“Il cuore dell’insegnamento morale di Karol Wojtyła* di Daniele Fazio

Premessa
Il tema dell’insegnamento morale di Papa Giovanni Paolo II è straordinariamente vasto. Ciò mi ha spinto a ricercare per questo piccolo scritto un taglio che potesse, in qualche modo, restituire la radice e lo specifico delle intuizioni etiche del Papa polacco. Meditando sulla questione e cercando di andare alla radice del suo pensiero morale non si può non ricordare la riflessione pluridecennale che il docente di etica Karol Wojtyła andava svolgendo non solo nelle Università polacche, caratterizzandosi principalmente come un filosofo contemporaneo e specificamente come un filosofo morale. Evidentemente ciò deve tenere pure in conto non solo la radice generale della sua etica, ma anche – come detto – lo specifico delle sue intuizioni. Ciò non può che essere individuato – nota che sarà persistente anche nel suo magistero – nella riflessione sulla persona e sull’amore e da qui sulla teologia e del corpo e sull’amore coniugale e la famiglia.
Bisogna dunque trovare un luogo importante e si sintesi al tempo stesso dell’ottica wojtiliana , che riesca in qualche modo a far sintesi anche dei suoi principali scritti filosofici, ossia Amore e Responsabilità (1960) e Persona e Atto (1969). Ho rintracciato tale luogo privilegiato né in uno scritto filosofico, né in un teologico, né tantomeno in un testo magisteriale, bensì in una sua opera drammaturgica – non si dimentichi che Wojtyła che ha saputo incarnare la figura del poeta, del filosofo e del teologo – tra le più riuscite La Bottega dell’Orefice. Dunque, la presentazione dei capisaldi dell’insegnamento morale di San Giovanni Paolo II – tenuto conto dei nuclei fondanti e specifici – verte su una riflessione intorno e a partire da La Bottega dell’Orefice, che diventerà una sorta di sintesi dell’etica di Wojtyła a partire dal suo cuore pulsante che sta nella relazione tra l’uomo e l’amore.
 
Dentro l’Opera
La Bottega dell’Orefice (1960) è un testo teatrale in cui si esprime l’esperienza dell’amore ed in particolare si presenta il matrimonio come via alla santità. Segue i dettami del Teatro Rapsodico a cui il giovane Wojtyła era legato e rappresenta uno degli apici letterari più riusciti dell’Autore negli anni del suo episcopato a Cracovia. Essa in qualche modo è vista come la sintesi letteraria dello scritto Amore e Responsabilità, che certamente spicca per essere un’opera filosofica, ma che nasce dall’esperienza decennale che don Karol aveva maturato nella sua attività pastorale a contatto con i giovani in qualità di guida spirituale.  Il testo è strutturato in tre parti: 1. I Richiami; 2. Lo Sposo; 3. I figli. Il filo che unisce tutti è il protagonista che attraversa le tre diverse storie presentate. Ossia l’Orefice.
Quali sono le caratteristiche dell’Orefice? Egli non prende mai la parola. Questa emerge dalle parole dei dialoghi dei protagonisti. L’Orefice è come se ci fosse solo per chi vuole ascoltarlo ed è come invisibile, inesistente per chi lo ignora. Rappresenta quindi una sorte di voce interiore che emerge a dare indicazioni: la voce della legge naturale, il richiamo della coscienza, in fondo in un’ottica cristiana Gesù Cristo stesso, in quanto uomo perfetto, ossia capace del vero amore e dunque istitutore del sacramento del Matrimonio. Ci si rende conto della fondamentale importanza di questa figura se comprendiamo che il titolo in polacco del dramma è “Di fronte alla bottega dell’Orefice”, ossia ogni uomo è di fronte alla propria coscienza, che non è altro che la voce interiore di Dio, Dio stesso e/o la figura dell’uomo perfetto Gesù Cristo che indica la statura perfetta dell’umanità. Nelle opere drammaturgiche di Wojtyła, Dio non è mai nominato esplicitamente o di rado, eppure la sua presenza pervade interamente le vicende, e quindi la sua presenza non si vede, ma si sente come caratterizzante della vita dell’uomo, segno di contraddizione e di scelta continua al fine di realizzare in toto la propria umanità.
