Due volti del Risorgimento in letteratura – centri di ricerca Università Cattolica del Sacro Cuore – nella bibliografia di approfondimento il libro “sui moti carbonari del 1820 ’21 in italia” di Giovanni Teresi

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Il Risorgimento è un periodo della storia italiana databile all’incirca tra il 1815 e il 1871. Il termine “risorgimento” sta a significare quel processo di profondo rinnovamento culturale, politico e sociale che caratterizzò la genesi, lo sviluppo e il compimento dell’unificazione politica dello Stato italiano. Il Congresso di Vienna (1814-1815) aveva riportato, dopo la parentesi napoleonica, l’Italia alla frammentazione in diversi Stati, di cui molti soggetti al dominio, diretto o indiretto, dell’Austria. L’aspirazione a un’Italia libera dalla dominazione straniera caratterizzò il mondo artistico italiano del 1800. Si debbono ricordare tra i numerosissimi sostenitori della causa patriottica almeno Manzoni, Berchet, Giusti e Verdi. Contro la dominazione straniera si formarono ben presto società segrete, che animarono la prima fase del Risorgimento. Tra queste assunse primario rilievo la Carboneria, nata originariamente nel Sud Italia e poi ramificatasi anche al Nord. Il termine “Carboneria” deriva da carbone, emblema della sofferenza e del lavoro. Simbolo carbonaro è anche la scala, immagine della lenta e faticosa ascensione verso gli ideali carbonari. Organizzata in “vendite”, raggruppamenti locali, la Carboneria si divise in due logge, una civile, finalizzata alla protesta, e una militare avente come scopo la sovversione. Furono carbonari uomini di spicco del Risorgimento italiano: Silvio Pellico, Piero Maroncelli, Ciro Menotti e il giovane Mazzini. La Carboneria organizzò sia i moti del 1821 nei regni delle Due Sicilie e di Sardegna, sia quelli del 1831 in Emilia Romagna e nelle Marche. Nel 1821, in Piemonte i moti ebbero inizio alla Cittadella di Alessandria, ove Santorre di Santarosa sventolò il tricolore. Il reggente al trono Carlo Alberto concesse la Costituzione, subito dopo ritirata dal re Carlo Felice al suo ritorno a Torino. Dal punto di vista politico, il pensiero risorgimentale non è sinteticamente compendiabile, siccome molti furono i pensatori e gli uomini politici che se ne fecero portatori. Giuseppe Mazzini fu fermamente convinto che lo Stato unitario italiano dovesse avere forma repubblicana e democratica. Affiliato alla Carboneria in giovane età, fondò in seguito la Giovane Italia e la Giovane Europa, associazioni rivoluzionarie di carattere repubblicano in cui confluirono la maggior parte dei carbonari. Al pensiero mazziniano s’ispirarono molte insurrezioni e alcuni rivoluzionari come Felice Orsini. Se si eccettua l’effimera esperienza della Repubblica romana e del suo triumvirato di governo formato da Mazzini, Armellini e Saffi, l’ideale repubblicano mazziniano non si realizzò mai compiutamente. Da ricordare anche il pensiero politico federalista del milanese Carlo Cattaneo, e quello neoguelfo di Vincenzo Gioberti e Antonio Rosmini. Da non trascurare anche la prospettiva di Cesare Balbo e Massimo D’Azeglio, favorevoli a un’Italia unita a guida piemontese e di casa Savoia. Nel 