Gabriella Maggio, “Echi” (Ed. Il Convivio) – di Guglielmo Peralta

In questa silloge di Gabriella Maggio, “Echi”, a tendere bene l’orecchio educato alla visione, è possibile cogliere quei suoni impercettibili emergenti dalle profonde e brulicanti acque della vita,  discontinui, inframmezzati da intervalli e che richiamano le intermittenze del cuore proustiane. Eventi consegnati alla memoria tornano a lievitare, a fluire in questo nostro tempo senza certezze e senza un futuro promettente. Sì che la vita è un “viaggio” in un mare di “dubbi”, dove si teme il “naufragio” essendo difficile orientare il cammino nel mondo che sembra ormai al tramonto. È questa precarietà esistenziale a risvegliare ricordi che la nostra poetessa traduce in “parole (che) ristorano l’aridità  della giornata”. Sono brevi ‘ristori’, momenti di rottura di una quotidianità spesso insostenibile e, dunque, richiami dell’infanzia e dell’adolescenza: eventi, cose o persone che balenano, all’improvviso, “nella luce intermittente dei lampi”, oppure emergono dall’ombra sotto la vigile coscienza per trasformarsi da impalpabile ‘materia’, resa tale dal sogno, in canto gravido di gioie passate e di rinnovata bellezza che ridà alla Maggio fiducia ed entusiasmo; che le consente di capire e analizzare le incrinature, i disorientamenti, le contraddizioni, le disillusioni inevitabili della vita; di trovare in sé stessa la forza di r-esistere ponendo mente e cuore nel modellare il presente sul valore sacro del tempo, conferendogli identità poetica. I 34 testi che compongono la silloge sono un continuum di passato e presente, in cui il vissuto ha una profonda risonanza nella vita attuale della Maggio e le offre la chiave per comprendere meglio la propria condizione esistenziale. Gli echi del passato, tradotti in evento poetico, narrano di un tempo vuoto di preoccupazioni e di angosce che, commisurato “alle cifre del mortorio / all’incomprensibile sfacelo” del mondo, ha il suo amaro e nostalgico contraltare nella cognizione del dolore universale. È la natura con la sua infinita bellezza, nonostante essa sia continuamente violentata, nonostante “la luce del sole” sia oscurata dal “verso lamentoso” dei “gabbiani”, che, al posto del gallo, annunciano il nuovo giorno non scevro di paure e difficoltà da affrontare, a concedere pause di riflessione e di speranza, aspettative migliori “tra presagi di tempesta” che cancellano ogni “traccia d’innocenza nelle lacune del tempo”. Gli “echi”, allora, sono la «durata», la ‘memoria’ bergsoniana che dà senso all’attesa, la quale, anche se “logora la soglia dell’anima”, fa sorgere dagli strati profondi dell’interiorità la luce e il calore che infondono sicurezza, rinnovano la ricerca di conoscenza e la gioia di vivere poeticamente, di «esserci» per la grazia di una parola, di un verso in cui racchiudere l’intera esistenza senza nulla sottrarre, dividere, moltiplicare, ma piuttosto addizionando tutto. Ed è, questo, il miracolo del Linguaggio che, in quanto è la dimora dell’essere - come insegna Heidegger - consente di ascoltarsi “da lontano”, nella “voce calma dal vuoto del tempo”, nelle “fiabe dell’infanzia”, e ritrovarsi. Dal ‘sottosuolo’, i ricordi emergono simili ai “frammenti” di un’antica città, che oppongono “la loro forza tenace / contro la strage del tempo / e ora rivestiti con pietà dal sole”. Allo stesso modo, gli “echi” sono lacerti di memoria in cui si sono depositati sogni, illusioni, esperienze spirituali e perciò costituiscono lo scudo contro gli assalti del presente; il vero valore e l’antidoto contro le contraddizioni, le falsità, i veleni della deriva sociale, culturale, morale; le certezze contro “l’azzardo dell’ignoto”, e, dunque, la possibilità di una nuova conoscenza. Ma l’imponderabile che è dietro le apparenze e che nel vuoto della quotidianità sollecita all’ascolto, ha il volto ‘anfibio’ del nulla che, nella familiarità del vissuto, tutto elargisce e tutto trattiene dissolvendo nella concretezza della realtà le identità individuali e di ogni cosa. La poesia, allora, è il balzo all’indietro e il salto di qualità, che può fare salva un’esistenza, perché nella sua rinnovata promessa del ‘ritorno’ c’è l’attesa fiduciosa di un futuro noto, “un’altra occasione di vita”. La scrittura, il linguaggio poetico traccia il cammino nell’oscurità profonda con i versi luminosi indicando e indagando «sulla vera natura delle cose». Qui trova riscontro e ‘applicazione’ l’alto principio dell’epicureismo ripreso da Lucrezio nel suo poema, e cioè che la poesia, in quanto veicolo di bellezza, può essere il mezzo più idoneo al raggiungimento della felicità, e perciò non può essere solo per pochi eletti ma deve avere la massima diffusione. In “Alma Poësis”, testo che illumina tutta la raccolta, questa visione è abbastanza chiara, ed è l’aspetto fondamentale della  poetica della Maggio. La poesia è per lei “Respiro della vita stessa / magica iridescenza /arca per il prossimo diluvio”. Perché essa è l’origine di tutto, è l’alma mater: “nutrice di passioni e di sdegni”, cioè, di risentimenti verso ciò che è moralmente ignobile, che mortifica la bellezza. La sua scrittura è l’“albero della vita” che i poeti coltivano affinché gli uomini ne colgano i frutti e vi contemplino il Giardino perduto e sognino di ‘ritornare’. E se “restano dolenti  / e spesso muti / gli strumenti della scrittura”, se l’oscurità non lascia filtrare la luce, sempre bisogna oboedire, ascoltare la voce che nel silenzio e in lontananza chiama, “sussurra”, si fa eco dell’anima e òikos: casa dell’essere e  linguaggio, florilegio di ricordi, di “echi”: “fiori” della ‘bella stagione’, da cogliere “di là dal muro” e da coltivare nel nuovo giardino “nella primavera della speranza”.

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