“Il lungo intreccio fra emancipazione e giornalismo femminile” di Maria Nivea Zagarella

Mentre nella vita quotidiana continua l’escalation dei femminicidi senza differenze di fasce sociali e d’età sia per vittime che per carnefici, il recente libro di Valeria Palumbo La voce delle donne - Pioniere e ispiratrici del giornalismo italiano sembra fare eco polemica a un processo di “liberazione” femminile che, storicamente lungo ma inesorabile e sacrosanto, fatica a giungere a pieno compimento. Nella sua laboriosa e circostanziata indagine la Palumbo, giornalista e storica delle donne, risale fino alle prime figure del giornalismo femminile italiano fondatrici, nel ‘700 illuminista e “rivoluzionario”, Elisabetta Caminer Turra del Giornale enciclopedico (1773), la cognata Gioseffa Cornoldi Caminer, de La donna galante ed erudita - Giornale dedicato al bel sesso, Eleonora de Fonseca Pimentel, del Monitore napolitano (1799), impiccata quest’ultima al crollo della giacobina Repubblica Partenopea, arrivando poi agli anni ‘80 del ‘900 che vedono finalmente un ingresso di massa di giornaliste professioniste nei giornali, nella Tv, nelle radio private, e oggi pure sul web. Passando però attraverso la loro lentissima avanzata da metà Ottocento, quando varie giornaliste emersero, come la maestra Matilde Serao (1856/1927), dalle Scuole Normali che erano le uniche scuole superiori aperte alle ragazze dopo l’Unità d’Italia, a metà Novecento se -rimarca la Palumbo- nel 1945, nonostante il raggiunto diritto di voto per le donne, le giornaliste dovevano ancora lottare per potere occuparsi di tutto. E con le loro idee, in una società gravata dal peso del patriarcato, soprattutto al Sud. E cita a tale proposito le inchieste svolte intorno agli anni ‘60 dalla giornalista Gabriella Parca (1926-2016): Sua maestà il marito (1961); I sultani. Mentalità e comportamento del maschio italiano (1965). La Palumbo ricorda anche l’influenza da noi fra ‘800 e ‘900 delle “grandi pioniere” (e emancipazioniste e scrittrici) del giornalismo anglosassone e francese: le americane Nellie Bly, giornalista geniale e eclettica per le sue inchieste sul campo, corrispondenze di guerra, interviste, articoli di cronaca nera; Louisa May Alcott portabandiera del nubilato; Sarah Margaret Fuller testimone partecipe dei moti italiani del ‘48 e della tragedia della Repubblica Romana (1849); la francese George Sand donna libera, poliamorosa, giornalista e recensora a tutto campo; l’inglese Virginia Woolf, femminista e pacifista, che nel famoso saggio Le tre ghinee istituisce un legame fra dominio violento del maschio, regimi dittatoriali e guerra. Ma il focus è sulle innumerevoli giornaliste italiane, note (da Serao, Marchesa Colombi, Ada Negri a Anna Maria Ortese, Natalia Ginzburg, Camilla Cederna, Oriana Fallaci, Miriam Mafai…) o sconosciute ai più o rimosse e da poco riscoperte (impossibile qui menzionarle tutte!), distinte dalla Palumbo in “professioniste”, per le quali il giornalismo è stato principale fonte di reddito, e “figure ibride”, cioè scrittrici che hanno arrotondato i guadagni con collaborazioni giornalistiche, o “attiviste” politiche (Maria Giudice, Anna Kuliscioff…) che hanno usato il giornalismo per propagandare le loro idee. L’analisi si muove fra due poli. Da un lato la tenacia battagliera con cui tante donne si sono affermate come “voce pubblica”, quali la Serao che fu cronista mondana e di costume, cronista parlamentare e fondò due giornali, Il mattino e Il giorno, proiettando la sua passione e esperienze giornalistiche nel romanzo Vita e avventure di Riccardo Joanna (1887), o Flavia Steno (1877/1946) pseudonimo di Amelia Contini Osta, giornalista eclettica assunta dal Secolo XIX, per cui scrisse anche articoli dal fronte sulla Grande Guerra, e poi di critica al fascismo nel 1943, e di denuncia nel 1946 delle violenze degli alleati su donne e civili nel territorio di Formia. Dall’altro gli ostacoli, anche legali, posti al “cammino” delle donne dai borghesi maschi che rivendicando per sé tutti i mestieri, professioni, ruoli di prestigio e di potere le hanno abitualmente relegate nel ruolo di “spose”, “madri”, massaie”, imbrigliate dalla tutela maritale fino al 1919, e dalla difesa feroce dell’ “onore”.  Valga per tutte la triste vicenda della Contessa Lara, pseudonimo di Evelina Cattermole (giornalista e non solo scrittrice), il cui marito costantemente infedele uccise in duello l’amante di lei e fu assolto tra gli applausi in una Italia -sottolinea la Palumbo- che rimetteva in libertà mariti, padri, fratelli per “proprietà violata” e riteneva loro diritto ”raddrizzare” mogli, figlie e sorelle a botte. Perciò l’insistenza della storica sulle “ribelli”, anche se volta a volta differenziate, rivendicazioni di taluni giornali e giornaliste per il diritto delle donne all’istruzione e agli studi superiori e professionali, al voto, al lavoro e all’indipendenza economica, alla libertà di sposarsi o no.

