Elite e Distinzione/ 53 - Marco Vannini

Dovendo parlare di dignità, è bene parlarne per così dire nel suo grado più alto, nella persuasione, come dice Platone nella Repubblica, che le cose si vedono meglio quando sono più grandi, e che da esse sia poi più facile comprenderne anche il grado più piccolo. Ho scelto perciò il termine nobiltà, nel suo senso morale, spirituale, che è quello appunto che Aristotele indica col termine megalopsichia (alla lettera: anima grande, reso in latino e poi italiano con magnanimità). Nobiltà è una parola ormai desueta, perchè il nostro mondo è pervaso dal mito dell’uguaglianza. Ormai persuaso che la democrazia sia un valore assoluto - peraltro senza averci pensato, e senza sapere che si tratta in realtà della forma di governo peggiore di tutte le altre, ad eccezione della tirranide (noi diremmo la dittatura) e che il Totalitarismo democratico è è la forma peggiore di totalitarismo, nel quale il cittadino è ridotto a una marionetta nelle mani dei veri poteri, che sono quelli forti ma occulti dei detentori dei media - considera cosa riprorevole la aristocrazia. E, non a caso, insieme a nobiltà è pressocchè scomparsa la parola virtù, che ha nella sua origine greca (aretè) la radice stessa di eccellenza, nobiltà (aristeia). La cosa curiosa è che l’egocentrismo, individualismo dell’uomo democratico, descritto una volta per tutte nella Repubblica di Platone, il mito del successo ad ogni costo in cui la società democratica vive, spinge alla ricerca sfrenata del primato della superiorità, ma solo nell’ambito economico, del potere, del prestigio sociale, appunto, e per nulla affatto in quello morale, spirituale, ove, anzi, è considerato riprorevole addirittura pensarla, nonché sostenerla e attribuirsela.

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