1848, durante quella che passò alla storia come “La Primavera dei Popoli“, scoppiarono più rivolte in Europa, tra cui quella del 22 marzo a Milano, che prese il nome di “Cinque Giornate di Milano“, e che portò a cacciare gli austriaci dalla città. Il 23 marzo 1848 ebbe inizio la Prima Guerra di Indipendenza italiana. Carlo Alberto di Savoia Carignano, re di Sardegna, Leopoldo II Granduca di Toscana e Pio IX dichiararono guerra all’Austria e giunsero fino a Milano. Dopo i primi successi militari, Carlo Alberto, abbandonato dagli alleati, perse i territori conquistati fino alla sconfitta definitiva di Novara nel 1849.
Di fondamentale importanza per l’Unità d’Italia fu il ruolo, il pensiero politico e l’intelligenza di Camillo Benso Conte di Cavour, uomo politico e primo ministro del Regno di Sardegna dal 1852 al 1859 e dal 1860 al 1861. La lungimiranza cavouriana consistette nel far riconoscere rilevanza internazionale alla “questione italiana”, dapprima partecipando al Congresso di Parigi dopo aver contribuito alla vittoriosa Guerra di Crimea (1853-1856), e poi attraverso un abile gioco diplomatico e politico. Grazie agli accordi segreti con Napoleone III, raggiunti durante un incontro a Plombières les Bains, si assicurò l’intervento della Francia in aiuto del Piemonte, qualora quest’ultimo fosse stato attaccato dall’Austria. Con notevole abilità politica riuscì nell’intento di far invadere il Piemonte dall’Austria, ricevendo l’aiuto di Napoleone III. Scoppiava così la Seconda Guerra di Indipendenza. Con le vittorie franco-piemontesi di Montebello, San Martino e Solferino del 1859, la Lombardia venne annessa al Piemonte. In seguito, con due plebisciti, Toscana ed Emilia Romagna si annetterono volontariamente al Piemonte.
Nel 1860, Giuseppe Garibaldi partì con la c.d. “Spedizione dei Mille” alla conquista del mezzogiorno d’Italia. Garibaldi conquistò il Regno delle Due Sicilie, per poi consegnare le sue conquiste a Vittorio Emanuele II nel famoso incontro di Teano. Vittorio Emanuele II venne proclamato Re d’Italia il 17 marzo del 1861, a Palazzo Madama a Torino, che diveniva prima capitale d’Italia. Cavour venne nominato Primo Ministro del neonato Stato italiano. Il Veneto veniva annesso all’Italia solo a seguito della Terza Guerra di Indipendenza del 1866, mentre Roma e lo Stato pontificio furono conquistati dai bersaglieri nel 1870. Roma divenne capitale dello Stato unitario nel 1871. Solo con la Prima Guerra Mondiale, da molti storici considerata la Quarta Guerradi Indipendenza, vennero conquistati il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia.
Silvio Pellico nacque il 25 giugno 1789 a Saluzzo, da Onorato, commerciante non fortunato negli affari, e da Margherita Tournier, savoiarda di Chambery. L’infanzia e l’adolescenza di Silvio Pellico non furono serene, a causa delle alterne fortune economiche della famiglia, costretta a peregrinazioni che la porteranno a vivere prima a Pinerolo e poi a Torino. Per un certo periodo Pellico visse poi a Lione presso un cugino della madre, che tentò invano di avviarlo al commercio. Nel 1809 rientrò in Italia e si trasferì a Milano, ove conobbe Ugo Foscolo, Pietro Borsieri e gli altri intellettuali che in seguito fecero parte della redazione del “Conciliatore“.
