“L’Oriente di Dacia Maraini” di Maria Nivea Zagarella
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- Category: Scritture
- Creato: 11 Marzo 2025
- Scritto da Redazione Culturelite
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La produzione letteraria di Dacia Maraini corre sul doppio binario dell’autobiografismo diretto (Bagheria, 1993) o indiretto, e della riflessione sulla condizione femminile indagata nel suo rapporto col mondo storico e con quello spesso oscuro della psiche. Riflessione avviata dalla scrittrice già negli anni ’60/’70 e allora allineata con le rivendicazioni del femminismo, in una fase storica che registrerà in Italia le vittorie politiche del divorzio, della legalizzazione dell’aborto, della parità economica fra i coniugi, della abolizione del reato di adulterio. Tale doppia linea narrativa si stabilizza dagli anni ’80 in poi, incrociandosi, talora nello stesso libro, con altre questioni sociali come gli abusi sui minori, il problema ambientale, la libertà d’espressione.
Il recente libro Sguardo a oriente offre una sintetica panoramica degli interessi della scrittrice anche perché, strutturalmente, è una silloge composita di testi, in prevalenza articoli della Maraini dell’ultimo trentennio circa, editi su testate diverse: Corriere delle sera, IO Donna, Il Messaggero, L’Unità…. Vi troviamo pure una lunga nota, con tutte le sue ombre, su un lontano viaggio di Dacia in Cina con Alberto Moravia negli anni della rivoluzione culturale maoista. Una Cina invasa in quel periodo di libretti rossi (con i pensieri di Mao) e dalle giornate inesorabilmente “scandite” da slogan e marziali “balli rivoluzionari”, e da una propaganda anticapitalista e antiborghese che investiva anche il “gusto del cibo” (vizio borghese), l’uso femminile delle gonne (corruzione borghese), le visite turistiche, assai parziali e ultraselettive, alle tombe dei Ming (Basta una tomba -diceva la guida- per mostrare come vivevano gli sfruttatori del popolo, imperialisti e capitalisti), la censura perfino dei dipinti del giardino d’inverno, coperti da una vernice temporanea rosa, spessa e grassa, come una pasta dentifricia…. perché rappresentavano delle scene di vita di corte della vecchia monarchia. Nel libro sono presenti anche due prefazioni a due singolari volumi: uno dal titolo, Non si può incatenare il sole. Storie di donne nelle carceri iraniane di P. Najafi e H. Hajhassan, sulla lunga protesta, dal lontano 1981, delle donne iraniane contro il regime khomeinista; l’altro volume, Tibet, l’altra metà del cielo - L’alpinismo tibetano raccontato dalle protagoniste, di M. A. Sironi, H. Diemberger, S. Tsomo, su un alpinismo tibetano tutto al femminile, la cui prestigiosa storia registra le vicende straordinarie delle coraggiose alpiniste tibetane Sheirab, Pentog, Kusang, Lachyi, Purpur Droma, e accanto ad esse la polacca Rutkiewicz, la cinese Kyi Kyi, la nepalese Pemba Droma, tutte -sottolinea la Maraini- scalatrici indomite, grande esempio per le donne di tutto il mondo di indipendenza e fattività, di passione e intelligenza sportiva. La peculiarità del volume Sguardo a oriente consiste nel fatto che il ventaglio di figure, argomenti, avvenimenti riportati attinge sì prevalentemente a episodi e ricordi autobiografici della vita della scrittrice, ma spazia anche su occasioni di cronaca internazionale (guerre, regimi totalitari, attentati, stupri, iniziative umanitarie, eventi culturali…) che, attraversando in lungo e in largo il continente asiatico, ne restituiscono le trasformazioni fra “tradizione” e “modernità”, fra quelle che alla Maraini sembrano armonizzazioni possibili e ben avviate (in Giappone, Seul, Kual Lumpur, Hanoi…) e difficoltà e gravi contraddizioni invece ancora insolute (in India, Cina, Turchia...), illuminando dunque drammi attuali dell’immenso territorio continentale, e problematiche che chiamano in causa il destino collettivo dell’umanità. Indicative, e perentorie, a fine libro risultano le riflessioni in lei indotte dal disastro infinito della guerra civile nello Yemen: Chiudersi nel proprio giardino privilegiato -scrive la Maraini- è la cosa più inumana ma anche più stupida che possiamo fare. Di fronte a fenomeni così estesi e disperati non c’è muro che tenga.
