“Di Paradiso in Paradiso” con Serena Dandini – di Maria Nivea Zagarella

Scrittura leggera e svolazzante quella di Serena Dandini nel libro Cronache dal Paradiso, dove appunto la penna dell’autrice svolazza fra ricordi di estati trascorse nella campagna viterbese dell’infanzia, suo paradiso personale, e i tanti paradisi realizzati, inseguiti o perduti, da personaggi più o meno famosi della nostra umanissima storia di tenaci, o più spesso incauti, pellegrini della felicità. Felicità in questo libro ovviamente terrena, e soggettiva (ognuno -dice- può immaginarsi un Paradiso su misura e decidere di spendere la vita per riconquistarlo), che può talora colorarsi di istanze collettive. Sempre ironico-frizzante ma pure autoironica nell’indulgente ridimensionamento dei propri ribelli furori adolescenziali e in generale sessantottini (eravamo convinti, ingenuamente, di appartenere a una generazione che in un modo o nell’altro avrebbe cambiato il mondo… Una certezza che la storia come sappiamo avrebbe sgretolato senza pietà. Ma per fortuna ancora non lo sapevamo), su una linea resta però saldamente attestata di “resistenza” la Dandini: la rivendicazione tuttora attuale -vista la quotidiana escalation di femminicidi- dell’autonomia femminile e della intelligenza, creatività e coraggio delle donne, di cui abbondano nel libro le esemplificazioni a partire da Eva la cui colpa -scriveva Margherita Hack- fu quella di voler conoscere, sperimentare, indagare con le proprie forze… e che rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede. Rilevante dunque la nota femminista, adeguatamente spruzzata di allarmata denuncia ecologica in difesa della foresta amazzonica e delle specie vegetali (molte ancora sconosciute) che costituiscono oltre l’85% della biomassa terrestre e dalle quali -ci ricorda l’autrice- dipende quanto a ossigeno e catena alimentare la nostra sopravvivenza sulla Terra. Perciò, se da un lato affettuosi, ma sporadici e ambigui, perché mordeva allora Serena il freno dei vincoli familiari (l’irascibilità/austerità del nonno, l’allegra autoritaria arroganza paterna e l‘eccessiva remissività materna), riemergono della villa viterbese i frammentari ricordi delle ortensie azzurrine, del banano infruttifero e della datura velenosa di nonna Enrica, dei cocci etruschi restituiti dai solchi arati, della bascula per pesare il grano trebbiato, dell’odore del pomodoro imbottigliato per la conserva invernale…, dall’altro a campeggiare in Cronache dal paradiso è soprattutto lo scaltrito gioco biografico-letterario della ricostruzione di altri lussureggianti Eden soggettivi, in cui il rapporto Realtà/Natura/soggetto conosce gradazioni diverse di senso e di gratifica interiore. A volte è una voglia di esplorazione e curiosità di conoscenza del pianeta/mondo in cui si fondono interesse scientifico e orgoglio di umana conquista e di personale affermazione. I casi ad esempio nel ‘700 del medico e naturalista svedese Linneo, che studiò fra l’altro le favolose piante della serra e del giardino del banchiere George Clifford, Direttore della Compagnia Olandese delle Indie orientali, che vi aveva raccolto esemplari provenienti dal Sudafrica, Malabar, Ceylon, Giava, Giappone, e dell’avventurosa botanica Jeanne Baret, che inizialmente travestita da maschio, circumnavigò il globo sulla flotta dell’ammiraglio Bougainville, scoprì in Brasile la nuova specie appunto della bougainvillea, e catalogò con il botanico Commerson ben 6000 piante scoprendone insieme a lui altre 3000 da Tahiti alle Mauritius all’isola di Réunion al Madagascar alle Seychelles. O ancora, fra ‘800 e ‘900, l’instancabile viaggiatrice filosofa Alexandra David-Néel profonda conoscitrice e divulgatrice del buddhismo, ma anche suffragetta e soprano oltre che saggista, la quale dopo varie peripezie riuscì nel 1924, prima donna occidentale, a raggiungere Lhasa, trono di dio e suo personale paradiso, venendo salutata dai francesi suoi contemporanei nel 1925 come “Madame Tibet”, ma solo tardi riscoperta dal mondo della cultura: dal poeta Allen Ginsberg della Beat Generation innanzitutto e dagli studi femministi poi.

