“Il nuovo libro di Alain de Benoist. Il liberalismo? Un errore antropologico...” di Carlo Gambescia (*)
- Dettagli
- Category: Scritture
- Creato: 11 Marzo 2019
- Scritto da Redazione Culturelite
- Hits: 2229
Il nuovo libro di Alain de Benoist, Contre le libéralisme. La société n’est pas un marché (1), pone un serio problema pre-interpretativo: quello di una classificazione delle varie forme di antiliberalismo. Esiste un lavoro di Holmes, che risale a più di venticinque anni fa (2), notevole negli intenti e sviluppi, ma che non offre alcuna precisa tassonomia. Anche il ponderoso volume di Sternhell, uscito nella seconda metà degli anni Duemila, non offre molto di più sul piano classificatorio (3).
Una questione di metodo
Come procedere allora? Diciamo che a grandi linee politiche, esistono l’antiliberalismo cattolico, marxista, fascista, nazista. Per contro, sul piano prepolitico, esistono due grandi categorie cognitive: l’antiliberismo olistico e l’antiliberalismo costruttivista.
Il primo rinvia, al rifiuto di considerare l’ individuo un’entità a se stante, avulsa dalla società: una parte che, come si dice, non può fare a meno del tutto.
Il secondo, considera la società, come un prodotto sociale, qualcosa che è frutto di un preciso disegno costruttivo e ricostruttivo, che discende dalle scelte ideologiche di una specie di Uomo Collettivo. Ad esempio, il marxismo come il nazismo sono forme di antiliberalismo costruttivista, il cristianesimo e il tradizionalismo, con la loro proiezione verso un'età dell’oro pre-storica o metastorica sono forme di antiliberalismo olistico. L’antiliberalismo costruttivista rinvia a istanze trasformative, mentre l’antiliberalismo olista, curiosamente, rimanda, almeno in prima battuta, a istanze quietistiche.
Va detto però, che al di là delle tassonomie, spesso olismo e costruttivismo, finiscono, in alcuni autori, per ricongiungersi. Si pensi, come accade in Marx, al rapporto tra classe, parte di un tutto sociale, che però disparirà in chiave ricostruttiva nel comunismo. Oppure a quello evoliano tra filosofia regressiva delle caste, come parte di un tutto, individuato in un processo storico ciclico, e il ruolo, decisamente, costruttivista, quanto meno sul piano dell’esemplarità, delle élite sacrali e guerriere.
Lo stato sociale ottimo
Tuttavia, il volume di Alain de Benoist, pur partendo da posizioni olistiche va a collocarsi all’interno dell’antiliberalismo costruttivista. Il suo lavoro, per dirla in termini medici, pur avendo i caratteri della diagnosi e prognosi (olistica) non può negarsi alla terapia (costruttivista). Il che spiega, come ammette lo stesso padre della Nouvelle Droite, l’approccio alla questione in termini di “un travail de philosophie politique qui s’efforce d’aller à l’essentiel, au coeur de l’idéologie libérale, à partir d’une analyse critique de ses fondement, c’est-à-dire d’une antropologie essentiellement fondée sur l’individualisme et sur l’économisme”.
Siamo davanti, insomma, a un lavoro di filosofia politica, dunque valutativo, perché rinvia a un giudizio, semplificando, sull’ ottimo stato” o se si preferisce, più in generale, sullo stato sociale ottimo. Un ottimo, si intende, per la società, come si evince dal giudizio negativo che viene dato dell’individualismo come dell’economismo. Valutazione negativa che attraversa l’intero libro, e che, a sua volta, rimanda all’azione politica, come costruzione di un ordine diverso, anti-individualista e antieconomicista. Dunque antiliberale. Di qui, ripetiamo, la natura, tutto sommato, costruttivista dell' antiliberalismo debenoistiano.
Ora però, un approccio costruttivista, implica, il rifiuto sociologico dell’eterogenesi dei fini, vera e propria regolarità sociologica. E in nome di che cosa? Della credenza nella corrispondenza, nelle azioni sociali ( e dunque anche politiche), dei mezzi con i fini. Per capirsi: si vuole il bene si ottiene il bene, si vuole il male si ottiene male. Semplice e lineare.
Per o della società?
