Il tempo ritrovato dell’Eneide – analisi e ricerca letteraria di Giovanni Teresi

Nella storia del latino letterario Virgilio sta alla poesia come Cicerone sta alla prosa. Questa proporzione è uno dei miti portanti dall’umanesimo, ma riflette una realtà storica. Virgilio ha rifondato la lingua poetica di Roma e ne ha fatto un lascito intramontabile. Una certa dipendenza dai predecessori (Ennio, Lucrezio, Catullo), nel lessico e in certe immagini, è senz’altro riscontrabile, ma il latino virgiliano vive tutto al di fuori delle costrizioni tradizionali: assimila e riordina, non subisce.

Tanto eccelle Lucrezio nella riforma del lessico quanto Virgilio nella ristrutturazione della sintassi. Nessuna traccia di schematismo o di prefabbricato. Lucrezio mostra e definisce, Virgilio movimenta e drammatizza. Lucrezio tende a contenere in un singolo verso un’unità sintattica compiuta. Virgilio, se anche crea versi che coincidono con frasi finite, di principio spinge la frase oltre la misura del singolo verso (come, certo, vuole la natura narrativa del suo poema); e, in questo modo, crea enjambement, il tratto più distintivo della sua lingua, direi addirittura la struttura più profonda della sua mente. Assai spesso nell’Eneide la prima parola del verso che segue è il verbo di quello che precede. Qualunque inerzia risulta azzerata. In enjambement – va da sé – si può trovare anche un aggettivo, anche un avverbio, insomma qualunque parte del discorso: e anche in questi casi il senso della parola si intensifica.

La semantica, dunque, in Virgilio, acquista pienezza di senso e si riverbera nel discorso non a partire da una aprioristica assegnazione di significato – il caso di Lucrezio, puntiglioso lessicografo –, ma dalla posizione che la parola si ritrova a occupare nella frase. Virgilio è davvero un maestro dell’ordo verborum. Leggendo l’Eneide, si avverte una libertà, una fluidità che Lucrezio non comunica; e con questa libertà, però, si percepisce anche l’esattezza, il controllo perfetto di tutti i movimenti dell’ingranaggio del sistema poetico.

Un altro tratto tipico, che informa temi e stile: la memoria. Ancora, in fondo, una questione di “ordine”, di “collocazione”. Enea ricorda, Didone ricorda. Tutto e tutti hanno l’anima piena di passato. Questo poema è già una “ricerca del tempo perduto”. Si dirà che l’Odissea lo è ancor prima. L’Odissea, in verità, è un canto sul ritorno. Odisseo ricorda una patria e lì, a un certo punto, effettivamente ritorna. Il tempo ritrovato dell’Eneide, invece, non è un ritorno, ma un’illusione, un recupero vicario, perché avviene in un altrove: nel Lazio, non certo a Troia, che è distrutta. Ha, dunque, sempre qualcosa del rimpianto; è indistinguibile dal pensiero dell’irrevocabile.

E Virgilio è così nostalgico, così devotamente rivolto al ricordo che non solo crea personaggi che ricordano e che più non vorrebbero farlo, ma ci fa vedere in vere e proprie epifanie come le cose invecchiano e perdono il loro senso originario, e perfino diventano segni e strumenti di morte.

Gli oggetti dell’Eneide! Stanno lì per dirci che un mondo è finito, per confondere oggi e ieri e domani.

Enea è approdato, con le sue navi, sulle sponde del Tevere. Il giorno seguente, all’alba, molti si recano a ispezionare il territorio: “e la cittade /  Da’ feroci Latini era abitata”.

Enea sceglie cento oratori e, coronati d’oliva, carichi di doni, li invia a trattare amicizia, comodi e pace. Gli ambasciatori ammirano “l’alte torri, i gran palagiil fior de’ giovinetti loro / Su’ cavalli e su’ carri esercitarsi.”

Dal verso 255 trascriviamo, versi scomparsi, ritenendo ciò assai utile per la comprensione delle civiltà preromane …

 Era la corte1 un ampio, antico, augusto

Di più di cento colonnati estrutto2

In cima a la Città sublime albergo.

Pico di Laurento il vecchio3 rege

L’hauea fondata. Era d’oscure selve,

Era de’Numi de’primi avi suoi

Sovra d’ogn’altra veneranda, e sacra.

Qui de’lor scettri, qui de’primi fasci

S’investivano i Regi. In questo tempio

Era la curia, eran le sacre cene,

Eran de’Padri i publici conviti

De l’occiso Ariete. Hauea d’antico

Cedro nel primo entrar, un dietro a l’altro

De’suoi grand’avi i Simolacri4 eretti.

Italo v’era, e ’l buon padre Sabino,

Saturno con la vite, e con la falce,

Giano con le due teste: e gli altri Regi

Tutti di mano in man, che combattendo

Non fur di sangue a la lor patria avari.

Pendean da le pareti e da’ pilastri

Un gran numero d’armi, e d’altre spoglie

Prese in battaglia. A i portici d’intorno

Carri, trofei, catene, elmi, e cimieri,

Et securi e corrozze5 e scudi, e lance,

Et rostri di navili, e ferri, e sbarre,

Di fracassate porte erano affisse.