Le fedi nuziali, forgiate dall’Orefice non sono tanto vendute, quanto amministrate e stanno ad indicare il rispetto degli impegni morali assunti nel matrimonio, ragion per cui saranno invendibili.
L’ottica del dramma-meditazione, del mistero poetico dell’opera, è quella di far comprendere come l’unità tra ciò che è diviso è possibile e tale unità rappresenta la realizzazione più piena dell’essere della persona. Ma come si raggiunge nel rapporto coniugale questa unità? La sola natura non basta, occorre la Rivelazione, la grazia, quindi il sacramento del matrimonio, perché il desiderio dell’unione che i due vivono possa ricevere sostanza e sostegno continuo. In altri termini, Gesù Cristo stesso rende possibile questa unità: «l’uomo non deve scoraggiarsi se il suo amore segue vie tortuose, perché la Grazia ha il potere di renderle dritte», afferma Wojtyła.
L’amore umano in quanto donazione – derivante dalla concezione cristiana di agape/caritas e non in quanto possesso acquisizione derivante dal concetto greco di eros – viene posto in netta analogia con l’amore trinitario. Dio è Persona nel senso pieno, eminente, che crea persone. Lui è Amore e le persone create hanno nel loro essere la dimensione di apertura al mondo e tale dimensione è pienamente data dall’amore. L’amore ha un preciso modello esemplificativo: l’esperienza dell’uomo e della donna. L’ambito del matrimonio è certamente un caso particolare dell’amore però proprio in esso si riflette la totalità delle caratteristiche dell’amore, ossia in esso – rispetto alle altre tipologie d’amore – vi è l’intensità della donazione reciproca che porta come conseguenza l’arricchimento spirituale che completa a sua volta l’essenza stessa dell’amore nella sua dimensione di donazione.
Ma perché l’insistenza sull’orefice? L’orefice è colui che forgia le fedi: esse sono portare al dito e segnano il destino della coppia. Vi è in questo un’importante dimensione temporale da considerare: le fedi sono ricordo del passato, quindi una lezione che permette sempre di rammemorare l’esperienza da cui è sgorgato l’amore della coppia, quale forza e indicazione per aprirsi alla novità del futuro. Attraverso il mutare del tempo, dunque, le fedi sono il segno della permanenza dell’unità, di un asse sovratemporale-metafisico che sostiene le vicende quotidiane.
Tenuto conto di questa cornice conviene immergerci nel dramma e nelle sue tre parti per comprendere proprio la dinamica dell’amore.
 
Primo Atto: I Richiami
I protagonisti sono Andrea e Teresa. L’episodio si snoda a partire dalla rammemorazione della richiesta di matrimonio da parte di Andrea a Teresa. È una promossa di amore per tutta la vita, in quanto è formulata attraverso queste parole: «vuoi essere la mia compagna di vita?» e non semplicemente: “vuoi essere mia moglie?”. La risposta di Teresa fu quasi scontata. Ciò vuol dire che risponde alla struttura della persona stessa un amore eterno che ha il suo coronamento nelle nozze.
Ciò naturalmente non vuol dire che dubbi e paure non possano insorgere, La Bottega dell’Orefice non è un romanzo rosa, anzi ha sempre presente le difficoltà dell’unione di ciò che è diviso. Ma tali dubbi e paure alla luce di quel primigenio desiderio di unione espresso nella promessa di un amore stabile, per tutta la vita, non devono offuscare il “per sempre” dell’unione.
Ed è proprio in questo “per sempre” che l’amore coniugale umano rappresenta l’incondizionato amore della Santissima Trinità per l’umanità. Qui viene contraddetta quella cultura del provvisorio di cui spesso parla Papa Francesco quale tentazione della giovani generazioni del nostro tempo.
Andrea ricorda il passato come una via perigliosa per incontrare Teresa; forse non è stato neanche un colpo di fulmine, un amore a prima vista, però nel momento in cui ha incontrato Teresa, questa persona «non usciva più dal cerchio della mia attenzione». Nonostante Teresa fosse un mondo assolutamente distante dal suo, vi erano le condizioni per gettare un ponte, perché come si ricorda in Amore e Responsabilità: «l’io è naturalmente in relazione, una relazione».
