"Per Mario Inglese" prefazione di Valerio Magrelli a "Dell'assenza e della meraviglia" di Mario Inglese (Ed. Thule)

Conosco Mario Inglese da una trentina d’anni. Lo conosco però soprattutto come critico letterario e traduttore, oltre che come amico. Ne ho seguito le avventurose peripezie oceaniche, che lo hanno spinto via via in America, Australia, Irlanda, a partire dalla natìa Sicilia. Migrazioni professionali, come docente di letteratura italiana, ma anche culturali e soprattutto linguistiche, come dimostrano alcuni versi inglesi che Inglese ha accolto in questa sua silloge, e una lirica, Spes contra spem, composta tra Galway e Palermo come indicato nella nota finale. “Straniero in patria”, recita peraltro un verso di Natale ancora. Ma non è tanto questo, l’esilio, scrive altrove Inglese, poiché l’esilio è la vita stessa, “e non è banale truismo, / il suo lento, / purgatoriale procedere”.

Venendo dunque a questi versi, non posso certo negare quanto li abbia sentiti vicini, non fosse altro perché mi sono visto chiamato in causa, oltre che da Body art, dalla dedica di una poesia che proprio di lingua parla, un testo che affronta una terza dimensione idiomatica, oltre quella dell’italiano e dell’inglese. Mi riferisco a una composizione sul dialetto, consacrata a misurare la lacerante distanza che si apre tra i parlanti in seno alla stessa famiglia, quasi a marcare un distacco ancora più profondo di quello geografico.

Partendo insomma da un legame di stima e affetto, è stato con un sentimento di vera sorpresa che ho cominciato a leggere la raccolta Dell'assenza e della meraviglia. Con sorpresa e piacere, devo aggiungere, visto che mi sono quasi immediatamente imbattuto in un testo di grande forza visiva ed emotiva.

Mi riferisco a uno di quelli che, posti ad apertura di libro, si collocano nel segno di una figura insieme familiare e tecnologica come il frigorifero. Il pensiero mi è subito andato a Vladimir Nabokov, o meglio al Nabokov poeta, autore di una lirica memorabile, cioè Crash! Ebbene, proprio come in quel modello, Inglese si concentra sulla sfera acustica, attratto appunto dal “ronzio del frigo”, dal “respiro del freezer”. Quel misterioso ma consueto alitare dell’elettrodomestico si associa subito dopo al “rumore sordo” degli pneumatici sull’asfalto, per iscrivere la sua tenue presenza sonora sull’“epidermide del silenzio”. Da qui la clausola, assorta e metafisica: “Rinascono le cose anche oggi, / aspettano pazienti / che qualcuno le guardi”. Di questa enigmatica, perturbante vita delle cose parlano molte composizioni, benché tra i primi titoli di questo volume se ne segnali uno che recita, al contrario, La morte delle cose, concludendosi con l’evocazione del lento “stillicidio dei giorni futuri”. Del pari, nell’Assedio, dopo due lunghe liste a mo’ di enumeración caótica (quella figura retorica che consiste nell’accumulo di parole), leggiamo: “Qui gli oggetti / usurpano lo spazio, / sfidano il tempo, / sfuggono al controllo / di chi li ha accolti”.

Un caso a sé è rappresentato dal poemetto in sette parti Opere di misericordia spirituale, tutto centrato invece sul rapporto con gli altri, o meglio, sulla difficoltà di tale rapporto, andando “contro le forze centrifughe / e subdole dell’egoismo”. Si tratta di un curioso, e alquanto raro, esempio di poemetto morale. “Con buona pace della / correzione fraterna”, osserva infatti l’autore, molto spesso si finisce per sfilare “la cruna / delle proprie afflizioni”. Tra tanti compiti etici, il perdono consiste nel regalare l’amicizia, “forsanche l’amore, inestimabile valore; / prezzo come antidoto al disprezzo”. E qui due rime si incaricano di riassumere, sigillandola, un’esperienza tanto ardua e meritoria. Molto felice, poi, la descrizione di un addio: “Finché il legame / non si sciolga / come morbido fiocco di seta, / come rapido ruscello / che scorre via. / E così sia” – con la consueta rima a suggellare l’improvvisa modulazione analogica.

Ma la presenza delle cose, ossia la loro relazione con la carne, torna più volte, assillante. Lo si nota in un passo dove il corpo è presentato alla stregua di un “prisma di dolore”. D’altronde, anche in Elegia per la madre, dopo che la protagonista ha osservato come i vetri della finestra appaiano rigati di pianto, Inglese aggiunge: “Perché mia madre spesso, / senza volerlo, / dava vita agli oggetti, / trasfigurandoli”. E ancora, da Esilio: “Gesti, atti, riti, / il corso delle cose, / umile, temibile, / inesorabile, invincibile”.

Ciò non toglie che il paesaggio rivendichi con forza le sue ragioni. È il caso di Vancouver, allorquando, nella luce decisa di un agosto dall’aspetto mediterraneo, “la baia si sbriciola / in scaglie di cobalto”. Un altro tipo di paesaggio è poi quello affidato alle liriche di Meditazioni sulla notte. Non per niente, secondo la toccante citazione di Henri Michaux, vi si narra della maniera in cui, nel buio, l’io del soggetto si allarghi fino a inglobare spazi ulteriori, sconosciuti: “L’insonnia dilata il tempo / annettendo alla coscienza / nuovi territori”.

Ho iniziato parlando di Mario Inglese critico e traduttore. Ebbene, vorrei concludere questa breve nota con La cattedrale di Galway. Mi sembra che questo testo sia significativo per il suo ampio giro di compasso, ossia per come si interroghi prima sulla lingua, poi sui parlanti, arrivando a immaginare una sorta di umanissima grammatica dei corpi: “Tradurre da un idioma all’altro / è forse più facile, dopo tutto, / che decifrare un’indole estranea”.

 

 

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