In realtà, si tratta di un approccio esiziale dal punto di vista dell’analisi politologica e sociologica, perché presuppone una valutazione dello stato sociale ottimo per la società, non della società. Ossia, non rinvia a una valutazione delle cose come sono, prendendo atto del fatto che gli uomini spesso vogliono il male e ottengono il bene e viceversa. Di qui, la necessità, per ogni studioso sociale, di attenersi sempre non a un ottimo filosofico imposto dall’alto (per), dando giudizi di buono o cattivo, ma all’ ottimo della società, così come si esprime di fatto, secondo i parametri di una determinata società: dell’ottimo della. Si chiama relativismo, ed è fondato sulla sospensione del giudizio. Weber docet.
Pertanto, le parti più deboli del libro sono quelle dove si discute di condizione sociale ottima, criticando il liberalismo, che come riconosce lo stesso pensatore francese è una filosofia individualistica. Ossia lo si critica sulle basi di una filosofia olistica, che è l’esatto contrario dell'individualismo. Si sovrappongono i propri desideri politici a un'analisi obiettiva della realtà.
Di conseguenza, una volta scelta la filosofia valutativa è fin troppo semplice, sulle basi della stessa, criticarne un’altra. Pensiamo al riguardo, alla lunga Introduction (pp. 9-51), scritta crediamo ex novo (rispetto agli altri capitoli, già pubblicati altrove come articoli e saggi), a Qu’est-ce que le libéralisme? (pp. 53-89), a Critique de Hayek (pp. 191-242): capitoli dove si sviluppa, più spiccatamente, una critica di tipo olistico al liberalismo, che può avere valore, ripetiamo, se si condividono i punti di partenza del pensatore francese. Siamo sul piano, per ripetersi, dell’ottimo per. Di uno studio non oggettivo ma valutativo del liberalismo.
Il conflitto euristico
Pertanto, in sede di recensione, sarebbe inutile criticare l'antiliberalismo debenoistiano, in nome di altri punti di vista, ad esempio quello pro liberale, opponendo magari versione caricaturale a versione caricaturale: individualismo a olismo. Avremmo soltanto, petizioni di principio contro altre petizioni di principio.
In realtà, siamo davanti a un conflitto euristico, che probabilmente innerva l' impianto valutativo del libro, e che di riflesso non consente al pensatore francese di accorgersi delle conseguenze epistemologiche del suo approccio. E in particolare della frattura cognitiva tra momento istituzionale e momento movimentista dei fenomeni sociali (una regolarità metapolitica), come si evince dalla lettura dei capitoli più seriamente impregnati di costruttivismo, come Communitariens vs. libéraux (pp. 91-130), Libéralisme et identité (pp.131-145), Démocratie représentative e démocratie partecipative (pp. 243-250) e Libéralisme et démocratie (pp. 251-265). Dove si profila, sempre semplificando, la condizione sociale ottima, secondo lo scrittore francese, fondata sulla democrazia diretta, sulla comunità locale come fonte di identità, e al tempo stesso sul senso storico di appartenenza alla nazione: insomma, sul movimento, o su una società in costante stato nascente. O se si preferisce, per usare la terminologia debeinostiana, di derivazione schmittiana, sulla primazia del potere costituente sul potere costituito. Il che non risulta possibile sotto il profilo sociologico e pericoloso sotto quello politologico perché il mito dello stato nascente politico rinvia, prima o poi, al plebiscitarismo o alla tirannia dei comitati.
Reductio ad unum e politeismo cognitivo
Infine, quanto ai capitoli sulla Figure du Bourgeois (pp. 143-189”, sulla Troisième âge du capitalisme (pp. 267-293), sul precariato (pp. 307-320), sul concetto di valore e sul denaro (pp. 321-340), siamo davanti a piccoli capolavori dell’enciclopedismo debeinostiano. Dove riaffiora, finalmente, il suo antico e pregevole politeismo cognitivo. Di qui, non più la reductio ad unumolistica e costruttivista, ma la descrizione di un sociale e di un economico ricchi di sfumature. Non cambia il suo giudizio su liberalismo e capitalismo, per de Benoist, fenomeni collegati, ma ne offre un quadro più affascinante e complesso rispetto agli altri capitoli, se ci si passa l'espressione, militanti.
Crediamo, o meglio supponiamo, che esista nel pensiero di Alain de Benoist, un riaffiorante conflitto insoluto, tra politeismo cognitivo, che in qualche modo caratterizzò anche il pensiero di Sorel, ma in chiave di conflitto tra leggi storiche ed eccezioni storiche, come le grandi figure.