Fra le riviste l’autrice elenca innanzitutto Cordelia - Foglio settimanale per giovinette italiane, divenuto poi Giornale per le signorine, impegnata a rivendicare una istruzione di livello per le ragazze anche se destinate a essere madri e mogli, e diretta dal 1887 al 1911, anno della sua morte, dalla maestra Ida Baccini. La rivista le sopravvisse sotto altre direzioni femminili fino al 1942, e avendo a suo tempo Ida scelto soprattutto “collaboratrici” si creò indirettamente una “scuola” di giornaliste. Più progressista fu invece il periodico La Donna (1868/1891) fondato da Anna Maria Mozzoni con redattici le mazziniane Gualberta Beccari (1842/1906) e Elena Ballio (1847/1917). Di Anna Maria Mozzoni (1837/1920), madre del femminismo italiano, che rivendicava alle donne istruzione e il voto, torna qui “storicamente” utile (se si tiene conto della attuale condizione femminile a livello planetario) riportare la seguente perentoria enunciazione: Negare alla donna -diceva- una completa riforma nella sua educazione, negarle più ampi confini alla istruzione, negarle un lavoro, negarle una esistenza nella città, una vita nella nazione, una importanza nella opinione non è ormai più cosa possibile: e gli interessi ostili al suo risorgimento potranno bensì ritardarlo con una lotta ingenerosa, ma non mai impedirlo. Anche per la Beccari e la Ballio la donna doveva avere un ruolo fondamentale nella costituzione allora dello Stato italiano. La donna buona, saggia, onesta cittadina, laboriosa -scriveva Gualberta- è l’impulso alla civilizzazione di un popolo, ambiziosa, vana, civetta concorre a formare viziata la società. Benemerita della acculturazione femminile fu anche fra fine ‘700 e inizio dell’800 la fiorentina Carolina Lattanzi, autrice nel 1797 del pamphlet Della schiavitù delle donne e fondatrice nel 1804 a Milano del Corriere delle dame, da lei diretto fino alla sua morte nel 1818, ma il Corriere le sopravvisse fino al 1875. Nel pamphlet Carolina parlava della barbarie di un costume che bandiva le donne da tutti gli impieghi, le avviliva con una frivola educazione, e quanto agli uomini affermava che sembravano essere stati creati per raddoppiare i lacci alle donne e renderle nella società affatto passive, concludendo con la frase battagliera: Cittadini se voi spezzare volete le catene dei re, noi spezzare vogliamo anco le nostre. Perciò nelle otto pagine del Corriere accanto ai figurini di moda per lo più francese, erano riportati e commentati i fatti politici più importanti del momento, notizie igienico-sanitarie, racconti, poesie, cronache teatrali, consigli di galateo e di puericultura, e la moda veniva presentata come una industria economicamente utile, con precisi riferimenti a botteghe artigiane e sartorie milanesi, e non mancava per le abbonate un servizio di vendita di abiti per corrispondenza. Cautamente emancipazionista e poi prudentemente critica verso il fascismo fu la rivista Chiosa fondata da Flavia Steno, cui collaboravano Matilde Serao, Sibilla Aleramo, Ada Negri, e pubblicata fra il 1919 e il 1927. Nel primo numero Chiosa prendeva le distanze da suffragette e femministe ma precisava che non era più concepibile la donna dell’elogio antico: domi mansit, lanam fecit. Di taglio più politico sarà la rivista Noi donne, voluta dalla Unione donne italiane e fondata in clandestinità nel 1937 dalle attiviste comuniste Teresa Noce (1909/1980) e Xenia Silberberg (1906/1952), rivista dalla lunga vita, perché molto diffusa ancora negli anni ’70 del secolo scorso, e oggi sito internet.

