L’apogeo dell’impero da Ulpio Traiano a Marco Aurelio - ricerca storica di Giovanni Teresi
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- Creato: 12 Ottobre 2024
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Cocceio Nerva (96-98 d. C.) e la politica di collaborazione fra il Senato e l’imperatore
L’uccisione di Domiziano, benché promossa dall’imperatore, in realtà era stata decisa dal Senato, al quale la superbia e la crudeltà dell’imperatore erano divenute insopportabili. Subito in piena Curia, prima che intervenissero con la violenza i Pretoriani, un vecchio senatore, Coccio Nerva, fu acclamato imperatore. Popolo ed esercito accettarono l’eletto dal Senato.
Nerva era un uomo probo, pieno di esperienza e di gravità. Il suo brevissimo regno rimase memorabile perché iniziò nella storia di Roma un periodo veramente solenne, che si protrasse per quasi tutto il secondo secolo e segnò l’apogeo dell’Impero: Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio; i grandi sovrani di quest’epoca felice.
Essi, sebbene non appartenessero alla stessa famiglia, ebbero tutti qualcosa di comune nella grandezza morale. Il segreto del loro successo fu la continua fedeltà ai due principi di governo, che il Nerva aveva inaugurati, cioè:
- Collaborazione leale fra l’imperatore e il Senato, per cui le due forze dello Stato si trovarono unite per il benessere comune;
- Successione al trono, non per eredità dinastica, ma per adozione; così il sovrano regnante poté assicurare la continuità dell’opera propria scegliendo a succedergli la persona da lui stesso addestrata al governo. Tale successione per adozione divene più agevole, perché da Nerva ad Antonino Pio nessuno dei sovrani ebbe figliuoli.
Ulpio Traiano (98 – 117 d. C.)
Nerva, già vecchio, aveva assunto come collega il generale Ulpio Traiano, il quale alla sua morte (98 d.C.) divenne imperatore. Traiano era nato a Italica nella Spagna: era dunque un provinciale, il primo provinciale che saliva sul trono d’Augusto: eppure pochi imperatori furono per ingegno, per carattere, per ideali, più romani di questo Spagnolo che aveva dedicato la sua vita alla gloria di Roma, combattendo in tutte le guerre, servendo come soldato, come generale, come magistrato, come console. A 42 anni fu principe severo ma giusto; rispettoso del Senato, ma anche molto attento ai bisogni del popolo; amante dello sfarzo e delle grandi costruzioni, ma buon amministratore del pubblico denaro. I Romani lo amarono molto e, fra tutti gli imperatori, a lui solo diedero il titolo onorifico di optimus princeps. La fama della bontà di Traiano giunse fino al tardo Medio Evo. (Si ricordi il noto episodio descritto da Dante -Purgatorio X, 73 e segg.).
L’impresa più famoso di Traiano è quella della Dacia (oggi Romania), vasto paese al di là del Danubio, in cui si era costituito un forte regno barbarico sotto il re Decèbalo. Più volte i Daci avevano passato il fiume e molestata la Mesia; con essi Domiziano aveva concluso una pace poco decorosa per Roma. Nel 101 d. C. Traiano invase la Dacia e per cinque anni continui vinse i barbari in ripetute battaglie, espugnò le loro fortezze, e, pacificato il paese, vi costruì magnifiche strade militari, congiungendole a quelle della Mesia con un lungo ponte sul Danubio. Decebalo, vinto, fu costretto ad uccidersi; miglia di Daci furono ridotti in servitù; tutta la regione, divenuta provincia romana, fu divisa tra innumerevoli coloni, i quali vi portarono i costumi e la lingua di Roma.
Tornato a Roma, Traiano celebrò un superbo trionfo, e in ricordo di tante vittorie edificò il Foro Traiano.
Mentre l’imperatore era nella Dacia, i suoi generali conquistarono la parte dell’Arabia, che è a sud della Palestina, con la penisola del Sinai. Lo stesso Traiano dovette occuparsi dell’Oriente qualche anno dopo (114 d.C.) a causa dei Parti, che volevano impadronirsi dell’Armenia, Stato vassallo di Roma. Il Regno dei Parti era vastissimo e potente. Traiano, che forse vagheggiava di ripetere l’impresa di Alessandro Magno, dichiarò guerra ai Parti, conquistò la Mesopotamia e l’Assiria, riducendole a provincie romane, poi avanzò nel cuore dell’altopiano iranico; ma un’improvvisa malattia lo costrinse a ritornare verso Roma. Morì poco più che sessantenne, durante il viaggio, a Selinunte di Cilicia nell’Asia Minore (117 d.C.).
Elio Adriano (117 – 138 d. C.)
L’uomo che Traiano aveva adottato perché gli succedesse, benché suo parente e compaesano, differiva in tutto da lui. Elio Adriano, amante delle arti e delle lettere, passò gran parte del suo regno viaggiando per le provincie, visitando i monumenti più famosi, raccogliendo a piene mani cariche onorifiche, costruendo dappertutto città, templi, archi, strade. Dopo aver ispezionato La Gallia e la Britannia, andò in Africa, poi in Egitto; percorse l’Asia e la Siria, e più volte soggiornò in Grecia, ad Atene, città del suo cuore.