In habito succinto, e con la verga6,

Che fu poi di Quirino7, e con l’Ancile8

Ne la sinistraesso Re Pico assiso

V’era pria cavaliero e poscia augello.

Ch’in augello il cangiò la maga Circe

Sdegnosa amante: e gli suoi regi  fregi

Gli converse in colori, e’l manto in ali.

In questo tempio sovra al seggio agiato

De’ suoi maggiori, a se Latino i Teucri9

Chiamar si fece.

 

(VII dell’Eneide  – edizione SAI a cura  di Cesare Paperini, traduzione di A. Caro)

 

Note – 1) Reggia; 2) fabbricato, vedi Tommmaseo 1924; 3) vecchio sta per antico Re o va inteso come Re in età avanzata? Nel secondo caso, prima di costruire la reggia avrebbe conquistato il Piceno. Era già Re dei Piceni prima di essere Re dei latini; 4) statue; 5) gran numero di mezzi di trasporto, con carri da guerra; 6) segno del potere; il vergaro è ancora il nome che nelle Marche indica il padrone delle aziende agricole; 7) Romolo; 8) scudo dei piceni; 9) gli uomini di Enea.

 

Ora, prendiamo il momento che precede il suicidio di Didone, momento davvero esemplare.

Il narratore sottolinea che la spada è un dono del troiano Enea. Ma no, non è il narratore: quell’osservazione è nella mente della stessa Didone; è un discorso riportato. La spada sguainata è, letteralmente, un “ricordo”. La grammatica stessa inscena, nel giro di un solo periodo, il convergere di passato presente e futuro nei tre participi: “coeptis” (l’azione appena intrapresa), “futura” (l’imminenza ineludibile della fine), “quaesitum” (l’evento originario, la richiesta del dono/pegno). “Morte futura”, crudele ossimoro, rincara la dose; l’essere e il non essere fatti concordare.

Mentre i Troiani preparano la flotta, Didone, sispera, vaga come impazzita per la città: le sembra di vedere ovunque il volto dell’amato e ormai vuole solo morire. Infine parla così alla sorella:

 

Anna, ho trovato il modo per liberarmi di questo amore tremendo. Una maga mi ha detto che, se brucerò tutti gli oggetti appartenenti a quell’uomo spietato, anche il mio amore per lui avrà fine. Aiutami quindi a preparare un rogo

 

Anna aiuta la sorella. Non può sapere che Didone aveva deciso di suicidarsi. All’alba, quando vede dall’alto della città le navi di Enea ormai in alto mare, Didone sente nascere dall’amore ferito un implacabile odio e, con il volto stravolto, pronuncia una terribile maledizione:

 

O Furie vendicatrici, se è destino che quell’uomo infame raggiunga l’Italia, fate almeno che soffra per la sua crudeltà. E voi, Cartaginesi, perseguitate con odio eterno la sua stirpe! Nascerà un giorno dalle mie ossa un vendicatore, che porterà la guerra tra le nostre genti. Scorrerà sangue infinito”.

Poi, finalmente sola, si trafigge con la spada che Enea le aveva donato. La sua veste bianca si tinge di sangue scarlatto. Gridano disperate le ancelle; i gemiti si levano fino alle stelle. Anna, sconvolta, accorre e s’inginocchia in lacrime accanto a Didone, dicendo:

Perché, perché non mi hai detto niente? Con le mie mani ti ho preparato il rogo di morte: perché ingannare anche me?

La regina con gli occhi ormai velati cercava invano la luce del sole. E la sua vita si perse nel vento.

Nell’eventualità di una catastrofe totale l’Eneide sarebbe il libro da salvare, perché è l’anticipazione di molti altri libri, ed è una condensazione dell’Odissea e dell’Iliade, i libri più antichi della civiltà occidentale. Quando sant’Agostino, nel De civitate dei, cerca argomenti per affermare la superiorità della nuova religione cristiana, proprio dall’Eneide trae esempi per screditare tutto il paganesimo, perché l’Eneide era assurta a testo di tutta una civiltà, era davvero l’altro vangelo.

L’estinzione, comunque, l’Eneide non l’ha mai rischiata, a parte quando Virgilio stesso, in punto di morte, non avendo potuto dare l’ultima mano, chiese agli amici di bruciarla. Ma gli amici disobbedirono, e dei classici antichi l’Eneide è quello che ha ricevuto la più prolungata e regolare lettura. Nessuna epoca è rimasta senza l’Eneide. Nessuna epoca l’ha dovuta riscoprire – come, invece, si sono dovuti riscoprire Lucrezio, Catullo e molti altri. Neppure l’opposizione cristiana, tanto efficace in certi casi, è bastata. E si arriva al tempo in cui il poeta cristiano per eccellenza, Dante, fa di Virgilio addirittura il suo maestro. Così Petrarca, l’altro capostipite della letteratura italiana, altro cristiano, a Virgilio rivolge un culto tutto personale.

La fortuna di Virgilio sta prima di tutto nella bellezza della sua lingua. Nessun altro poeta antico, neppure il bravissimo Orazio, gli è pari. Nessuno dice come dice lui; nessuno convince come convince lui; nessuno rappresenta come rappresenta lui; nessuno commuove come commuove lui.

 

Giovanni Teresi

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