Nel 1813 Pellico compose la sua prima tragedia, Laodomia, lodata dal Foscolo. Il 18 agosto 1815 venne rappresentata a Milano la sua seconda tragedia, Francesca da Rimini, che ottenne un successo straordinario. Pellico trovò uno stabile impiego, come istitutore e segretario, a casa del conte Luigi Porro. Il 3 settembre 1818 uscì il primo numero del “Conciliatore“, di cui Pellico fu coordinatore: egli intervenne nella rivista con articoli di letteratura, teatro, religione. L’attività di Pellico per il “Conciliatore” ne fece il bersaglio della censura austriaca, che nel 1819 vietò la rappresentazione di una sua tragedia, l’Eufemio da Messina (pubblicata poi l’anno successivo). Nello stesso anno la polizia austriaca minacciò di proibirgli il soggiorno a Milano: il gruppo di intellettuali che si raccoglieva intorno al “Conciliatore” decise, per protesta, di sospendere le pubblicazioni della rivista. Il “Conciliatore” fu un punto nodale per gli intellettuali patrioti dell’epoca: la soppressione del periodico, il 17 ottobre 1819, segnò «la fine di un giornale, che, nella storia del Risorgimento, doveva restare come squillo di guerra».
Pellico, negli anni milanesi, divenne amico del musicista Piero Maroncelli, aderì alla Carboneria e ne divenne propagandista. Il 13 ottobre 1820 venne arrestato, in casa Porro, e condotto dapprima al carcere di Santa Margherita, poi ai “Piombi” di Venezia e, in seguito, allo Spielberg, carcere austriaco situato in Moravia.
Nell’agosto 1830, dopo dieci anni di prigionia, Pellico ottenne la grazia e rientrò a Torino, ove si era stabilita la sua famiglia; nello stesso anno, egli pubblicò le tragedie Ester d’Engaddi e Iginia D’Asti, composte durante gli anni trascorsi in carcere. Nel 1832, presso l’editore Bocca di Torino, furono pubblicate Le mie prigioni. Nello stesso anno, Pellico pubblicò altre tre tragedie: Leoniero da DertonaGismonda da Mendrisio ed Erodiade. Nel 1834 uscirono invece i Doveri degli uomini, trattato di morale rivolto ai giovani.
Dopo lunghi anni di vita molto appartata, Pellico morì a Torino, il 31 gennaio 1854.
La figura del Pellico ben rappresenta lo spirito dell’Italia ottocentesca. L’intera produzione letteraria di Pellico è, infatti, pervasa da un forte spirito patriottico: in particolare, l’opera Le mie prigioni ha contribuito a formare le coscienze degli italiani. Nel 1940, Federico Ravello scrisse che Le mie prigioni «più efficacemente di ogni altro libro, oltre le intenzioni stesse dell’autore, ha giovato alla santa causa del risorgimento nazionale». Il merito storico che deve essere riconosciuto a Pellico è aver, per primo, trovato una sintesi armoniosa tra cristianesimo e ideale risorgimentale, che funse da base per l’impegno cattolico nella formazione dello Stato unitario. Lo spirito patriottico emerge anche da numerose cantiche e poesie del Pellico, come I saluzzesi e La patria. Pellico, d’altronde, fu ben consapevole dell’influenza che un’opera può esercitare sulle generazioni future, poiché nel 1817 così scrisse al fratello Luigi: «I libri non sono l’espressione del secolo che li ha prodotti, è vero, ma essi agiscono sul secolo seguente».