La sua penna nelle sue ricognizioni è costretta quasi a muoversi di guerra in guerra, a cominciare dall’esperienza di Dacia/bambina nel campo di concentramento giapponese di Nagoya dal 1943 al 1945, dove visse nell’assillo continuo della fame, mangiando per sopravvivere anche formiche, serpentelli, felci bollite amare e legnose, topi. Donde l’attenzione in molti articoli ai bambini: quelli filippini, sfruttati, picchiati, stuprati, seviziati, arrestati per strada, soccorsi solo dai Medici Senza Frontiere e da qualche prete che li ha salvati dai turisti voraci e dalla colla, la droga dei poveri (un solvente per scarpe) che toglie fame sete paura, ma causa grossi danni neurologici; o i bimbi vittime della terribile guerra civile siriana (Perché Assad -si chiede la scrittrice nel 2016- vuole distruggere il suo popolo, compresi i bambini?) fra bombardamenti gas nervino e mine antiuomo, guerra di cui conserviamo tutti il drammatico ricordo per i milioni di profughi fuggiti in Europa. E ancora, i bambini ridotti a scheletri nello Yemen, paese -precisa la Maraini- una volta fiabesco (per come si rivela -ci ricorda- in alcune sequenze filmiche di Pasolini e nel suo documentario del 1970) con la antica sua capitale Sanaa dai palazzi di fango rossiccio, le pietre di merletto, le finestre incorniciate di gesso bianco, ma orrendamente sfigurato oggi da guerra, carestia, fanatismo religioso; o i bimbi palestinesi, vittime dell’interminabile conflitto con Israele, sanguinosamente e ferocemente riarso il 7 ottobre 2023 per l’incursione terroristica di Hamas (e non ancora chiaramente risoltosi) e dentro il continuo rinnovarsi e vanificarsi degli sforzi di gruppi come “Coalizione di donne per la Pace” o “Donne in nero”, gruppi caratterizzati -come puntualizza la scrittrice già in articoli del 2008/2009- dalla collaborativa compresenza di donne ebree e palestinesi per la ricerca tenace di punti di dialogo e convivenza pacifica fra i due popoli secondo le disattese purtroppo dai politici risoluzioni dell’Onu!... Attive nell’antimilitarismo e impegno globale per la giustizia e i diritti, le “Donne in nero” e quelle dell’“Associazione italiana donne per lo sviluppo” (Aidos) risultano impegnate anche negli aiuti e nella difesa delle donne afgane contro le vessazioni dei talebani che, tornati al potere in Afghanistan nel 2021, come già nel 1996, le hanno “sepolte vive“ in casa, escludendole dai luoghi di lavoro, dalle scuole, vietando loro di uscire da sole, sempre più inasprendo fino ad oggi i divieti e chiudendo loro gli spazi di autonomia. Ma -osserva opportunamente la Maraini in un articolo del 2021- i diritti civili, quali la libertà di parola, di pensiero, di movimento, non sono valori solo “occidentali”; sono valori “universali”, e non ci sarà vera emancipazione finché la cultura dei Padri non avrà accettato di dividere la guida della società col mondo femminile, rinunciando al dominio e al controllo sul corpo e sulla mente delle donne, in un comune progetto solidale per il futuro. Progetto che è il filo rosso della ribellione dal finire del 2022 anche delle donne iraniane scatenatasi, con al loro fianco giovani uomini, soprattutto dopo la morte, per le percosse della ”polizia morale”, della curda Mahsa Amini che non portava il velo “in modo appropriato” (episodio a cui si è aggiunto anche nel 2023 un altro pestaggio della polizia morale ai danni di una studentessa sedicenne perché senza velo, a parte la lunga detenzione nel terribile carcere di Evin della premio Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi). Nella prefazione al libro Non si può incatenare il sole - Storie di donne nelle carceri iraniane la Maraini ricorda altre coraggiose iraniane arrestate, uccise, o torturate fino a diventare pazze o restare menomate, come la studentessa Puoran Najafi e l’infermiera Hengameh Hajassan, autrici del volume, passate per lo stesso famigerato carcere, e in un articolo del 2018 si sofferma sulla protesta -appunto già nel 2018- di Vida Movahed, allora trentunenne e madre di un bambino di quasi due anni, che legò il suo velo bianco in cima a un bastone per dire al regime che non ne poteva più della disoccupazione, della corruzione, della mancanza di prospettive per il futuro, del [suo] stato di sudditanza come studentessa e come donna. Vida si salvò in quella circostanza grazie a una campagna internazionale di sensibilizzazione, e per l’intervento di Amnesty International.
