Handke il conservatore e la stanchezza dell’Europa - di Marcello Veneziani
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- Category: Scritture
- Creato: 27 Maggio 2025
- Scritto da Redazione Culturelite
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La stanchezza dell’Europa e il peso del mondo, è in sintesi la condizione attuale della cultura occidentale. Si avverte la stanchezza di vita e di idee, che è pure vecchiezza, schiacciata ed emarginata sotto il peso del presente globale. Ricavo le due espressioni usate, la stanchezza e il peso del mondo dai titoli di due opere di Peter Handke, scrittore austriaco ottantaduenne e controverso premio Nobel per la letteratura nel 2019 anche (ma non solo) per aver difeso la causa serba. Ad Handke e alla sua produzione teatrale e letteraria il Teatro Stabile del Veneto dedica un Progetto con un convegno dedicato a lui e alla sua opera nell’auditorium Santa Margherita di Venezia, a cui ho partecipato in apertura. Chi è Handke e che rapporto ha con la cultura europea di oggi?
Per rappresentare il suo ruolo appartato ma essenziale in quel che resta della cultura europea oggi, ricorro a una metafora. Un tempo c’erano gli scrittori e i pensatori del mattino, ovvero quegli autori profetici che annunciano il giorno che verrà. Sono i pensatori dell’Aurora e del primo mattino, sulla scia di Nietzsche e del suo Zarathustra ma anche di Marx, che promisero l’uomo nuovo e il mondo nuovo, attraverso radicali mutazioni e rivoluzioni. Poi vennero i pensatori della sera, crepuscolari testimoni della decadenza, come fu il caso della vasta letteratura della crisi tra le due guerre: da Paul Valéry al filone della Finis Austriae, che raccontava il tramonto del mondo di ieri (per dirla con Stefan Zweig) con Robert Musil, Herman Broch, Hugo von Hofmannsthal, per citare solo letterati austriaci. Vennero poi gli scrittori della notte, gli apocalittici, quelli che annunciarono nel secondo dopoguerra non il declinare di un mondo e di un’epoca, sepolti dalla modernità e dalla prima guerra mondiale ma la fine della storia, la catastrofe seguita alla modernità, l’avvento del nichilismo. Ce ne furono tanti, da Cioran agli antimoderni o per citare gli italiani Pasolini, Ceronetti, Quinzio, Zolla.
Handke, invece, è uno scrittore pomeridiano, non a caso una delle sue opere più note è Pomeriggio di uno scrittore; egli sa di vivere nel Dopostoria, non annuncia nuove epoche né catastrofi, non vive il mattino del mondo né la sera o la notte. Descrive il dettaglio, il particolare, la vita di ogni giorno, nello svolgersi pomeridiano, ovvero nelle ore – al sud si direbbe alla controra – meno gloriose della giornata. Il pomeriggio è il momento più umile, meno enfatico della giornata, non ha la maestà del mattino né la tragica solennità della notte, e non racconta l’enfasi di crepuscoli epocali. Vive la pancia della giornata, ama lo sguardo corto, si rifugia nella lieve dolcezza di un paesaggio. Lo scrittore sa di vivere nell’età del vuoto ma ritiene che il vuoto sia il laboratorio di ricerca dello scrittore, la sua officina. Nota Giorgio Agamben: “C’è una speciale salvezza del piccolo, una magia di ciò che è stato diminuito e ridotto. È come se l’oggetto rimpicciolito si svincolasse dalle dure leggi della realtà per spostarsi in un altro universo”. Handke racconta la stanchezza di vivere, ma non evoca conflitti e drammi, semmai narra il perdersi delle relazioni sociali negli angusti confini del presente; ma cerca discrete rinascite e doni creativi nella contemplazione che sorge con la stanchezza.