I riferimenti sono tratti da Barbiera R., Silvio Pellico, p. 39; Ravello F., L’autografo delle «Mie prigioni» e la lingua del Pellico, in Giornale storico della letteratura italiana, 115, 1940, p. 44; Pellico S., Le mie prigioni ed altri scritti, p. XXXIX.

Le mie prigioni

Io amo appassionatamente la mia patria,

ma non odio alcun’altra nazione

(Silvio Pellico, Le mie prigioni, Cap. XCVIII)

 Nella prefazione alla biografia di Pellico, Raffaello Barbiera scrive: «offro queste pagine ai Giovani d’Italia, perché amino una delle più sante figure del Risorgimento, e perché apprendano la scienza più indispensabile: quella di saper soffrire». Ne Le mie prigioni Silvio Pellico non solo racconta la sua toccante esperienza in carcere, la disperazione, il regime del c.d. “carcere duro”, ma ripercorre altresì il suo percorso alla scoperta della fede cristiana. Come spiega nella premessa all’opera, le ragioni che lo spingono a raccontare la sua esperienza non sono certo «la vanità di parlar di sé», ma la volontà di «contribuire a confortare qualche infelice coll’esponimento de’ mali che patii» e di «invitare i cuori nobili a amare assai, a non odiare alcun mortale», oltre al desiderio di attestare che pur in mezzo a «lunghi tormenti» egli non trovò «l’umanità così iniqua, così indegna d’indulgenza, così scarsa d’egregie anime, come suol venire rappresentata». Nè, peraltro, Pellico affronta, se non indirettamente, il tema politico: «simile ad un amante maltrattato dalla sua bella e dignitosamente risoluto a tenerle il broncio, lascio la politica ov’ella sta, e parlo d’altro».
Silvio Pellico viene arrestato nel pomeriggio del 13 ottobre 1820 a casa del conte Luigi Porro, per il quale lavorava come segretario ed educatore dei due figli, ed è condotto alle carceri di Santa Margherita con l’accusa di Carboneria.
Sin dalla prima notte di carcere, nasce in Pellico una sempre più profonda fede cristiana: egli pensa ai propri cari, che sicuramente avrebbero sofferto alla notizia della sua cattura, ma che avrebbero saputo trovare in Dio la forza necessaria per superare lo sconforto. Pellico trova così la forza per affrontare la prima di un’infinita serie di notti in prigione, ripetendo tra sé: «sii cristiano! non ti scandalezzar più degli abusi! Non malignar più su qualche punto difficile della dottrina della Chiesa, giacché il punto principale è questo, ed è lucidissimo: ama Dio ed il prossimo». Ben presto Pellico trova conforto nella preghiera per affrontare le lunghe giornate in carcere («Non dimenticando che Dio è sempre vicino a noi, ch’egli è in noi, o piuttosto che noi siamo in esso, la solitudine perdeva ogni giorno più il suo orrore per me: “Non sono io in ottima compagnia?”, m’andava dicendo»).  Al carcere di Santa Margherita Pellico conosce un ragazzino sordomuto, che è solito sostare sotto la cella dello scrittore, e gli si affeziona moltissimo, nutrendo per costui un sentimento paterno. Incontra anche lo scrittore politico Melchiorre Gioia, che viene liberato dopo pochi mesi di carcere. Egli s’invaghisce poi di una detenuta, Maddalena, dotata di una voce soave e limpida che la distingue dalle sue compagne, e conosce anche uno strano personaggio che si spaccia per l’infelice Duca di Normandia, figlio di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Quando Pellico si trova a Milano, il padre gli fa visita due volte, e in quei frangenti lo scrittore si mostra più fiducioso di quanto sia in realtà, infondendo nel padre la speranza di un’imminente scarcerazione («Misere illusioni dell’amor paterno! Ei non poteva credere, ch’io fossi stato così temerario da espormi al rigore delle leggi, e la studiata ilarità con che gli parlai, lo persuase ch’io non avea sciagure a temere»).
Il 19 febbraio 1821 Silvio Pellico viene trasferito a Venezia: le prigioni di Venezia, collocate sotto il Palazzo Ducale, erano chiamate i “Piombi” perché coperte di piombo.
Durante questo periodo di detenzione, Pellico si affeziona molto ad Angelina, detta Zanze, la figlia dei carcerieri, che sovente si ferma a chiacchierare con lui, siccome si fida del detenuto e sente di poter parlare liberamente del suo amante. La presenza della ragazza allieta le giornate di Pellico e lo emoziona («Non me ne innamorai, unicamente perché ella aveva un amante, del quale era pazza. Guai a me, se fosse stato altrimenti! Ma se il sentimento che ella mi destò non fu quello che si chiama amore, confesso che alquanto s’avvicinava»). Pellico racconta anche di uno scambio di lettere intercorso con un certo Giuliano, che contesta la veridicità della sua fede.