Dall’amore del giardinaggio invece, come atto creativo in sé (mettere a dimora una piantina), o anche di artistica creatività e grazia, generando terrestri paradisi da terre brulle e aspre, nascono, a fine 800 a Venezia il Giardino della Giudecca dell’inglese Frederic Eden e nel ‘900 a Ischia i Giardini della Mortella dei coniugi Susana e William Walton. Frederic Eden, venuto a stabilirsi in Italia nel 1887 per ragioni di salute, realizzò un giardino traboccante di gladioli, tulipani, mughetti, garofani, gigli, piante tropicali, pergolati di rose e di glicini, dove -informa la Dandini- passeggiavano e amoreggiavano D’Annunzio e Eleonora Duse, e vi “riposavano” Proust, Rainer Maria Rilke, Jean Cocteau, Henri James, ma del quale -si affretta a ricordare- oggi non rimane più nulla, ridotto a selva incolta e solitaria per le disposizioni testamentarie del suo ultimo proprietario, l’artista austriaco Hundertwasser, teorico contro il giardinaggio della natura spontanea e selvaggia. Un groviglio inquietante -commenta l’autrice che lo ha intravisto da una gondola perché chiuso al pubblico- che può fare da monito alla stupidità dell’attuale presunto Homo sapiens distruttore dell’ambiente e specie a rischio, perché la natura selvaggia…ci racconta di un pianeta libero dal dominio dell’uomo, potendo le piante sopravvivere senza di noi, ma non noi senza di loro. Tuttora vitale al contrario il giardino dei Walton aperto ai visitatori e sede di una Fondazione musicale intestata dalla moglie argentina Susana al marito William musicista, entrambi morti oggi, ma sepolti nel loro giardino e vegliati da 4000 varietà di piante, provenienti da ogni parte del mondo e concretizzazione di un sogno di felicità appartato, in fuga negli anni ‘50 del Novecento dalle luci abbaglianti di Londra verso una squallida conca di pietre battuta dal mare, che Susana però, nella sua immaginazione creatrice, vedeva già come un gigantesco vaso di fiori scolpito in un torrente di lava. Di una “fuga”, e nello specifico di una opposizione agli orrori della guerra e di una resistenza nella celebrazione della Bellezza negli anni bui della Prima Guerra Mondiale, parlano pure le 12 gigantesche tele dipinte dall’ormai anziano pittore impressionista Claude Monet che nella sua Grande Decoration, oggi esposta nelle due Sale del Museo dell’Orangerie, ritrae le ninfee del laghetto del suo giardino di Giverny, evocando in un gioco di luce fiori acque salici l’alba della nascita del mondo.

