"Il problema palestinese e l’impostura della NAKBA" di Pasquale Hamel

Nella storia del conflitto che, dal 1948, infiamma la Terrasanta troppo spesso le mistificazioni e le strumentalizzazioni hanno coperto la verità, fra queste il mito della Nakba di cui, utilizzando le riflessioni di Riccardo Galetti e di Roberto Sajeva che nell’interessante ed esaustivo volume “Le ragioni di Israele” pubblicato da linkiesta Books, ne esaminano la fondatezza. La Nakba, catastrofe in arabo, è il termine che più appassiona quanti compiacenti si occupano della cosiddetta questione palestinese. Si tratterebbe dell’esodo forzato degli arabi che vivevano in Palestina dopo il ’48 di cui si sarebbero resi responsabili gli ebrei di Israele. Un evento che è stato, con quella esagerazione faziosa che contraddistingue gli individui ideologizzati, addirittura paragonato all’Olocausto che, come sappiamo, fece almeno sei milioni di vittime, Un evento la cui responsabilità, come ci dice Benny Morris, uno storico che non ha mai risparmiato critiche al ceto dirigente israeliano, che l’ha indagato con certosina pazienza non solo ricercando fra le carte ma verificando sul campo, solo in malafede può essere attribuita allo Stato ebraico. Ci dice Morris che, salvo qualche caso come quello di cui fu responsabile la formazione ebraica legata al partito marxista Mapam,  “non ci sia mai stato un ordine o una volontà di espulsione dei sionisti prima e di Israele poi e che anzi esistono ampie prove documentali che la leadership israeliana si era opposta a operazioni di questo tipo. L’esodo arabo dalle aree in questione fu invece effetto della paura delle conseguenze della guerra ma anche della scelta strategica degli eserciti arabi, decisi a spazzare via lo Stato di Israele e gli ebrei, di fare terra bruciata “per fare venire meno luoghi di comodo stazionamento e rifornimento dell’esercito nemico”- D’altra parte, a conferma, basta scorrere la stampa arabo-palestinese – fra gli altri i quotidiani Ash Sha’aab  e Assariq - la quale si guardò bene dal parlare di pulizia etnica ed, invece, insisté a definire l’esodo ora come intelligente tattica per mettere in difficoltà Israele, ora come scandaloso decisione degli stessi arabi-palestinesi accusati di non avere avuto il coraggio di restare e combattere o di approfittare degli eventi per ottenere condizioni migliori nei luoghi in cui si trasferivano. Testimonianze in questo senso, cioè della decisione autonoma e non forzata di andare via, ci è offerta da un’autorevole fonte, ci si riferisce al comandante della legione araba di Transgiordania, Glubb Pascià, un ex ufficiale britannico che aveva trovato utile mettersi al servizio degli arabi. Glubb segnala l’ostilità che si registrava negli arabi palestinesi nei confronti degli eserciti arabi al punto da preferire gli ebrei agli arabi. Da non dimenticare che, alcuni arabi di Palestina resistettero all’ordine di evacuazione e per questo subirono violenze e ritorsioni come ci ricorda la denuncia di Haji Nimer el Khatih, importante esponente del clan più potente fra i palestinesi, ci si riferisce a quel del gran muftì di Gerusalemme Husseini. D’altra parte, per correttezza di esposizione, non si può trascurare che, nel 1948, l’Alto Comitato Arabo, avesse intimato via radio agli arabi palestinesi di andarsene additando coloro che volevano restare come traditori. La Nakba sarebbe, dunque, una mistificazione, un mito artificiosamente creato, come i famosi protocolli di Sion, per screditare gli ebrei di Israele. C’è ora da chiedersi come sia venuta fuori questa mistificazione. La risposta ce la dà Edward Atiyah, nel ’48 rappresentante della Lega Araba a Londra. Atiyah testimoniò infatti che il mito della Nakba era stato creato ad hoc da parte della stampa araba e da alcuni maggiorenti arabi per coprire il grave errore commesso quando avevano promesso ai palestinesi, costretti ad obbedire al loro ordine di evacuazione, che sarebbero ritornati da vincitori magari appropriandosi di quanto gli ebrei avevano lasciato. Anche il vescovo cattolico George Hakim, successivamente consacrato patriarca di Gerusalemme, confermò in un’intervista al giornale Sada al-Janub la stessa versione. L’esodo, riguardò oltre seicentomila arabi di Palestina che trovarono ospitalità, si fa per dire perché fin da subito vennero considerati ospiti sgraditi, negli stati arabi vicini a cominciare dalla Giordania. Il tema dell’esodo, anche se poteva offrire la disponibilità di spazi agli stessi israeliani, non lasciò insensibile la leadership ebraica tanto è vero che lo stesso Ben Gurion dichiarò pubblicamente che “Quando i Paesi arabi saranno disponibili a firmare un trattato di pace con Israele…gli ex residenti arabi nel territorio di Israele saranno autorizzati a tornare.” Per intanto, è questo mostra ancora una volta la grande disponibilità di Israele, le autorità ebree provvidero a nominare un amministratore delle proprietà abbandonate, e questo per evitare occupazioni abusive di case vuote o esercizi commerciali lasciati, in attesa della restituzione ai legittimi proprietari. Come è noto, gli stati arabi per decenni si sono ostinati a non firmare un trattato di pace col risultato che tutti conosciamo.

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