Hanya Yanagihara, "Una vita come tante" (Ed. Sellerio) - di Giuseppe La Russa

Si è trattato di uno dei casi editoriali più discussi degli ultimi anni, uno tra i libri più letti, commentati, tra quelli che hanno suscitato opinioni molteplici, spesso profondamente divergenti tra di loro. Tanto si è scritto dei personaggi narrati, della figura del protagonista, della crudezza che ne viene fuori: fatto sta che il libro di Hanya Yanagihara, Una vita come tante, difficilmente ha lasciato totalmente indifferenti.

Di che tipo di lettura si tratta? Dopo più di mille pagine, con la percezione di avere tra le mani un romanzo ottocentesco, le sensazioni sono varie e nella stesura di una possibile recensione le passioni suscitate prevalgono su un ragionamento o affondo critico sull’opera stessa: sì, perché se c’è una cosa che rimane dopo questa imponente lettura è un rapporto quasi intimistico con la storia narrata, con ognuno dei personaggi e non solo con Jude, il fragile protagonista della vicenda. Che poi, è forse sbagliato parlare di un unico protagonista, considerato l’affondo umano che la scrittrice compie su ognuno dei suoi personaggi, fino ad entrare nei pensieri più intimi, fino a sviscerarne gli orizzonti più nascosti.

Ma come detto prima, ogni tentativo di analisi critica e strutturale dell’opera, in un libro come questo, deve quasi necessariamente lasciare spazio ad un affondo emozionale, ad una lotta tutta personale di fronte ad una vicenda esistenziale che può apparire talmente irreale, per la sua crudezza sterminata, da recepirla come vera per il bisogno di bene e di umanità che riesce a sprigionare; non esiste capitolo, pagina addirittura, in cui il lettore non sia portato a dubitare della possibile consistenza dei fatti (è vero, la lettura si basa su questo tacito accordo tra autore e fruitore), in cui non sia quasi portato a terminare anticipatamente la lettura per una storia troppo cruda per non risultare fittizia. Eppure la sensazione, pagina dopo pagina, è che di quei personaggi non se ne può fare a meno, che la loro umanità mantiene una fermezza e una costanza narrativa che corrono integre per le pagine del libro, che l’anima di Jude è e può essere la nostra ogni volta che sentiamo di negare la vita, così come lo sentiamo vicino ogni volta che un’alba ci coglie alla sprovvista e ci rende urgente il cuore. Le parole di Willem, amico storico di Jude, personaggio chiave del romanzo, sono quelle che più, forse, sintetizzano il cuore della vicenda: «Lui non vuole che tu lo ammiri; vuole che tu lo veda per la persona che è. Vuole sentirsi dire che la sua vita, per quanto inconcepibile possa apparire, rimane una vita».

Come si può concepire, nel senso etimologico di prendere in sé, accogliere come fa una madre nel proprio grembo, una vita tanto cruda, una storia tanto grande, un dolore così sterminato? Ma quella di Jude non è, ci avverte già l’autrice nel titolo, una vita straordinaria, ma una come tante, come la mia, tua, nostra quotidianità: come il nostro attraversare una strada ogni giorno per andare al lavoro; come il nostro voltarci indietro a guardare gli anni passati quando, alle soglie della pensione, quel lavoro occorre abbandonarlo; come quel lutto che morde il cuore e che resta sopito e quindi indecifrabile agli occhi dei più; come quella sensazione di vuoto a cui non si riesce a dare un nome ma che scardina, ogni giorno, la apparente serenità di una vita felice per chi osserva il nostro incedere quotidiano.

Perché ogni nostra vita è una vita come tante, silenziosa, irreale, inconcepibile, eppure concreta, vera, tangibile. Jude e i suoi dolori sono l’immagine, portata alle estreme conseguenze, carnale e viscerale, di ogni nostro trasporto quotidiano, del peso di un sorriso nella moltitudine, dell’amarezza della solitudine provata nella folla di ogni giorno; così come i suoi amici, la loro vicinanza, il loro esserci in ogni istante sono i bagliori delle nostre esistenze, la carezza di una mano che non ci aspettavamo, un cuore che sente di fiorire quotidianamente.

La sua, è vero, è una storia da non crederci, falsa, immateriale, eterea, immorale, fuori ogni logica, eppure vivida, degna di farci lacrimare, di farci sperare, innamorare; dai contorni così labili da rappresentare prepotentemente il nostro vissuto. Perché nessun lettore può e potrà mai essere vicino a Jude, nessun lettore potrà mai concepire una vita così assurda, ma nel sorriso del protagonista in mezzo alla folla, nel suo tentativo di “normalità” c’è tutto il peso e il bello delle nostre albe, piene di dolore, di vuoto o di luce, di ombre o di amore, di negazione o grido alla vita; perché nel suo sguardo c’è un po’ la nostra lotta giornaliera, di chi si alza semplicemente per andare a scuola, al lavoro, in una fredda giornata di inverno a vivere la sua vita straordinaria, assurda, irreale, forse immorale, unica e talmente irripetibile da essere, in fondo, una vita come tante.

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