Pellico descrive poi l’insopportabile calore della prigione e i mille insetti che lo tormentano, cui si affeziona col tempo, e che a malincuore abbandona quando viene trasferito in un’altra cella («io v’aveva quelle formiche, ch’io amava e nutriva con sollecitudine, se non fosse espressione ridicola, direi quasi paterna. Da pochi giorni quel caro ragno di cui parlai, era, non so per quale motivo, emigrato; ma io diceva: “Chi sa che non si ricordi di me e non ritorni?”»). Pellico vince inoltre, con difficoltà, una tremenda malattia, che lo rende insonne e che per un momento lo allontana dalla fede. Mentre è in attesa della sentenza, ai “Piombi”, Pellico culla l’idea del suicidio; poi pare accettare, con «altezza d’animo», la possibilità di essere giustiziato sul patibolo, e il suo pensiero dominante diviene allora quello di «morire cristianamente col debito coraggio». Tuttavia, egli s’interroga sull’effettività della sua fermezza, e conclude umilmente: «quell’altezza d’animo ch’io credea d’avere, quella pace, quell’indulgente affezione verso coloro che m’odiavano, quella gioia di poter sacrificare la mia vita alla volontà di Dio, le avrei io servate s’io fossi stato condotto al supplizio? Ahi! Che l’uomo è pieno di contraddizioni, e quando sembra essere più gagliardo e più santo, può cadere fra un istante in debolezza ed in colpa! Se allora io sarei morto degnamente, Dio solo il sa. Non mi stimo abbastanza da affermarlo».
Pellico viene successivamente trasferito al carcere di San Michele: qui, il 21 febbraio 1822, la Commissione speciale – formata da un presidente, un inquisitore e due giudici – emette a suo carico la condanna a morte, immediatamente commutata per volontà dell’Imperatore in quindici anni di reclusione in regime di carcere duro, pena da scontare nella fortezza dello Spielberg. Al momento della condanna, Pellico ostenta uno stato d’animo sereno, nonostante l’ira («Risposi: “Sia fatta la volontà di Dio!” E mia intenzione era veramente di ricevere da cristiano questo orrendo colpo, e non mostrare né nutrire risentimento contro chicchessia»). A San Michele Pellico ritrova i più cari amici: Canova, Rezia e soprattutto l’adorato amico Piero Maroncelli. Insieme a Maroncelli, Pellico assiste alla pubblica lettura della sentenza.
Pellico viene dunque trasferito da Venezia allo Spielberg, dove trascorrerà i successivi otto anni di prigionia. Così egli descrive il regime del carcere duro: «il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile». Ivi egli conosce Schiller, un anziano carceriere, apparentemente burbero, ma in realtà dall’animo sensibile e caritatevole, al quale si lega moltissimo, e Antonio Oroboni, recluso perché anch’egli affiliato alla Carboneria. Dapprima la morte dell’amico Oroboni, consunto dalla tisi, e poi dell’anziano Schiller, scuotono profondamente l’animo di Pellico. Allo Spielberg egli assiste, inoltre, con premura e sollecitudine, l’amico Maroncelli, cui viene amputata una gamba. In data 1 agosto 1830, dopo dieci anni di prigionia, di cui ben otto e mezzo vissuti in regime di carcere duro, Pellico e Maroncelli ottengono la grazia da parte dell’imperatore.
Dopo un tormentato viaggio, segnato anche da un’altra strana malattia, che impedisce a Pellico di respirare, il 17 settembre 1830 l’Autore giunge a Torino e può finalmente riabbracciare, con immensa gioia, i suoi cari («Renduto a que’ carissimi oggetti della mia tenerezza, io era, io sono il più invidiabile de’ mortali!»). Egli ringrazia dunque la Provvidenza per il destino che gli ha dato in sorte: «Delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoprare a fini degni di sé».
Come è stato osservato, lo spazio delle Mie prigioni è uno spazio chiuso, negativo, nel quale si ha una cancellazione della realtà: l’annullamento della realtà contribuisce in maniera determinante a quel processo di astrazione, necessario ad esaltare l’interiorità della vicenda di Pellico. Si assiste, perciò, nelle Mie prigioni, a «una semplificazione degli elementi figurativi, a una loro riduzione simbolica essenziale». Vi è, per esempio, un’elementare contrapposizione del bene e del male. Il male è la prigionia stessa, il caldo insopportabile dei Piombi, la fame patita duramente nello Spielberg. Il bene, invece, è l’universale – e inaspettata – cortesia degli uomini, è il coro di gentilezza e di bontà a cui s’adattano le voci di carcerieri, di ispettori e di commissari, di custodi e detenuti. All’autoritratto che Pellico fa di sé nell’opera, illuminato da una «mestizia dolce, piena di pace e di pensieri religiosi», proiettato verso una «perfetta costanza», fa da contraltare la registrazione degli affanni e dei turbamenti di un «povero cuore». È sempre presente la considerazione della propria debolezza, della fragilità di un’«indole niente affatto selvatica», fragilità che rende tormentosa la «solitudine continua».
Toccanti e commoventi sono le parole con cui l’Autore conclude l’ultimo dei dodici dei Capitoli aggiunti: «insomma, io molto scrivo; ma raro avviene che termini alcuno de’ miei lavori; e scrivo piuttosto per soddisfare a me stesso, che colla fiducia di poter produrre un libro di pregio. Talvolta prendo la penna e, non sapendo fare altro, scrivo la mia povera vita…».