Adriano non era un grande generale come Traiano; fautore di pace, preferì accomodarsi con i Parti e rinunciare ad altre conquiste. Ma pochi come lui curarono l’esercito; pochissimi fecero tanto per consolidare i confini dell’Impero; a lui si deve probabilmente la sistemazione definitiva degli Agri decumates, un territorio posto al di là del Reno e del Danubio; a lui spetta l’idea della grandiosa muraglia di difesa (Vallum Hadriani), eretta in Britannia contro le incursioni dei Caledoni. In Oriente, avendo voluto ricostruire Gerusalemme per farne una città pagana con il nome di Aelia Capitolina, suscitò una rivolta degli Ebrei, che dovette reprimere con la forza delle armi.
Nel suo grande amore per l’arte, Adriano fu naturalmente anche un appassionato costruttore. A lui Roma dovette l’edificio sacro più colossale, quel Tempio di Venere e Roma, che giganteggiava con superbi colonnati presso l’Arco di Tito. Si costruì una tomba grandiosa al di là del Tevere, unendola con un ponte alla città: quella tomba è oggi Castel Sant’Angelo.
Sentendosi invecchiare, Adriano si ritirò a Tivoli. Là visse gli ultimi anni come un esteta stanco. Morì nel 138 d. C., dopo aver adottato Antonino Pio.
Antonino Pio (138 – 161 d. C.)
Antonino Pio era diverso dal carattere di Adriano. Ma il popolo ebbe un principe più dolce, più giusto; il Senato gli diede il titolo onorifico di Pio. Originario della Gallia, non ebbe simpatia per la vita rumorosa della capitale, e visse quasi sempre nella sua villa di Lorium, non lontano da Roma, concedendo al Senato una grande libertà nel governo dello Stato. Fu savio amministratore delle pubbliche finanze, proseguì l’opera di consolidamento dei confini, e nella Britannia, a nord delle fortificazioni, costruì un nuovo Vallum contro i Caledoni. Il suo programma fu la pace. Antonino fu felice anche nella scelta del suo successore. Marco Aurelio, uomo per virtù e per dignità non inferiore lui stesso.
Marco Aurelio (161 – 180 d. C.)
L’imperatore Marco Aurelio era un vero filosofo. Educato all’austera scuola degli Stoici, scriveva considerazioni umane, raccolte nel libro “Colloqui con me stesso” da lui lasciato in dono alla posterità. In tanto in Oriente si era riaccesa la guerra con i Parti, i quali avevano di nuovo occupato l’Armenia e invaso la provincia romana della Siria. Marco Aurelio vi mandò il fratello adottivo Lucio Vero, ch’egli si era associato nel governo; i Parti furono ricacciati, il confine ristabilito; ma la peste, scoppiata tra i soldati, si diffuse rapidamente per tutto l’Impero facendo innumerevoli vittime.
Al di là del Danubio, turbe di Quadi e di Marcomanni, rozze popolazioni germaniche, in cerca di terre e di fortuna, si mossero verso la Pannonia e il Norico.
Con una serie di faticose campagne, durante le quali morì anche Lucio Vero, l’imperatore respinse i barbari e li ricacciò nei loro territori. Morì a Vindobona (Vienna) nel 180 d. C. mentre erano ancora in corso le trattative con i vinti. In memoria di tali imprese, fu eretta a Roma in onore di Marco Aurelio, una colonna marmorea, Colonna Antonina, simile a quella di Traiano, in cui furono scolpiti gli episodi principali dell’impresa.
Commodo (180 – 192 d. C.) e la fine degli Antonini
Marco Aurelio pose termine alla serie gloriosa dei grandi sovrani, non avendo avuto il coraggio di escludere dalla successione il proprio figlio Commodo, un ragazzo incolto e rozzo, che passava il tempo fra i gladiatori e gli schiavi dell’anfiteatro. Divenuto imperatore, Commodo si affrettò a concludere una pace qualsiasi con i barbari. Abbandonata nelle mani dei ministri la cura dello Stato, egli si diede ai giochi del circo, e scese più volte nell’arena per combattere con i gladiatori e con le fiere. Intanto dietro le spalle dell’ignaro sovrano i ministri facevano danaro; l’esercito, adulato vilmente da Commodo, era in pieno disordine; le finanze si avviavano alla rovina. Scoppiarono allora congiure, che scoperte in tempo, salvarono si la vita dell’imperatore, ma ne inasprirono l’animo. Commodo cominciò a mandare a morte senatori, cavalieri, ministri; così che il suo regno parve ricordare i peggiori tempi di Nerone e di Domiziano. Infine, nel 192 d. C., egli cadde vittima di una congiura di palazzo.