Fra le giornaliste “emancipazioniste” la Palumbo recupera Olga Ossani (1857/1933) che usava lo pseudonimo di Febea, poco nota oggi, ma donna assai determinata nella sua epoca, che difese la “scandalosa” Contessa Lara affermando fra l’altro che era facile inchiodare a una cattiva fama una donna per un’ora d’amore a fine giornata, anche se faceva sempre con onestà e bravura il suo lavoro, eccellendo nel mestiere di giornalista, mentre per gli uomini era il contrario: più erano e si spacciavano per poliamorosi, più il loro lavoro, pur modesto, acquistava nuovo lustro. Olga si batté dal Capitan Fracassa, dal Don Chisciotte della Mancia e dalla rivista fondata nel 1905 insieme al marito Luigi Lodi, La Vita (che cessò le pubblicazioni nel 1914), per il diritto di voto e alle professioni, e conseguente parità economica, delle donne, e in un articolo del 1910 su Lettura, supplemento mensile del Corriere della sera, sottolineava con soddisfazione i progressi fatti lentamente, ma incessantemente, dalla nuova Eva evoluta passata dalla casa al laboratorio, dal salotto all’ufficioa fronte alta… con semplicità, dignità, decoro, mentre ancora nell’ ’800 per la mentalità corrente era una mostruosità ipotizzare che le donne potessero fare le stesse cose degli uomini e godere gli stessi diritti civili. Si pensi -scrive la Palumbo- alla odissea di Lidia Poet (1855/1949), che pur avendo i titoli giusti non poté fare l’avvocata fino al 1920. E quanto al Corriere della sera, nell’ambito delle sue osservazioni circa l’abituale costume dei maschi a minimizzare o addirittura “rimuovere” figure e meriti femminili, la storica racconta due episodi riguardanti la Marchesa Colombi, pseudonimo di Maria Antonietta Torriani (1840/1920), e Anna Kuliscioff, la compagna di Filippo Turati. La Torriani era stata co-fondatrice, nel 1876, del Corriere della sera, con il marito Eugenio Torelli Viollier, dal quale si separò nel 1888 per gravi ragioni familiari. Quando la Torriani, che era stata anche al fianco della Mozzoni nelle lotte per il voto alle donne e per l’istruzione e la necessità della “lettura” (in anni in cui i medici curavano la presunta “isteria” femminile chiudendo in casa le “malate” e vietando loro la lettura perché “eccitante“ e distraeva dalle occupazioni domestiche e doveri materni), quando- dicevo- la Torriani morì nel 1920, il Corriere della sera la ricordò chiarendo semplicemente il suo pseudonimo, e che era la vedova di Torelli Viollier, guardandosi bene -sottolinea la Palumbo- dal dire che era stata una grande giornalista e scrittrice, autrice di romanzi importanti come I ragazzi di una volta e i ragazzi di adesso (1888) e Un matrimonio in provincia, opera assai rilevante quest’ultima e infatti ripubblicata da Natalia Ginzburg e Italo Calvino nel 1973. Nell’ombra è stata tenuta anche la socialista Kuliscioff (1854/1925) co-fondatrice nel 1891 con Turati della rivista Critica sociale (espressione del socialismo riformista italiano), la cui direzione e organizzazione (oltre agli articoli da lei scritti) pesavano in realtà sulle spalle della Kuliscioff, essendo spesso Turati assente per la sua professione di avvocato e quale parlamentare. Ma nel 2023, quando il Corriere della sera annunciò la riapertura della storica rivista, parlò del prestigioso Turati suo creatore e a lungo direttore senza alcun riferimento ad Anna, che nella sua vita si era battuta anche per i diritti delle donne, non solo le “lavoratrici”, scrivendo ad esempio nel discorso Il monopolio dell’uomo (1894) che tutti gli uominiconsiderano come un fenomeno naturale il loro privilegio di sesso e lo difendono con una tenacia straordinaria, chiamando in aiuto Dio, chiesa, scienza, etica e le leggi vigenti, che non sono altro che la sanzione legale della prepotenza di una classe e di un sesso dominante. Anna condivideva e apprezzava le rivendicazioni delle borghesi “femministe” come la Mozzonì, Laura Mantegazza, la Beccari e alla fine condivise della Mozzoni anche la richiesta di voto per le donne, rendendosi conto che l’emancipazione femminile non si sarebbe automaticamente realizzata nell’ambito di quella del proletariato, che nel suo rivoluzionarismo restava sostanzialmente misogino. E significativamente la Palumbo cita la frase lanciata da Anna al giudice del Tribunale militare di Milano durante il processo ai socialisti arrestati per il tumulto per il pane del 1898, che portò alla strage di Bava Beccaris. Al giudice che la interpellò come Signora Turati, Anna replicò: Io non sono la signora di nessuno, sono semplicemente Anna Kuliscioff.

