 haiku di Jorge Luis Borges”, Il Mangiaparole, n°6, aprile/maggio 2019, pp. 50-51.
[10] Roberto Galaverni, “Gli haiku di Tranströmer...”, Corriere della Sera, 4 dicembre 2011, p. 20.
[11] Edoardo Sanguineti, Quattro Haiku, Ogopogo-ETRA/ARTE, Agromonte-Napoli, 1995. Alcuni suoi haiku vennero pubblicati nella sezione “Poesie fuggitive 1996-2001” del libro Mikokosmos. Poesie 1951-2004, Feltrinelli, Milano, 2004.
[12] “Zanzotto, nonostante avesse introiettato i meccanismi mentali e verbali che sottostanno alla forma haiku, era consapevole della differenza tra i propri haiku e quelli della tradizione giapponese. Infatti, per i suoi versi parlava di “pseudo-haiku”, in Giuseppe Gallo, “Andrea Zanzotto e i suoi “pseudo-haiku””, Il Mangiaparole, n°8, ottobre/dicembre 2019, p. 50.
[13] Volume riedito recentemente in doppia lingua: Andrea Zanzotto, Haiku. For a season / Per una stagione, Mondadori, Milano, 2019.
[14] Antonio Sacco, “Diverse modalità di approccio di fronte alla morte attraverso la poesia in Oriente e in Occidente”, www.lucacenisi.it, 13/09/2018; ripubblicato in Blog Letteratura e Cultura, 23/07/2020, link: https://blogletteratura.com/2020/07/23/diverse-modalita-di-approccio-di-fronte-alla-morte-attraverso-la-poesia-in-oriente-e-in-occidente-saggio-di-antonio-sacco/ (Sito consultato il 25/07/2020)