L’amore, allora, non sorge tra due anime gemelle, identiche, ma tra due io diversi, distanti, che decidono di muoversi l’uno verso l’altro. Ma quale è la natura di questo movimento? È un movimento di tutta la persona, quindi non può ridursi a sommovimento semplicemente di sensi – quindi non è solo passione – a volte l’amore è a prescindere dalla stessa passione in quanto si pone come un suo superamento. Tale movimento, amore, si fonda sull’unione del reciproco appartenersi, malgrado le sensazioni comuni.
Tale movimento è a volte anche uno scontro e non semplicemente un incontro. Negli anni vi saranno spinte all’allontanamento, queste hanno il loro catalizzatore nella tristezza perché la felicità piena sbiadisce e non è un costante connotato della persona. Tale felicità però che cos’è? Non può essere colmata semplicemente come un ben trovarsi insieme, neanche col proprio compagno di vita che si rivela sovente nella sua inadeguatezza. Naturalmente quando l’ottica dissolutoria prevale i due si lasciano, rompono il “per sempre”.
È dunque importante chiedersi come si possano superare tali difficoltà, le “fisiologiche” spinte all’allontanamento. Qui la suggestione torna sulle fedi. Se esse restano in vetrina sono solo dei metalli preziosi, ma poste al dito della persona rievocano sempre la promessa avvenuta in un dato passato, come una lezione da tenere sempre presente per affrontare il futuro, anche burrascoso o soprattutto burrascoso. Le fedi ricevono tale significato dalla comunione degli sposi, acquistano un peso specifico infinitamente superiore al metallo prezioso, perché esse ora hanno il peso specifico della persona, che è apertura al mondo, quindi amore. Le fedi sono date da quell’orefice con lo sguardo «mite e penetrante» che raggiunge la «profondità del cuore». Tali segni rappresentano il filo principale dell’ordito della storia della coppia, il segno tangibile dell’Incondizionato che accompagna la storia della coppia, riguardano più lo spirito che il corpo della persona, o per meglio dire senza per nulla indulgere ad una visione oppositiva tra corpo anima, riguardano lo spirito che vivifica un corpo ed un corpo che ha la caratteristica principale di essere formato (ossia di avere la forma nel senso aristotelico) dall’anima.
 
Secondo Atto: Lo Sposo
Stefano e Anna sono una coppia in crisi. Il loro amico Adamo, figura dell’uomo nella pienezza della sua creazione, sprona a non fermarsi in superficie, alle difficoltà e alle pesantezze che subentrano. Mentre le fedi stendono il loro significato nella continuità temporale, qua tale temporalità viene distrutta con l’irrompere dell’attimo tragico. La fede di Anna è tolta dal dito per essere venduta. Subentra la nostalgia del passato, del tempo della promessa, che è raffigurata nelle parole dello Sposo che tenta di persuadere Anna che alla fine non ci sono i tanti amori, ma c’è l’Amore che non passa. È interessante, a questo proposito, il rifiuto dell’Orefice di comprare la fede che Anna vuole vendere:
«Il peso di queste fedi d’oro […] non è il peso del metallo. Questo è il peso specifico dell’essere umano, di ognuno di voi e di voi due insieme».
«Questa fede non ha peso, la lancetta sta sempre sullo zero e non posso ricavarne nemmeno un milligrammo d’oro. Suo marito deve essere vivo – in tal caso nessuna delle due fedi ha peso da sola – pesano solo tutte due insieme. La mia bilancia d’orefice ha questa particolarità che non pesa il metallo in sé ma tutto l’essere umano e il suo destino».