Il silenzio di storici o colleghi è calato per tanti anni anche su altre giornaliste, che l’autrice fa invece oggetto della sua focalizzazione, come le socialiste Angelica Balabanoff (1878/1965), vissuta soprattutto in Svizzera e in Italia, e direttrice dell’Avanti e poi del Nuovo Avanti dal 1928 al 1940, e Maria Giudice (1880/1933), maestra, fondatrice con la Balabanoff nel 1904 del giornale Su, compagne!, e -dice la Palumbo- infaticabile combattente per i diritti dei lavoratori e delle donne; e in anni più vicini a noi sono state - aggiunge- parimenti dimenticate anche due collaboratrici dei settimanali Oggi, Anna Pensotti, e de L’Europeo, Lina Coletti, validissime per i loro servizi giornalistici e interviste. Perciò nelle pagine della Palumbo ciclicamente tornano delle notazioni polemiche sui “maschi” che hanno a lungo tenuto le donne nel dilettantismo e precariato giornalistico (escluse da assunzioni, ruoli di rilievo, argomenti “alti”), o sulla misoginia  -di cui si diceva poco fa- di anarchici socialisti comunisti “freddi” verso il suffragio femminile, freddezza denunciata già ai loro tempi dalla Kuliscioff quanto a Turati che non ne fece mai la sua priorità, dalla Giudice che vedeva i cosiddetti “compagni attivisti” rivoluzionari fuori casa, ma reazionari dentro le mura domestiche, dall’altra socialista Linda Malnati (1955/1921) maestra, femminista e pacifista, che per la sua difesa del voto femminile rischiò nel 1913 di essere espulsa dal partito, misoginia puntualizzata di recente da Mirella Serri nel libro Uomini contro - La lunga marcia dell’antifemminismo in Italia (2023). E inoltre, osservazioni sulla poca apertura dello stesso Pci e dell’Unità postguerra verso le carriere femminili, se la prima “direttrice” dell’Unità, giornale fondato nel 1924, è stata Concita de Gregorio dal 2008 al 2011, ma -rimarca la Palumbo- in un momento di crescente irrilevanza della testata, e se le prime firme femminili di rilievo, sempre sull’Unità, si sono avute solo nel 1945 con Ada Gobetti e nel 1950 con Tina Merlin che vi resterà a lungo precaria;  o  ancora, sul persistere dell’assenza fino al 2024 di “direttrici” nei più importanti quotidiani nazionali. Una “parità” donna/maschio dunque a tutt’oggi incompiuta, anche se un piccolo passo avanti, dall’estate 2025, ci sembra la presenza di Agnese Pini alla direzione della Nazione di Firenze. In tale contesto di pertinaci resistenze maschili anche nella neonata Repubblica Italiana del dopoguerra si configura pertanto come una gratificante eccezione/rivincita la notorietà raggiunta da alcune figure, quali Anna Maria Ortese (1914/1998) di cui la Palumbo cita i coraggiosi reportage per L’Europeo e per L’Unità; Camilla Cederna (1911/1977), che ha affrontato temi sociali e politici su L’Europeo, l’Espresso e su Panorama; Miriam Mafai (1926/2012) ex partigiana, collaboratrice, con i suoi servizi a tematica politico-sociale e sulle donne, dell’Unità prima, poi di Paese sera, e co-fondatrice nel 1976 di Repubblica, di cui è stata firma autorevole; Adele Cambria (1931-2015) autrice di inchieste sociali e impegnata in testate femministe; e soprattutto Oriana Fallaci (1929/2006) inviata di punta de L’Europeo e del Corriere della sera, della quale la Palumbo ricorda le corrispondenze di guerra dal Vietnam, gli articoli sulla missione Apollo 11, sulla questione femminile nel mondo, sugli Stati Uniti, sul Messico, sulla dittatura dei colonnelli in Grecia, le numerose interviste a personaggi della politica, dello spettacolo, del mondo della cultura, e il pamphlet La rabbia e l’orgoglio successivo all’attentato alle Torri gemelle del 2001. Qui piace citare il profilo del “giornalista ideale” tratteggiato dalla Fallaci, con cui lei si identificava, e che resta sempre attuale: Un giornalista  -scriveva- senza nemici, che non dà fastidio, che non vive in mezzo ai guai (alias telefono sotto controllo, denunce, minacce anche di morte), molto raramente è un buon giornalista. Un buon giornalista non dovrebbe mai essere una persona accomodante. Ancora meno, una persona innocua. Inoltre, sottolinea la Palumbo,  per la Fallaci, che non si era mai voluta sposare per non essere ”sequestrata” da un uomo,  l’essere donna in una società inventata e determinata dagli uomini… era una sfida/duello a realizzare i suoi programmi e i suoi sogni.

