“Da Netflix allo yoga - quando la cultura diventa strumento di potere” - di Mario Bozzi Sentieri

Abituati a guardare agli asfittici confini del “cortile di casa”, salvo poi venire travolti emotivamente dagli scenari globalizzati, spesso non percepiamo la grandiosità dello scontro in atto, sul grande scacchiere internazionale. E non solo sui numeri del Pil, sulle delocalizzazioni produttive, sulla sfida tecnologica. La partita si gioca anche  a partire  dalle attività culturali e dal ruolo ad esse assegnate dai singoli Stati.

E’  stato   il politologo americano Joseph Nye a coniare, nel 1990,   il termine soft power, con ciò definendo l’uso dell’arte come leva di potere geopolitico: sottile strategia della persuasione e del consenso, costruita attraverso la diffusione delle rispettive culture.  Nye aveva visto giusto.  A   leggere i numeri e le tendenze   è anche    sugli scenari della cultura che vanno percepiti i nuovi rapporti di forza e le relazioni tra gli Stati, laddove  cultura e realpolitik si intersecano,  fino a dovere parlare, nello scontro tra contesto locale e dinamiche globali,  di geocultura.

A fotografare ed analizzare questi nuovi scenari arriva ora l’ Atlante della cultura di Antoine Pecqueur, giornalista specializzato in economia della cultura, già collaboratore di “Le Monde” ed oggi di “Mediapart”.

In trenta tappe, ricche di mappe, schemi, grafici, l’autore ci porta in giro per il mondo, rivelando strategie culturali poco conosciute, sapientemente intrecciate con le più note politiche economiche ed i diretti rapporti di forza tra gli Stati.

Stati Uniti e Cina la fanno da padroni. Con i primi in affanno, a causa delle difficoltà del   modello liberale della cultura anglosassone (basata su una redditività prodotta con mezzi propri, ovvero sulla vendita dei biglietti, resa obsoleta dalla chiusura dei locali, e sulla filantropia, messa in grave difficoltà dalla crisi economica) e la Cina impegnata ad abbandonare  lo stile del tradizionale soft power, trasformandolo in uno “sharp power”, un “potere tagliente”, potendo  contare sul conglomerato statale Poly, leader sia nella vendita di armi che nella costruzione di strutture culturali.

Tuttavia – nota Pecqueur -  la partita culturale post-Covid non deve  essere ridotta a un confronto tra Stati Uniti e Cina, con l’Europa nella parte del moderatore. In realtà, le forze in campo sono molto più frammentate. I Paesi del Sud del mondo stanno investendo moltissimo in cultura. I due principali Paesi produttori di film sono l’India, con Bollywood, e la Nigeria, con Nollywood.

L’Africa, pur nella difficoltà della crisi sanitaria, continua la sua espansione culturale, che si ritrova al centro delle questioni geopolitiche, con la Cina da una parte e i gruppi privati delle ex potenze coloniali dall’altra. Il Marocco ha appena costruito due grandi teatri, a Rabat e Casablanca, che sono tra le più grandi strutture del genere in Nord Africa.

In Europa i Paesi del Gruppo di Visegrád (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) sono quelli che, in proporzione al loro bilancio, stanziano più fondi pubblici nella cultura rispetto ad altri Paesi europei: l’identità e la protezione di uno “stile di vita” assumono un valore cruciale per creare consenso intorno al discorso nazionalista. Da qui la pianificazione dell’interventismo pubblico proprio nel settore culturale.

Discorso analogo quello della Turchia di Recep Tayyip Erdoğan, il quale non ne ha fatto  mistero, quando nel gennaio 2019, durante una cerimonia di premiazione nel suo palazzo presidenziale, ha detto: “Considero le questioni culturali e artistiche vitali quando la lotta al terrorismo o la politica estera”. Da allora il presidente turco ha cominciato ad investire nel settore delle arti: dalle infrastrutture alla tutela della “produzione” locale, al tentativo di utilizzare la cultura nazionalista come forza diplomatica.

In Asia poi non c’è solo la Cina, impegnata a stabilire un asse culturale tra vecchia e nuova Via della Seta. Abu Dhabi ha promosso uno studio, in collaborazione con l’Unesco, per misurare su scala mondiale l’impatto del Covid sulla cultura. Puntando sulle arti e, più in generale, sull’entertainment, viene da chiedersi – scrive Pecqueur - se i Paesi del Golfo non stiano progettando un’economia post-petrolio o post- gas o se, per cominciare, non stiano cercando di migliorare la loro immagine di petro-monarchie agli occhi delle potenze occidentali. Realpolitik e comunicazione, in questo caso, sono interconnesse.

In Corea del Sud la musica è diventata il nuovo brand del Paese, attraverso il K-pop, una combinazione di pop e musica elettronica: “Lo scopo del K-pop – nota Pecqueur – è quello di aumentare l’attrattività del Paese, e muovere il consenso dei consumatori verso i prodotti coreani”.  In India, il governo di Narendra Modi, al potere dal 2014, usa lo yoga per affermare il nazionalismo hindu, soprattutto contro i musulmani, al punto da creare un ministero dello Yoga, riuscendo,  attraverso l’Unesco, a iscrivere questa antica pratica come patrimonio immateriale dell’umanità e  facendone una sorta di bandiera ideologica. In Brasile il presidente Jair Bolsonaro ha abolito il ministero della Cultura, raggruppando le politiche sociali, lo sport e la cultura in un nuovo ministero, chiamato della Cittadinanza: un modo – anche questo – per sottolineare la nuova politica identitaria del Paese.

 In questo quadro internazionale , segnato da un estremo dinamismo geoculturale, l’Europa mostra di essere una sorta di Cenerentola. I numeri parlano da soli. Nel 2020, rispetto all’anno precedente, il fatturato delle attività culturali e creative europee è diminuito del 31% (da 643 miliardi di euro a 444 miliardi di euro). Il settore culturale è quindi tra i più colpiti dalla crisi sanitaria.

Mancano le risorse, ma manca evidentemente una strategia d’assieme, in grado di affermare organicamente l’identità culturale del Vecchio Continente. Del resto la cultura non è una competenza esclusiva ovvero concorrente dell’Unione. Le esigenze dell’Unione sono evidentemente altre, quelle economiche e di mercato: troppo poco per essere in grado  di affrontare l’avanzante   soft power, laddove – come evidenziato dall’Atlante della cultura – è anche qui che si giocano le partite del potere e del controllo sui grandi scenari internazionali.  Non tutto è perduto – sia chiaro - sul fronte della battaglia metapolitica. A patto però di volerla combattere questa battaglia, evitando di essere succubi del dinamismo altrui.

Antoine Pecqueur, Atlante della cultura. Da Netflix allo yoga: il nuovo soft power, Add Editore, pagg. 144, Euro 22,00

 

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