Ritorna prepotentemente la necessità di incontrare il nucleo fontale del desiderio di felicità ricercato dalla persona. La felicità non può essere colmata dalla persona amata. Mancando una tale consapevolezza che relativizza l’altro si chiede al partner l’impossibile e si addossano colpe che portano alla rottura. Ma non per questo, però, la persona amata vale di meno. Sono lo sposo e la sposa in reciprocità la risposta alla felicità. Ma chi si deve vedere in fondo nel volto dello sposo e nel volto della sposa? Chi è lo Sposo ultimo che unisce gli sposi? È Gesù Cristo. Solo contemplando Gesù Cristo, l’uomo perfetto, si può penetrare l’intima verità della persona che amiamo, per amarla con un vero amore, uscendo cioè  dalla curvatio in se ipsum, di cui parlerà un altro filosofo del novecento Robert Spaemann. Solo così l’amore si può fare dono, fino alla morte: forte come la morte è l’amore (cfr. Ct 8,6). L’indicazione è quella di seguire le vergini sagge, che contrariamente alle stolte sono sveglie spiritualmente e accolgono lo sposo, lo seguono e gioiscono per la sua presenza. Le vergini stolte si lasceranno sfuggire la possibilità dell’amore eterno quando verrà sotto l’aspetto dello Sposo, ma non saranno presente o peggio ancora non lo riconosceranno. L’atto si chiude con una domanda impressionante di Anna: «quando, dopo, piena di segreta speranza corsi verso lo Sposo a me annunciato così d’improvviso – vidi la faccia di Stefano. Ma deve proprio avere per me quella faccia? Perché? Perché?».  
 
Terzo Atto: I figli
Cristoforo e Monica sono due fidanzati che intessono un profondo dialogo. Cristoforo è figlio della prima coppia. Cristoforo, però, non ha conosciuto direttamente suo papà, in quanto morto in guerra. Cristoforo conosce il padre attraverso la madre Teresa che lo rende presente al figlio attraverso la sua narrazione. Cristoforo, quindi, concepisce la figura del padre, ma ulteriormente l’esperienza della paternità, attraverso la madre. Tuttavia, sente in qualche modo di rievocare in lui la medesima esperienza della paternità. Ogni uomo, ogni donna anche non sposati sentono l’attitudine alla genitorialità, anche spirituale. L’incontro con Monica, a tal proposito, diventa fondamentale in quanto diventa lo spazio in cui egli può conoscersi intimamente, è lo spazio della relazione in cui la persona si scopre. Gli incontri avvengono sempre con date precise, circostanze e sguardi.
Monica, invece, ha entrambi i genitori, ma proviene da un’esperienza di famiglia ferita: i due genitori sono separati. Una tale esperienza rende Monica profondamente insicura. La domanda di fondo è: può durare l’amore umano quanto la vita di un uomo?
L’amore, qui, appare come sfida continua, ogni istante deve essere non quello della rottura, ma l’anello (la fede/le fedi) che riconferma la scelta dell’amore e quindi unisce gli attimi temporali in unità. L’uomo così vince sul destino, supera le ferite che provengono dal passato e che vanno a incunearsi nel presente: «L’amore è una sfida continua. Dio stesso forse ci sfida affinché noi stessi sfidiamo il destino […] Ancora oggi temo questa sfida dell’uomo».
Cristoforo offre la sicurezza del rapporto dei suoi genitori, come se la portasse in dote, e diventa importante per guarire le insicurezze di Monica. L’amore può colmare le mancanze e le assenze. In questo caso dona a Monica nella narrazione di Cristoforo la presenza di una genitorialità che lei non ha potuto vivere pienamente. Ma in ultimo si comprende come per vincere la sfida, l’uomo non deve illudersi che possa fare semplicemente da sé: «perché l’uomo non riesce a durare nell’altro senza fine e l’uomo non basta»
La figura di Adamo, di cui si è accennato brevemente sopra all’interno del secondo Atto, è amico comune a queste coppie e attraversa le tre storie. Il suo ruolo è quello di portare a Teresa la notizia della morte di Andrea in guerra, di stare vicino alla coppia in crisi matrimoniale (Anna e Stefano) e infine di portare al culmine il dramma con una conclusione che svela il senso dell’amore in un monologo. Per la voce di Adamo, l’autore svela il concetto di amore fondandolo pienamente nella trascendenza:
«Proprio questo mi costringe a riflettere sull’amore umano. Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore, ecco la fonte del dramma. Questo è un dei più grandi drammi dell’esistenza umana. La superficie dell’amore ha una sua corrente, corrente rapida, sfavillante, facile al mutamento. Caleidoscopio di onde e di situazioni così piene di fascino. Questa corrente diventa spesso tanto vorticosa da travolgere la gente, donne e uomini. Convinti che hanno toccato il settimo cielo dell’amore- non lo hanno sfiorato nemmeno. Sono felici un istante, quando credono di aver raggiunto i confini dell’esistenza, e di aver strappato tutti i veli, senza residui. Si, infatti: sull’altra sponda non è rimasto niente, dopo il rapimento non rimane nulla, non c’è più nulla. Non può, non può finire così! Ascoltate, non può. L’uomo è un continuum, una integrità e continuità dunque non può rimanere un niente»
«L’amore non è un’avventura. Prende sapore da un uomo intero. Ha il suo peso specifico. E’ il peso di tutto il suo destino. Non può durare un solo momento. L’eternità dell’uomo passa attraverso l’amore. Ecco perchè si ritrova nella dimensione di Dio: solo lui è Eternità. L’uomo si tuffa nel tempo. Dimenticare, dimenticare. Esistere solo un attimo, solo adesso- e recidersi dall’eternità. Maledizione dell’attimo che arriva dopo e di tutti gli attimi che lo seguono, nei quali cercherai sempre la strada per ritornare a quello già trascorso, per averlo di nuovo e, attraverso quell’attimo, tutto».