Di un rapporto mistico con la Natura, opera d’arte del suo divino Creatore, è impregnata a sua volta tutta l’architettura di Antoni Gaudí, da Casa Batllò all’ancora incompiuta Sagrada Famiglia di Barcellona, che con le torri/guglie che affondano nel cielo e la sua sublime, aerea fantasmagoria di figure, volte, vetrate, sembra volere essere raffigurazione sulla Terra del Paradiso celeste. Una analoga religiosa tensione e spirituale immedesimazione con la Natura, intrise però di umori laici e sociali, si colgono sia nella visione/progetto della città–utopia di Brasilia realizzata dall’architetto brasiliano Niemeyer in collaborazione con l’urbanista Lúcio Costa, città che vista dall’alto, con le sue morbide e inclusive curve, pare -osserva la Dandini- un enorme uccello che vola ad ali spiegate quasi a volere racchiudere in un unico abbraccio ogni ceto e ogni uomo, sia nei disegni a colori vivi e sgargianti della pittrice botanica Margaret Mee, innamorata della foresta amazzonica e attivista a fianco degli indios dei loro diritti e della salvaguardia del loro habitat. Trasferitasi alla fine della II guerra mondiale dall’Inghilterra in Brasile, Margaret si è spinta anno dopo anno con una barchetta nelle anse più rischiose e segrete del Rio delle Amazzoni, lasciando nei suoi disegni preziose testimonianze di specie oggi non più esistenti, perché inghiottite dalla crescente distruzione della foresta, scoprendo lei stessa 8 nuove specie, e facendosi pellegrina per 30 anni, dal 1956 al 1986, della ricerca del “fiore di luna” (Quell’inferno verde, irto di pericoli, era il mio Paradiso. Un Paradiso con un solo dio, il fiore di luna), un fiore meraviglioso che nasce nella foresta allagata, fiorisce solo di notte e una sola volta fra maggio e giugno, aprendosi a spirale come un delicato vortice di petali bianchi dal profumo inebriante che nel corso della notte timidamente arrossiscono, e appassendo col sole. Riesce Margaret a vederlo in boccio e mentre sboccia solo nel 1986 (Il fiore che sbocciava e che prendeva vita…), fissandone le fasi nel disegno, e raccogliendolo poi all’alba per conservarlo come una reliquia per sè e per i posteri. Il testimone di Margaret, morta in un incidente d’auto, è ora passato -scrive la Dandini- alla giovane indigena ecuadoregna Nemonte Nenquimo, leader del popolo waorani che ha fatto causa al governo di Quito riuscendo a salvare 202 342 ettari di foresta.      

La nostalgia delle natie Russia e Martinica alimenta invece -nella ricostruzione che ne fa  l’autrice- la passione per le farfalle dello scrittore Vladimir Nabokov, che le catturava da bambino col padre nella campagna e nei boschi attorno a Pietroburgo, e l’eden esotico ricreato nel Castello di Malmaison vicino Parigi da Giuseppina Bonaparte. Il primo fu costretto a lasciare ventenne la Russia per lo scoppio e il trionfo della rivoluzione bolscevica, e restò un “esule” per tutta la vita, incapace di mettere radici e trovare patria in qualsiasi altra terra, ma ovunque sempre col retino a caccia di farfalle, studiate da lui al microscopio e riprodotte nei suoi quaderni di ricerca con la passione scientifica del ricercatore di Lepidotterologia e con gli occhi incantati dei giorni perduti dell’infanzia. Josephine de la Pagerie lasciò a quindici anni la Martinica costretta a sposare il visconte de Beauharnais che presto la ripudiò. Nel suo Eden da imperatrice, oltre uno zoo che comprendeva canguri, antilopi, gnu, zebre, la scimmietta Rose e una meravigliosa coppia di cigni neri dal becco amaranto, cresceranno piante portate dalle navi napoleoniche da ogni parte del mondo e collezionate con passione da naturalista da Giuseppina, che si documentava e intratteneva relazioni epistolari con scienziati e esperti di orti botanici. Diverso lo scenario “verde” che si apre con Agatha Christie e i suoi gialli dove dominano i veleni, tutti puntualmente ricordati e descritti nei loro effetti dalla Dandini. Alla scrittrice che ha segnalato il volto oscuro di splendide insospettabili piante, è stato dedicato in Inghilterra un ”giardino dei veleni” (il Potent Plants Garden di Torre Abbey a Torquay), ma Agatha aveva un suo personale innocuo Eden, Greenway House, il parco attorno alla sua villa di Torquay, del quale era un’attenta e tranquilla giardiniera, appassionata soprattutto alle dalie e alle loro varietà.

