“Giovan Battista Naselli, un siciliano nell’oblio” – di Ciro Lomonte

Nel 2021 è stato pubblicato “Giovan Battista Naselli, Arcivescovo di Palermo fra Regno delle Due Sicilie e Unità d’Italia”, un saggio di Nicolò Lentini basato su accurate ricerche d’archivio.

Il Naselli (1786-1870) apparteneva alla nobile famiglia dei Naselli-Montaperto, duchi di Gela e Ficarazzi e di S. Caterina. Nonostante fosse destinato alla carriera militare, rispose alla vocazione divina nell’oratorio dei Padri di S. Filippo Neri a Palermo. Nel 1851 Pio IX lo elevò alla dignità episcopale, affidandogli la neonata diocesi di Noto. Dopo soli due anni fu chiamato a guidare l’arcidiocesi di Palermo, per la quale si prodigò fino alla morte, avvenuta nel 1870.

La vita del Naselli coincise con anni particolarmente difficili per la Sicilia: la nuova costituzione siciliana (1812), la cui concessione venne poi ritirata dai Borbone; la soppressione del Regno di Sicilia (1816), seguita dalle numerose rivoluzioni con cui i siciliani rivendicarono i propri diritti, in particolare quella del 1848, che ripristinò il Regno di Sicilia per più di un anno; l’annessione al Regno d’Italia (1861); le leggi eversive (1866).

Se guardiamo all’architettura quelli furono anni di desolante grigiore. Il nuovo secolo inizia con la brutale trasformazione della meravigliosa Cattedrale di Palermo in un algido involucro neoclassico. Bisognerà superare i primi tre quarti dell’Ottocento per vedere operare Giuseppe Damiani Almeyda e Giovanni Battista Filippo Basile. Ma l’architettura non è in sé motore di sviluppo né tanto meno strumento salvifico, come non lo è l’arte in generale. È la punta dell’iceberg, manifesta lo stato di salute e la ricchezza di una civiltà. Erano Palermo e la Sicilia, a quell’epoca, ad essere grigie. Cosa determinò il declino di una terra sino ad allora estremamente prospera? L’instabilità politica? Una povertà nuova, causata da cosa?

Fra l’altro le leggi eversive, con la soppressione degli ordini religiosi e la svendita dei loro beni, tolsero una fonte di lavoro a moltissime famiglie. Non è un caso che proprio allora Giacomo Cusmano abbandonò la professione di medico, fu ordinato sacerdote e fondò il Boccone del Povero, con il sostegno convinto dell’Arcivescovo Naselli, impegnato in prima persona nell’assistenza dei poveri.

Quelle leggi, con la disoccupazione dilagante, l’aumento dei prezzi, la leva obbligatoria, il licenziamento degli impiegati siciliani, fecero esplodere nel settembre 1866 la sommossa del “sette e mezzo” (dalla durata in giorni della rivolta). La ribellione venne piegata in modo spietato con l’invio di ingenti forze militari. Il gen. Raffaele Cadorna inviò una sgradevole lettera insolente a mons. Naselli, accusandolo di avere provocato l’insurrezione. L’Arcivescovo rispose con una lettera ben argomentata al Presidente del Consiglio dei Ministri, dimostrando di avere sempre rispettato le istituzioni del nuovo Regno. In questo modo risparmiò alla capitale siciliana una punizione esemplare ed ingiusta, quella che toccò alla Messina del 1908, molto più ad opera dell’esercito italiano che a causa del terremoto.

Forse è questo il motivo per cui sulla figura del Naselli, benché molto amato dai palermitani, calò dopo la morte una coltre di silenzio. Troppo filogovernativo agli occhi della Santa Sede, troppo attento a difendere i diritti del popolo e del clero dal punto di vista del Governo Italiano. Non è che non fosse un abile politico, ci dice Nicolò Lentini, era fondamentalmente un pastore di anime, vissuto in un’epoca di enorme sofferenza.

 

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