Il visionario di piazza Marina - Racconto di Carlo Puleo
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- Category: Scritture
- Creato: 13 Gennaio 2025
- Scritto da Redazione Culturelite
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«Venga professore, oggi ci sono novità»: è questa la tipica frase dei venditori di anticaglie. Era una domenica di fine luglio, dopo una settimana lo scirocco afoso si era attenuato, lasciando ovunque come un velo di sabbia sahariana. Intorno alle otto, per Piazza Marina, a Palermo, si aggirava poca gente, i venditori erano intenti a sistemare le loro merci, esponendole in modo da suscitare la curiosità dei visitatori. In quelle prime ore si incontrano solitamente solo collezionisti e patiti dell’antico, che sperano per un colpo di fortuna di scovare il pezzo di valore. Quella mattina c’erano tutti: dal collezionista di vecchi orologi a quello di cartoline e immaginette sacre, oltre ai patiti di libri e manoscritti. Raramente si fermano a discutere, un saluto appena e si tuffano a rovistare. Dopo aver fatto il giro delle bancarelle, s’intrattengono fra di loro a commentare gli oggetti acquistati. Quando adocchiano il “pezzo” che interessa, è loro abitudine non mostrare entusiasmi, fingendo e continuando a rovistare, con aria delusa. Sarebbe un grosso errore lasciar intendere che si è trovato qualcosa di interessante, poiché il venditore ne profitterebbe per alzare il prezzo. Si finge allora di non aver trovato nulla e si accenna ad andarsene, dopo di che si torna indietro e si chiede il prezzo, con noncuranza. I vecchi venditori, che conoscono bene i clienti abituali e le loro strategie, stanno al gioco e fingono di non capire.
I visitatori occasionali e i turisti affluiscono dopo le nove, quando hanno ormai rovistato tutto gli habitué, a cui i bancarellari, per accaparrarsi la loro presenza, promettono altre novità per la successiva settimana, ricavate dagli “sbarazzi” in corso.
Il professore Tommaso Romano si aggirava con aria delusa quando un venditore lo chiamò: «Professo’ venga, ho una cosa importante per lei». Si accostò alla bancarella con la solita flemma e diffidenza. L’uomo, con fare circospetto, si guardò intorno, cavò da una busta un involucro e lo srotolò lentamente. Ne venne fuori una grossa e grossolana serratura. «Professo’, la guardi bene: è fatta a mano, ferro battuto, non ci sono saldature, solo perni. È dell’Ottocento» e intanto cercava di porgergliela. Il professore si scostò, non volle toccarla, sia per la ruggine che per la polvere, diede una fugace occhiata e con controllato garbo disse che lui non praticava quel genere di collezioni e che era interessato invece a quadri, libri e cornici antiche. Ma l’uomo tornò alla carica: «Professo’, questa serratura è speciale, ha un valore storico, proviene da Palazzo Lampedusa, la dimora di quello che ha scritto “Il gattopardo”. Il professore lo guardò in faccia, poi domando: «Tu come fai a stabilirlo?». Il venditore, in tono risentito, rispose: « Lei sa che il palazzo è stato bombardato nell’ultima guerra. Mio padre, che allora abitava in Via Bara all’Olivella, l’ha trovata in strada fra le macerie. Doveva essere la serratura di un magazzino o di una stalla. Mio padre era uno che amava le cose antiche, l’ha tenuta appesa come una reliquia. Io per bisogno ho deciso di venderla, mi faccia un’offerta. Lei è uomo di cultura e sa valutarla.»
«Guardi, signor Alfonso», ribatté il professore, «io sono lontano da questo genere e non saprei che dirle, vedrà che prima o poi troverà l’amatore, disposto a pagarla anche bene» e dopo un cenno di saluto fece per andarsene.
Un cane sporco e spelacchiato si aggirava intorno alla bancarella e andò a strofinarsi fra le gambe del professore. Questi, intimorito, si scostò pensando si trattasse del solito randagio affamato. «Professo’, non si spaventi, è il mio cane, è buono. È da una settimana che non mi lascia un secondo. Mi ha scelto lui, l’ho chiamato Scillo. Lo guardi bene negli occhi, non trova che ha lo sguardo umano?». Al diniego del professore, l’altro aggiunse: «Mi creda, ha lo stesso sguardo di mia madre che, poveretta, è morta dieci giorni fa. Questo povero animale russa proprio come mia madre.»
Il professore soggiunse: «Ma davvero? Allora lei crede nell’incarnazione?»
«Adesso si, credo che lo abbia mandato mia madre per tenermi compagnia». Il Prof. Romano lo ascoltava e nel contempo sfogliava una rivista e di tanto in tanto dava uno sguardo al cane e all’uomo. Questi, accortosi di essere studiato, aggiunse: «Professò’, lei non crede in queste cose, guardi che io sono un sensitivo. La vede quella colonna nel giardino? Là vicino venivano giustiziati i condannati dell’Inquisizione, le confesso che certe giornate sento i loro lamenti e vedo anche delle ombre che si aggirano. »
«E tu che fai quando senti questi lamenti?»