I riferimenti sono tratti da Barbiera R., Silvio Pellico, cit., p.1 ss.; De Rienzo G., Introduzione a Le mie prigioni, Bur, Torino, 1982, p.15.

In nome dell’Imperatore è un romanzo di Fausta Garavini, che ripercorre la storia del Risorgimento dalla prospettiva di Antonio Salvotti, giudice trentino che, giovanissimo, ebbe a istruire i processi contro i più celebri carbonari e patrioti italiani, fra cui Confalonieri, Maroncelli e Pellico. Si tratta di un romanzo storico, che si attiene fedelmente alle fonti, frutto di ampie ricerche e basato su una precisa documentazione composta da atti processuali, corrispondenza del giudice, nonché di documenti, memoriali e pubblicazioni dell’epoca. L’Autrice narra la vita familiare e professionale del giudice. Nato a Mori, in Trentino, da un’importante famiglia borghese, venne avviato agli studi di legge presso l’Università bavarese di Landshut dove ebbe, come maestro, il grande giurista Savigny, fondatore della scuola storica tedesca. Conseguita la laurea, Salvotti si trasferì per la pratica legale a Milano«capitale moderna e viva del Regno Italico», «vibrante di energie, spumosa di sciccheria mondana e di bosinate», dove frequentò il bel mondo letterario e si associò alla massoneria, dalla quale poi si allontanò presto. Dopo aver brillantemente superato l’esame per l’esercizio dell’avvocatura, fece rientro a Trento, nel frattempo ritornata austriaca dopo la caduta di Napoleone, dove ricevette la notizia dell’inaspettata nomina a giudice di Tribunale che decise di accettare, anche per via del limitato ruolo che l’avvocato poteva svolgere ai sensi della procedura penale asburgica. Condotti con successo vari procedimenti penali, venne incaricato di prendere parte, prima a Venezia e poi a Milano, della Commissione Speciale istituita per l’inquisizione dei Carbonari. Nella città lagunare conobbe Anna Fratnich, detta Nanni, affascinante pittrice e talentuosa pianista, bella, colta, figlia del presidente dell’Appello generale di Venezia, che sposò di lì a pochi mesi. Tra i patrioti che sottopose a inquisizione in diversi processi vi sono Villa, Foresti, Maroncelli, Pellico, e Confalonieri, condannati per essere cospiratori anti-austriaci e colpevoli di alto tradimento. Costoro vennero condannati a morte, pena subito commutata dall’Imperatore in detenzione in regime di carcere duro. Molti fra i condannati riconobbero apertamente l’umanità di Salvotti e la sua imparzialità. Salvotti non fu certo il perfido inquisitore che parte della storiografia ha descritto. Geniale e meticoloso nel suo lavoro, non cedette mai a certezze apodittiche, ricercò la verità processuale con scrupolo e dedizione. La figura di Salvotti si caratterizza anche per il tratto gentile e umano nei confronti dei prigionieri e dei condannati.
Oltre all’esperienza di inquisitore presso la Commissione speciale, altro evento cruciale nell’esistenza del Salvotti fu l’incontro con l’Imperatore Francesco II: in tale occasione, il giudice espose le riflessioni politico-criminali a cui era giunto nel corso dell’inquisizione: «Ecco, l’idea dell’indipendenza non si può vincere con le pene. Si può isolarla facendo cessare le cause che la producono … e una volta isolata potrà magari accendere qualche mente giovanile o visionaria, ma non potrà mai diventar popolare […] Una delle cause per cui quest’idea si è sviluppata, e col tempo potrebbe dilagare, consiste in un sistema amministrativo e giudiziario non confacente al carattere degli abitanti del Regno, e contrasta con le loro ultime consuetudini… L’unificazione della legislazione e soprattutto dei metodi di procedura con quelli dell’Austria, non può essere accettata in Italia. La procedura segreta non si adatta a un popolo già abituato alla pubblicità dei dibattimenti… forma che d’altra parte consente alla naturale facondia degli italiani di dispiegarsi in una lingua di cui vanno giustamente orgogliosi. Si potrebbe cambiare in questo senso la legislazione, con un effetto benefico sullo spirito pubblico […]». Salvotti effettivamente, diversi anni dopo, riuscì a fare introdurre la pubblicità dei dibattimenti nella legislazione austriaca. L’importanza di tale riforma venne messa in luce in occasione del discorso per l’inaugurazione dell’Imperial Regia Corte Superiore di Giustizia, in qualità di presidente dell’Appello di Trento: «anche queste forme di pubblicità hanno i loro difetti.  Ma che sono mai i danni possibili della pubblicità a confronto dei vantaggi che ne derivano? Solo la pubblicità fa tacere la calunnia e la diffamazione, mentre, avvolta nel segreto, la più retta giustizia non può difendersi». In tale circostanza sottolinea, inoltre, quale dovrebbe essere il compito del magistrato: «un giudice non deve cercare gli encomi fuggevoli, ma affrontare anche il biasimo a cui può esporlo in momenti di agitazione l’esatta esecuzione del compito che gli è affidato, e consultare soltanto la legge che ha giurato di difendere e la propria coscienza».
