Giuseppe Pappalardo "Çiuri di notti" (Ed. Thule)

di Anna Maria Bonfiglio
 
Nel mare magnum delle tante scritture poetiche dialettali, nel marasma delle varie “correnti” che legittimano questo o quel metodo di trascrizione, fonetica, letteraria o ibrida, Giuseppe Pappalardo si è ritagliato un suo spazio, una nicchia dove si colloca con un suo personale modus scrivendi, elaborando da studi e letture lo “stile” che connota la sua nuova raccolta poetica.
“Ciuri di notti”, edita da Fondazione Thule Cultura con la cura e l’attenzione che sempre distingue l’editoria a direzione del Prof. Tommaso Romano, contiene trentasei testi suddivisi in quattro sezioni e un’appendice, declinati ora in sonetti ora in strutture libere, ma sempre accomunati da una forte carica lirica e da sinceri accenti sentimentali.
Accostandosi alla lettura di questo volumetto risulta inevitabile rammemorarsi di quei “Ciuri di strata” del catanese Francesco Guglielmino; e non soltanto per l’assonanza fra i due titoli, bensì per l’animus che pervade la poesia dei due autori, partitura di lirica delicatezza e di misurata emotività scaturita da due personalità artistiche di formazione culturale, se non opposta, ampiamente diversa: di stampo classico, quella del grecista Guglielmino; di matrice scientifica, quella del Pappalardo. Se nel primo prevale il richiamo alla corrente del romanticismo, nel secondo vivono le tensioni etico-emotive dell’ultimo scorcio del secolo appena trascorso: la solitudine, l’indifferenza, il rifiuto dell’altro visto come “diverso”, la nostalgia per ciò che il tempo cancella.
“Ciuri di notti” si apre con nove testi in cui prevale il tema dell’oscurità (notte, ombra, stelle, luna), declinato tanto nell’accezione di segno negativo («nìvura notti/ mentri affannatu arriva/ un trenu di nnuccenti…») quanto in quella opposta («Ma quannu stenni l’ali/ mmizzigghiusa/ la notti,/ ddu celu stiddi stiddi,/ddu silenziu,/ mi sciògghinu li cordi di lu sènziu,/ e li pinzeri…»), e che si compie in pienezza nella poesia Pinzeri: «La luna stasira/ mi fa cumpagnia/ e lu silenziu/ di li stiddi ncelu;/ un cantu luntanu/ m’accùccia e quadìa/ un mutu ricordu/ di lacrimi un velu»; della quale va sottolineata la struttura sintattica invertita che dà liquidità al dettato poetico, assegnando alla notte, rischiarata dalla luce lunare, valore di quieta contemplazione.
Andando avanti leggiamo testi che vanno oltre il carattere umbratile della prima sezione e che raccontano di fìmmini e òmini, di realtà amare, ma anche di valori e tradizioni che si sono perduti nel tempo, e della forza di coloro che hanno saputo opporsi alla legge del più forte. Non mancano quelle che vengono generalmente definite “poesie d’occasione”, testi dedicati alle festività religiose, ai luoghi dell’anima, agli affetti, sempre coniugati con compostezza formale e scelte lessicali adeguate. La parte della raccolta che più “mi ha parlato” è quella in cui, parafrasando Baudelaire, “il poeta si mette a nudo”, e cioè Parrannu di mia, che si apre con la poesia Si fussi un picciriddu, in cui il poeta mette a confronto le due stagioni opposte della vita, l’infanzia e la vecchiaia. Torna alla sua memoria la stagione dei giochi che egli rivive con occhi ancora incantati ma, subito dopo, spalancati verso il proprio presente in cui già avverte il “tocco cupo della campana”. Tre tempi “umani” scandiscono le parti del testo: quello sedimentato nella memoria del passato, quello del presente vissuto come metafora della fine, quello della consolazione per il lascito di affetti.
Nel fisiologico impoverimento emotivo di un’età non più giovane, il poeta cerca una via di scampo affidandosi al sogno e, immaginando un ritorno delle emozioni vissute, invera il desiderio di ritrovare l’animus giovanile attraverso l’evocazione di una sorta di Eden dove convivano tutti gli elementi portatori di gioia e di serenità. Nella poesia Si spuntassi l’amuri questo desiderio viene chiamato in causa con tutto il suo potere totalizzante, metaforizzato dal sole che nasce, dalla spuma del mare, dai colori dell’arcobaleno, per risolversi infine in caduta verticale nella realtà. La tensione vitale attraversa tutta la raccolta, talvolta espressa in tono sommesso e malinconico, talaltra sostenuta da una fondamentale fede di vita.
A questa raccolta Giuseppe Pappalardo affida in qualche modo il compito di far transitare un messaggio di reviviscenza dell’uso dialettale nella poesia, come in svariate occasioni egli stesso ha dichiarato. Preso atto dell’impossibilità di costituire e praticare una koinè del linguaggio, sceglie la “sua” scrittura affidandosi a una trascrizione ortografica complessa, in certo qual modo “fonetica” (laddove il raddoppio delle consonanti è finalizzato al suono che ne produce) e sovrabbondante di segni diacritici. Azzardando, si potrebbe sostenere che egli abbia messo insieme tutte le lezioni dei grandi poeti dialettali siciliani e ne abbia fatto nascere un suo proprio codice espressivo.
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