A voler trovare un precedente letterario mitteleuropeo, Handke sembra riprendere La passeggiata di Robert Walser, animata dal vivo sentimento del mondo e dal camminare. “Ridono e nascono nel va e vieni del mondo – scrive Walser nella sua poesia Mondo – Si concedono nel passare, s’ingrandiscono nel fuggire, svanire è la loro vita”. Handke passeggia dentro la realtà, non pretende di uscire annunciando Inizi o Apocalissi. È lontano il ricordo di quel mondo all’ombra dell’Impero asburgico, quell’Austria felix con l’Aquila nel suo stemma araldico. In Handke forse resta il ricordo domestico di Cacania, come Musil chiamava con benevola ironia l’Impero al suo epilogo. Un regime all’antica, autoritario, temperato dall’inefficienza e dall’indulgenza paternalistica. Per Musil anche “gli avvenimenti mirabolanti e i colpi del destino” in Cacania, “diventavano lievi come piume e pensieri”.
Handke non svela alcuna Verità ma descrive solo la realtà e i suoi frammenti. Ama i sogni che sono miti ad personam, a nostra altezza, che ci fanno vivere e lievitare. Non canta l’Essere ma gli esseri; non cerca il mondo perfetto ma “la giornata riuscita”, titolo di un’altra sua opera, sintesi della sua breve filosofia del quotidiano. Ci racconta i risvolti minori della vita, il dolce peso delle consuetudini e gli sguardi rivolti al mondo. Il suo conservatorismo non guarda ai grandi pilastri della tradizione; si accontenta di ascoltare Yesterday di Paul McCartney anziché Imagine di John Lennon. Non canta l’eternità o l’immortalità ma più modestamente la durata. Il canto alla durata è un poema del 1986 che forse è l’opera più bella di Handke. “È da tanto che voglio scrivere – esordisce- qualcosa sulla durata, non un saggio, non un testo teatrale, non una storia – la durata induce alla poesia”. Si, la poesia è l’impresa di mettere in salvo ciò che è destinato a svanire; un momento, uno scorcio, uno sguardo, uno stato d’animo, un incontro, un addio, un atto di nostalgia preventiva. Handke declina la durata in tanti piccoli istanti, gesti, sensazioni; la percezione della durata “è il momento in cui ci si mette in ascolto, il momento in cui ci si raccoglie in se stessi, in cui ci si sente avvolgere” e ci sentiamo raggiungere da qualcosa. La durata è la sensazione di vivere. La durata richiede attenzione, che è la prima facoltà spirituale per Simone Weil. Nella durata Handke intende restare fedele a ciò che gli è caro, impedire che si cancelli, che resti una traccia, forse anche il suo culto degli avi. “Il canto della durata è una poesia d’amore”. Il pensiero “più elevato” è “salvare, salvare salvare!”. Ma la durata non è inerzia. “Devo andare incontro alla durata…Non a chi sta seduto a casa ma al viandante sul cammino del ritorno si avvicina la durata, come a Odisseo”. Nello stato di grazia delle durata non si è più soli, nota Handke, “Sostenuto dalla durata, io, essere effimero, porto sulle mie spalle i miei predecessori e i miei successori, un peso che mi eleva”. La durata “è una grazia”, annoda il presente al passato e al futuro e i presenti agli assenti. Chi non ha mai provato la durata, aggiunge, non ha vissuto; la durata non è nella pietra immortale “ma dentro il tempo, nel morbido”. A differenza di Bergson, Handke non oppone la durata all’intensità, perché nel cuore della durata trova l’intensità. Altrove scrive, citando Goethe, “nella mia cerchia ristretta, cerco di tenere in vita quel che viene dalla tradizione”.
Con le parole della vita quotidiana, senza squilli di trombe, Handke riporta all’essenza della vita; mettere in salvo è un sano principio conservatore. Pur essendo uno scrittore impolitico, che vede la politica “come una minaccia”, scrive in Dialogo, è proprio questo suo spirito conservatore a essere guardato con sospetto dai suoi critici, quel suo non appartenere ai “balbettii artificiali” e alle maschere del “birignao internazionale”, come scrive ne Il peso del mondo. Handke non cerca e non combatte nemici, ma è considerato un corpo estraneo ed ostile nella letteratura contemporanea dai nuovi filistei della cultura. Handke canta il dolce rumore della vita e la gioia durevole delle cose. “Scrivere come un silenzioso festeggiare”…
La Verità – 7 maggio 2025