Quanto alla dimensione personale dell’esistenza del Salvotti, l’Autrice tratteggia il ritratto di un uomo che «ha una natura tendente al malinconico, non smania di vivere ma ubbidisce fervorosamente alla vita, aspira a fare della sua esistenza una costruzione coerente». Due gravi e dolorosi drammi familiari colpirono la sua vita privata. Prima l’amata moglie Nanni si ammalò di cancro al seno. Inutili furono gli sforzi del marito che si rivolse ai medici più rinomati dell’epoca e ricorse persino alle cure omeopatiche: dopo due anni di atroci sofferenze Anna morì, lasciandolo vedovo con due bambini, Giovannino e Scipio. Una volta adulti Giovannino, il figlio minore, venne destinato ad amministrare le proprietà di famiglia, mentre Scipio agli studi di medicina. E fu proprio quest’ultimo che venne arrestato per aver fondato, insieme a due altri giovani, una società segreta, il Santo Sinodo, finalizzata a rendere l’Italia una repubblica indipendente. Riconosciuto colpevole di alto tradimento «fu condannato secondo il codice alla pena capitale, commutata subito in dodici anni di carcere: era emerso chiaramente durante il processo che era solo una ragazzata, una cospirazione puerile. La condanna naturalmente fece scandalo, trattandosi del figlio del consigliere Salvotti, fedele a quella stessa monarchia ai cui danni il giovane aveva cospirato. Il padre non volle servirsi della sua posizione e del suo prestigio per chiedere la grazia sovrana: il magistrato dell’Austria doveva per primo inchinasi alla legge. S’inchinò, e patì le pene dell’inferno. Si limitò a intervenire perché a Scipio fosse fornito il necessario e dove possibile il superfluo, senza badare a spese, per alleviargli lo squallore e le ore monotone del carcere». Successivamente, dopo quindici mesi, Scipio venne graziato, scarcerato e confinato, con l’obbligo di chiedere il permesso all’Imperatore per rientrare negli Stati austriaci. Il figlio si rifiutò di rientrare in famiglia e quell’arresto fu solo il preludio di una vita dedicata alla causa irredentista. Anche in un momento così tragico della sua esistenza, non venne meno la fede di Salvotti nella legge e il suo senso del dovere, che lo accompagnarono nella vita personale e professionale.
Dalle pagine del romanzo emerge che Salvotti non fu quindi un “anti-italiano”, servì l’Austria e il suo Imperatore nell’incrollabile fiducia che la dominazione austriaca fosse la miglior forma di governo per l’Italia. Salvotti non fu uomo insensibile ai movimenti risorgimentali, siccome cercò di comprenderne i motivi, come dimostra la sua opinione riguardo alla procedura penale austriaca. Il ritratto che il romanzo dipinge è dunque quello di un giurista acuto e scrupoloso, capace di sottili riflessioni politico-criminali e di un giudice rigoroso, ma al contempo compassionevole. Salvotti fu sì al servizio dell’Imperatore, ma fu animato dall’incessante anelito a cercare di comprendere l’effettiva portata della condotta di ciascun arrestato nelle trame carbonare, di non generalizzare, come questa testimonianza di Tullio Dandolo dimostra con efficacia: «dopo questo interrogatorio nel quale non tacqui né le mie antipatie tedesche, né le mie aspirazioni italiane, Salvotti mi accomiatò dicendomi “torni pure tranquillo a casa. La legge non punisce i sentimenti degli uomini onesti” e mi strinse la mano». Il romanzo mette in luce il faticoso lavoro quotidiano del giudice, chiamato a una complessa opera di sussunzione, assillato dai dubbi che ne conseguono. Salvotti, pur gravato dal peso dei dubbi che giorno dopo giorno costellano la sua opera di inquisitore, fece della riflessione e della profondità di giudizio la sua cifra professionale ed esistenziale. «Salvotti esitava. Il materiale raccolto nel processo non era sufficiente a offrire il quadro completo dell’arruffato organismo settario della penisola, tuttavia non lasciava dubbi sull’ostilità della Carboneria al governo austriaco. Mancava però un corpo di delitto materiale e stabile, tutto si riduceva al modo in cui si parlava della società e la si diffondeva». Quando venne chiamato a Vienna a far parte delle commissioni di riforma delle leggi combatté le idee retrograde di certi colleghi: si devono a lui non solo la pubblicizzazione della discussione nei procedimenti penali, ma anche la la previsione della nomina di un difensore per l’imputato.
Il romanzo di Fausta Garavini è un importantissimo strumento di comprensione, perché, aiutando a conoscere Salvotti e il suo pensiero, permette di non cadere nella logica di una banale contrapposizione tra bene e male, giustizia e ingiustizia. L’impero austroungarico e i suoi sudditi non sono il nemico spersonalizzato e incapace di pensiero e di umanità. Salvotti fu portatore di un ideale, certamente nobile anche se opposto a quello patriottico. Questo incontro di visioni storiche, politiche e giuridiche educa alla complessità del reale, al di là dei paradigmi semplificatori dentro i quali l’esperienza del diritto spesso si rinchiude.