La storica dedica, nella sua argomentata carrellata, un capitolo anche al giornalismo femminile fascista, allineato con il regime e con le organizzazioni femminili fasciste, il quale ebbe, fra le molte, le sue firme di spicco in Wanda Gorjux- Bruschi (1889 /1976) che si firmava Medusa, e in Stefania Turr (1885 /1940). Un altro capitolo  riguarda i numerosi giornali “femminili” distinti fra quelli più o meno “impegnati” (che in parte abbiamo già trattato) e quelli più “leggeri” interessati maggiormente a temi quali moda, beauty, costume, cucina, salute, viaggi, consumi, temi divenuti prevalenti a fine ‘900. Fra queste testate la Palumbo ritaglia uno spazio per Novella, nata nel 1919 non come periodico specificamente “femminile”, ma come rivista che raccoglieva solo racconti (e l’adulterio era la tematica più frequente) e con una parità quasi, al suo interno, di firme maschili e femminili. Passata nel 1921 a Mondadori e nel 1927 a Rizzoli Novella divenne gradualmente un rotocalco dove sui racconti predominarono le illustrazioni, soprattutto immagini di dive americane, affermandovisi il modello femminile delle “maschiette”, donne con i capelli corti e a caschetto bombato, insomma il “nuovo tipo” femminile più libero, indipendente, in pantaloni, calzoncini da mare, o anche al volante, o in tenuta da aviatrice, raggiungendo la rivista una tiratura notevole di copie (103.700 nel 1929) e con un pubblico di massa fatto di sartine, segretarie, artigiane, operaie, impiegate. Segno di una società che stava profondamente cambiando, nonostante i tentativi di bloccarla, anche attraverso una avvolgente, seducente (sofistica?) ambiguità, quale quella che emerge da un articolo della Gorjux su La pagina femminile, supplemento bisettimanale della Gazzetta del Mezzogiorno, dove si legge:…e per il rimanente indulgete alla donna; compatitela, voi, il sesso forte; sorridete alle sue debolezze, compresa quella dei capelli corti che via,  poi a voialtri uomini piacciono tanto proprio perché lasciano scoperta la nuca e… glissons!  Un atro capitolo del libro segue lo sviluppo del foto-giornalismo che, avviatosi anch’esso a fine Ottocento, prese forma continuativa dagli anni Venti con il perfezionarsi delle fotocamere commerciali e delle lampade flash. Fra le pioniere una italiana nata a Udine, ma emigrata in America, Tina Molotti (1897/1942), divenuta famosa per i suoi ritratti e reportage sociali sul Messico, che anticiparono quelli della tedesca Gerda Taro (1910/1937) morta nella guerra civile spagnola. L’excursus storico fa riferimento alle fotoreporter della I e della II Guerra mondiale, fra cui Lee Miller (1907/1977), che fra l’altro documentò nel 1945 gli orrori del campo di sterminio di Dachau, da cui rimase traumatizzata per il resto della sua vita. E quanto alle prime fotografe operanti in Italia non come fotogiornaliste, ma come “ritrattiste”, le cui foto facendo notizia venivano stampate sui giornali e perciò furono chiamate anche dal settimanale Eva per le sue copertine, l’autrice cita l’ungherese Ghitta Carrell (1899/1972) e l’inglese Eva Elbourn Barrett (1879/-1949/1950), ”maestre” della posa e del ritocco, fotografe delle èlites del loro tempo e mediaitrici dell’ “idea” che tali élites avevano di sé e che volevano dare. Fotogiornaliste saranno invece Eda Urbani (1908/2001) che operò prima per testate estere e poi per la Gazzetta del Popolo, e Chiara Paparella (1925/2022) che avviò i suoi “scatti” dal 1953 in poi, lavorando per vari giornali. Oggi -conclude alla fine della sua ricostruzione la Palumbo- professionisti e professioniste del giornalismo non si impegnano più solo sulla carta stampata, ma contemporaneamente anche per radio, Tv e web.

Un libro questo di Valeria Palumbo -come si vede- che ci restituisce uno spaccato della società italiana e contemporanea degli ultimi due secoli, e la cui finalità l’autrice stessa sintetizza nelle frasi conclusive del volume dove, mettendosi ancora una volta in rilevo il diritto/dovere del “dire“ e del “fare” delle donne e la necessità della “piena” parità con i maschi, si legge che il racconto del mondo senza il contributo delle donne è un racconto falso.

 

 

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.