«E che posso fare? Mi faccio il segno della croce. Professo’, mi crede o non mi crede?»
«Mah! È tutto un mistero. Ti capita di sognare queste cose anche la notte?» Alfonso percepì a cosa volesse alludere il professore e con espressione risentita mosse la testa in segno di diniego.
Il professore si spostò nella bancarella accanto, colma di libri e vecchie riviste e si diede a rovistare, ripetendosi mentalmente: “Niente, una mattinata persa”. Negli ultimi tempi era diventato sempre più raro scovare qualcosa di interessante. Proseguì il giro con aria annoiata, si soffermò a curiosare fra la miriade di stampe e quadretti appesi nell’inferriata della villa. Si trattava dei soliti dipinti oleografici e stampe di scarso valore. Notò in una bancarella computer e telefonini di tutte le fogge, che ormai avevano fatto anch’essi il loro ingresso nel cosiddetto reparto del modernariato.
Incontrò un vecchio conoscente, intento ad ammirare una tazza che rigirava fra le mani. Quando gli chiese incuriosito: «Che te ne fai adesso di un a sola tazza?», l’altro, a sua volta, lo guardò stupito e gli rispose: «Che me ne faccio? A casa ne ho altre cinque, me ne mancava una per completare il servizio, sono anni che ne vado alla ricerca e non speravo più di trovarne una uguale».
Giunto accanto al grande ficus proprio di fronte allo storico Palazzo Steri, osservò una ruota di curiosi che stazionavano attorno alla bancarella di una coppia di venditori che trattava cartoline e oggetti di bigiotteria realizzati da loro stessi, in quel momento impegnati in un litigio. La donna, dai caratteri felliniani, vestiva in modo eccentrico e calzava alti trampoloni che le davano movenze tipiche dei pupi siciliani. Possedeva un frasario originale, infarcito di neologismi piuttosto colorati, che scagliava con voce sguaiata verso il compagno, il quale non si mostrava di meno, ostentando un gergo marcatamente palermitano che andava caricandosi di forza espressiva. Una buona parte degli astanti mostrava di parteggiare per la donna; quelli che parteggiavamo per l’uomo assumevano invece un’espressione vagamente divertita. La scintilla del diverbio scoccava al momento di disporre la mercanzia sulla bancarella, non coincidendo quasi mai i loro gusti e criteri. Raggiunto infine l’accordo, si poteva notare che parecchi astanti continuavano a soffermarsi e a rovistare. Perciò il Prof. Romano aveva il sospetto che quei loro frequenti litigi fossero programmati e concordati, proprio allo scopo di attirare l’attenzione dei visitatori. Quando sembrava che i due stessero per venire alle mani, c’era sempre qualcuno che interveniva, prodigandosi a rappacificarli. Il professore non riusciva a determinare se il paciere fosse un compare o un generoso visitatore.
Il professore si spostò quindi verso la bancarella di un venditore, nella quale ogni cosa era ammucchiata alla rinfusa. Gran parte della mercanzia era riposta in scatoloni che, di tanto in tanto, erano svuotati sul tavolo, in modo da tenere i visitatori in attesa e sollecitarne la curiosità. Il Prof. Romano, rovistando in un cumulo di libri, trovò un vecchio numero della rivista “Arenaria”, che gli mancava. Impiegò circa un paio d’ore per completare il suo giro.
Giunto nei pressi della bancarella di Alfonso notò che questi stava trattando la serratura con due turiste, si fermò a breve distanza per non intralciare la trattativa restando nel frattempo ad ascoltare.
«Vi garantisco che questa serratura proviene da Palazzo Lampedusa, proprio il palazzo del principe, quello che ha scritto il romanzo “Il gattopardo”. Mio padre, buonanima, l’ha trovato in strada fra le macerie, dopo il bombardamento. Per tanti anni l’ha tenuta come una reliquia, io adesso per bisogno me ne privo.»
Le due turiste confabulavano tra loro sottovoce. Il Prof. Romano colse dal loro accento che erano lombarde. Dopo un tira e molla sul prezzo, una di esse cavò dal borsello settanta euro, che porse ad Alfonso. Questi aveva assunto l’espressione di chi si trovi costretto a cedere qualcosa di particolarmente caro. Avvolse la serratura e la consegnò con una stretta di mano. Quando le due donne si furono allontanate con il prezioso carico, il professore si accostò con l’aria di chi non aveva visto né sentito nulla e domandò: « Signor Alfonso, com’è andata la vendita oggi? ». Egli rivolse un rapido sguardo verso il cielo e rispose in maniera lapidaria: «Professò, c’è mia madre che mi assiste.»
Si chinò e fece una carezza al cane.