 

Bibliografia di base:

Pellico S., Le mie prigioni, Bocca, Torino, 1832 (sono disponibili numerose edizioni anche commentate dell’opera)
Garavini F., In nome dell’imperatore, Cierre, Sommacampagna, 2008
Ara A., Due lettere quarantottesche di Antonio Salvotti, TEMI, Trento, 1980
Bellini E., Manzoni e Pellico, in Aa.Vv., Manzoni tra due secoli, Vita e Pensiero, Milano, 1986
Bellini E., Pellico, Foscolo e la ‘donna gentile’, in Aevum, 1997, pp. 769 ss.
Bellorini E., Intorno ad alcune lettere di Silvio Pellico, Fratelli Isoardi, Cuneo, 1902
Bellorini E., Silvio Pellico, Principato, Messina, 1916
Branca V., Prefazione al «Conciliatore», Le Monnier, Firenze, 1954
Contilli C. (a cura di), Silvio Pellico. Lettere agli ex compagni di carcere, Lulu Enterprises, Londra, 2009
Forti G., L’unità lacerata. Il prezzo dell’illegalità e della corruzione, in Appunti di cultura e politica, 5, 2012, pp. 13 ss.
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Suggerimenti filmografici:

Il consigliere imperiale, 1974, Italia, regia di Sandro Bolchi
Le mie prigioni,1968, Italia, regia di Sandro Bolchi

 

Giovanni Teresi

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