Pensiamo, forse fin troppo immaginosamente, al politeismo come a un fiume carsico che attraversi il pensiero debenoistiano, quale giusto rispetto della ricchezza delle forme sociali. Al quale però si opponga l' incedere, alla luce del sole, delle imponenti e limacciose acque dell'olismo e del costruttivismo, come riduzione delle forme a contenuti di un pensiero unico.
Non siamo sicuri che de Benoist se ne avveda. Perché, come accade nel libro, la stessa reductio ad unum che egli addebita al liberalismo, finisce per animare la sua epistemologia olista e costruttivista. E questa è un’altra prova dell’ esistenza dell' eterogenesi dei fini sociali e anche intellettuali.
I rischi della società di massa
Infine, in Conserver quoi? Les équivoques du conservativisme (pp. 295-306), si adombra invece, proprio in chiave ipercostruttivistica, un’alleanza tra conservatori, meglio se con trascorsi di sinistra, e popolo, come nell’Ottocento si proponeva sempre in chiave antiliberale, da parte dei controrivoluzionari, quella tra grandi proprietari e popolo della campagne delle città, contro la democrazia rappresentativa e il libero scambio. Un passo indietro.
Del resto, il libro sembra ignorare un aspetto fondamentale della società moderna, aspetto spesso ignorato anche dai liberali, non quelli archici però (4): la società di massa. Che piaccia o meno, è un effetto non previsto - o previsto da pochi pensatori come Tocqueville, altro liberale archico - della democratizzazione del mondo, che rischia sempre di tradursi in tirannia delle maggioranze. Diciamo che è un rischio, non una sentenza passato in giudicato. Che però può divenirlo tutte le volte che si prova a separare, come insegnava sempre Tocqueville, la democrazia dal liberalismo. Una sintesi che, nonostante le critiche che riceve, alcune senz'altro giuste, resta però l’unica modalità politica, imperfetta quanto si voglia, per impedire, ai nostri giorni, il dominio dell’uomo-massa.
Gli effetti indesiderati
Di conseguenza, parlare di comunitarismo, identità, partecipazione, significa, di fatto, semplicemente favorire gli istinti collettivi peggiori, tra i quali, c’è quello gregario di fedeltà nel carisma di un capo… Tutti i discorsi valutativi debenoistiani rischiano di sfociare, ripetiamo o nel plebiscitarismo o nella tirannia dei comitati. In un mondo, dominato da élite, non più "globalizzate", come si legge, ma localizzate. Tuttavia, non per questo, migliori delle altre. Anzi, forse perché più vicine, ancora più tiranniche e pericolose.
Insomma, Alain de Benoist, pur criticando, e giustamente certa spoliticizzazione delle società liberali, sembra non avvedersi del ruolo di alcune costanti della metapolitica, come la ferrea legge delle élite, individuata, pur dando al fenomeno nomi di differenti, da Mosca, Pareto, Michels. Il che significa, come del resto è sempre stato, che la democrazia partecipativa, verrebbe subito usurpata, non dai partiti, oggi comunque rappresentati "liberal-democraticamente" in Parlamento, ma da ristretti gruppi, dominati, come in tutte le comunità umane, dalle personalità più ambiziose, dunque avide di potere. In nome del popolo sovrano, ovviamente…
Conclusioni (o quasi)
Qualcuno potrebbe ritenere, che dietro le nostre critiche metodologiche, si nasconda una scelta liberale. E che quindi il nostro non sia altro che individualismo metodologico. E sia. Nessuno è perfetto. Però le regolarità o costanti metapolitiche, come le altre questioni, da noi ricordate, vanno oltre l'olismo e l'individualismo. E ogni studioso serio di politica dovrebbe prenderne atto.
Altrimenti il rischio è quello di scrivere libri solo per credenti. Non per nulla, Alain De Benoist, citando il teologo John Milbank, accetta la sua idea del liberalismo, come “d’abord une “erreur anthropologique” . Quasi un peccato.
(*) Carlo Gambescia, sociologo. Tra i suoi libri: Metapolitica. L’altro sguardo sul potere; A destra per caso. Conversazioni su un viaggio (con Nicola Vacca); Liberalismo triste. Un percorso: da Burke a Berlin; Sociologi per caso. Dante, Machiavelli, Evola, Jünger, Mann, Tolstoj, Pasolini; Passeggiare tra le rovine. Sociologia della decadenza; Retorica della transigenza. Giano Accame attraverso i suoi libri.