 
Conclusione
Wojtyła così indica il matrimonio come una via piena di santità, via di bellezza privilegiata per l’incontro con lo Sposo (Gesù Cristo) che prende il volto della persona sposata e che al tempo stesso non può esaurirsi nei volti umani dei coniugi ma trabocca – come l’amore – su tutto e tutti (partecipazione, comunione, impegno sociale).
L’esistenza della persona, colta a partire dall’esperienza vissuta, è l’ambito in cui la morale di Wojtyla incontra la verità intima della persona, in cui lei stessa ha da riconoscersi, in quanto essere creato ad immagine e somiglianza di Dio. L’uomo ha a disposizione un’esistenza e un amore e deve farne un insieme che abbia senso. La persona è scaturita dall’amore trinitario ed umano. Per raggiungere l’amore deve percorrere, pur tra le difficoltà, le vie dell’amore vero. Le linee in cui si può inglobare la presentazione del plesso persona-amore in Wojtyła e quindi in ultimo gli interessi fondanti della sua morale sono quattro: 1. L’amore è ciò che fa nascere non in senso solo fisico; 2. L’amore è una sfida che Dio fa all’uomo, affinché l’uomo sfidi il destino; 3. L’amore è il peso specifico dell’uomo; 4. Il vero amore implica un rapporto con Dio e con l’eterno. In altri termini, possiamo affermare che nati dall’Amore, su sentieri d’amore, raggiungiamo il fine ultimo che è l’Amore. Ciò si può compiere, con un’unica speranza, se riusciamo a guardare oltre noi stessi, se riusciamo a vedere il vero volto dell’altra persona e riusciamo  ad ascoltare i segnali di un Amore che ci trascende. A questo atteggiamento interiore noi non siamo costretti, ma invitati. Ecco perché a ragione Tadeus Styczeń definisce il suo maestro Wojtyła come il filosofo della libertà al servizio dell’amore. Nulla può avvenire nell’ottica di Wojtyła per mero automatismo o induzione esterna, ma è la persona che nella sua coscienza morale deve muoversi nell’ottica della pienezza dell’amore.
Tale mi sembra il nucleo fondamentale dell’insegnamento morale di Karol Wojtyła che si può sintetizzare in ciò che Giovanni Reale ha chiamato “Metafisica dell’Amore”, che certamente non esclude anzi va di pari passo con la sua “Metafisica della persona”. Afferma Wojtyła in Amore e Responsabilità: «la persona è un essere tale che il rapporto proprio, pienamente valido con essa è l’amore». Se non ami non vedi l’uomo, vi è, dunque, una sorta di dovere intrinseco ad amare la persona, un dovere che ci rende immediatamente responsabili gli uni degli altri. Ciò sarà ulteriormente sviluppato e diventerà anche magistero della Chiesa, ad esempio, nelle catechesi ed insegnamenti sulla teologia del corpo e in un discorso sul alcuni punti fondamentali della morale cristiana, espressi nell’enciclica Veritatis Splendor (1993), ma trova proprio qui il suo laboratorio d’esordio che ha saputo cogliere in una sola unità il vero, il bene e il bello dell’alta esperienza dell’amore.  
 
*le citazioni non ulteriormente specificate sono tratte dal volume: K. Wojtyła, La Bottega dell’Orefice, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2000.
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