Di altri gratificanti Eden l’elemento naturalistico si rivela invece fattore più aggiuntivo e integrativo che portante. Caterina dei Medici, mandata in Francia nel 1533 a quattordici anni per sposare il futuro re Enrico di Valois, riesce a imporsi, in quell’ambiente a lei ostile e di usi ancora piuttosto rozzi, per la determinatezza del carattere e anche per le raffinatezze dell’eden culturale di cui è portatrice: gli splendori del Rinascimento italiano e l’elegante costume di vita fiorentino, cosi che a corte accanto agli architetti artisti medici alchimisti italiani non sfigurano i suoi cuochi e pasticcieri, che vi diffondono l’americano pomodoro e talune squisitezze dolciarie, e soprattutto vi trionfa il suo profumiere Renato, detto poi René le Florentin, che conquista l’aristocrazia francese con i suoi pomanders, gioielli a forma di pomi che in ogni spicchio portavano un profumo diverso, e che per la sua regina crea il profumo l’eau de la reine alla vaniglia, essenza tratta da una pianta della famiglia delle orchidee che allora fruttificava soltanto nelle foreste tropicali della costa orientale del Messico. Un destino vincente quello di Caterina, simile alla avvincente parabola nel ‘600 della regina Cristina di Svezia, pioniera del femminismo, donna colta e ribelle, discepola di Cartesio, refrattaria al matrimonio/subordinazione, libera nei suoi amori maschili e femminili, la quale preferisce vestirsi da maschio, galoppa per ore, è un’abile negoziatrice politica, ma soprattutto ama le arti e la filosofia. Dopo avere abdicato al trono e essersi convertita dal luteranesimo al cattolicesimo, viene a vivere in Italia a Roma, paradiso per lei della civiltà, dell’arte, della poesia e fa della sua sede, Palazzo Riario alle pendici del Gianicolo, una corte regale e un centro rigoglioso di cultura dove ogni mercoledi si incontravano quegli intellettuali che nel 1690, un anno dopo la sua morte, daranno vita all’Accademia dell’Arcadia. Cristina colleziona quadri, statue classiche, antichi manoscritti, libri, e cura di persona il giardino attorno al Palazzo, che inebria gli ospiti, con il profumo, fra gli altri, di più di trecento alberi di aranci e limoni e di duecento gelsomini bianchi e rosa. Un Eden naturalistico che completa il suo “eden intellettuale”, che annovera anche il teatro Tordinona, da lei fondato nel 1670, e soprattutto il diritto da lei ottenuto per le donne, attraverso una dispensa papale, di potersi esibire sul palcoscenico come musiciste, cantanti e attrici. Tragico invece è l’esito del percorso esistenziale del re di Baviera Ludwig, il cugino dalla fama di “matto” dell’imperatrice Sissi. Innamorato della musica sublime di Wagner e suo generoso mecenate, il re sognatore ha lasciato nei suoi castelli da favola, da lui stesso minutamente progettati, i segni del suo irrisolto groviglio interiore e del suo spirito visionario imprigionato -scrive la Dandini- in un ruolo ufficiale che gli andava stretto e da cui riusciva a evadere solo attraverso le passioni artistiche. Un esempio, il parco del castello di Linderhof suo rifugio/paradiso dagli obblighi ufficiali con aiuole lussureggianti, statue, fontane, padiglioni di stile orientale e la scenografica Venusgrotte, con un grande lago, ispirata al Tannhauser e al Lohengrin di Wagner.

Un caleidoscopio -come si vede- sono queste Cronache dal Paradiso di vite e di destini individuali, un viaggio attraverso i secoli e i continenti, un “periplo” insomma della precaria condizione umana alla perenne ricerca, fra scienza, arte e letteratura, di “senso”. Periplo in cui non mancano brevi svolazzi/flash anche su altri personaggi su cui qui si è sorvolato (Fabrizio De André, Tabucchi, Wanda Osiris…), e che si apre e si chiude, quale occasionale input iniziale e epilogo finale, come un minialbum di fotogrammi/ricordo sulla villa di campagna, i familiari e la vita stessa di Serena Dandini, che si dice pure lei appassionata (sebbene con alterne fortune giardiniere) di giardinaggio e di piante, soprattutto rose. Miniricordi privati, forse troppo mini per una penna di scrittrice, e più amari che dolci, elegiacamente intonati e attentamente selezionati, ma onestamente l’autrice ammette sin dalle pagine d’apertura che sul passato abbiamo un dominio assoluto e lo evochiamo come più ci va a genio, magari tagliando come in un film le parti più noiose… o più dolorose o deluse.

 

 

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