Non mancano in Sguardo a Oriente pure l’elenco, oltre ai numerosi arresti e esecuzioni capitali, di quei tibetani che si sono suicidati (nel 2012 già 38 uomini e una giovane madre, Rikyo) per protesta contro l’occupazione cinese, che li sta spogliando della loro lingua, territorio, luoghi sacri, e il “racconto” della figura contraddittoria -come opportunamente sottolinea il prefatore del libro della Maraini, Michelangelo La Luna- della birmana San Suu Kyi dentro il contesto delle varie giunte militari alternatesi in Birmania (oggi Myanmar) dal 1962 al 2021, o delle personalità “determinate” di altre tre coraggiose donne: la pakistana Benazir Bhutto leader del Partito Popolare Pakistano uccisa nell’agguato kamikaze del 2007; la giapponese Akie Kobe, moglie dell’ex primo ministro Shinzo Abe, che nel 2015 ha pubblicamente rivendicato il suo diritto come donna all’autonomia di pensiero in politica rispetto al marito (Io penso che nel mio paese i ruoli delle donne devono cambiare… d’ora in poi vorrei esprimere le mie opinioni); la curda Ayse Deniz Karacagil morta sul fronte di Raqqa a 24 anni nel 2017, dopo avere combattuto le sue generose e idealistiche battaglie per l’ambiente (opponendosi al taglio di alberi centenari a Gezi Park, a Instanbul), per la libertà (venendo arrestata per avere manifestato contro le violenze di Erdogan ai danni dei curdi), per la pace (prendendo le armi nella guerra contro l’Isis e per la difesa del suo popolo). Lo stupro feroce infine, nel 2012, dell’indiana violentata (davanti al fidanzato) da 6 giovani su un autobus di New Dheli detta alla Maraini dure riflessioni sull’aumento della violenza nelle nostre città (i femminicidi vanno tuttora crescendo, non diminuendo) e su taluni perversi, diffusi, modelli culturali. Le donne -scrive- sono le prime vittime di una cultura della predazione, che nasce dalla paura, dalla crisi, dalla frustrazione, dall’odio per i diritti civili, dall’avversione per le regole sociali, dal disprezzo nei riguardi dei più deboli… Di fronte alla richiesta di più libertà e autonomia il mondo androcentrico… si arma di disprezzo e di rabbia vendicativa… Ma ammonisce la scrittrice: La collera delle donne offese, se diventa massa, può fare cambiare le leggi, rendere efficienti gli indagatori, prendere di mira i prepotenti. E invita tutti a “educarsi” all’indignazione collettiva, perché lo stupro -aggiunge- è una terribile ferita sociale, che non riguarda solo chi lo pratica e lo subisce, ma tutti coloro che cercano di fare convivere una umanità divisa e diversa, costruendo faticosamente le ragioni di una comune convivenza basata sulla fiducia e l’accettazione dell’altro. Non è dunque solo una questione di “femminismo” (nelle cui file la Maraini -come detto sopra- ha a lungo militato) questa sua insistenza su delle donne, tutte individualmente e puntualmente citate nei suoi articoli, e con i loro specifici ”casi”. E’ un problema oggi “globale”, planetario, di democrazia reale, di sviluppo equo, di effettiva “crescita di civiltà” contro l’assalto di nuovi oscurantismi. E se a denuncia e risarcimento dei silenzi e delle colpe del passato contro il mondo femminile viene fuori dalle sue pagine anche la positiva scoperta che in Cina nel millennio scorso le donne si erano inventata e avevano utilizzato una scrittura segreta, il Nushu (in cui i caratteri tradizionali cinesi non erano usati come segni fonetici), per raccontare nei loro diari e lettere i dolori e le mortificazioni della loro condizione: matrimoni forzati, segregazioni, violenze, umiliazioni, lo sguardo della scrittrice non trascura altre grosse questioni a valenza internazionale. I sempre attuali pericoli, ad esempio, dell’atomica dopo gli incidenti nel 1999 nelle centrali nucleari del Giappone (e oggi possiamo aggiungervi le centrali a grosso rischio in Ucraina per la guerra in corso). Dalle semplici perdite inquinanti -rileva la Maraini- che possono già verificarsi in un semplice trasporto di plutonio fino a quelle vere bombe ad orologeria che sono pure le scorie atomiche collocate in contenitori sepolti in fondo al mare o nelle viscere delle miniere, per non parlare degli arsenali militari e della proliferazione di testate nucleari in mano a dittatori (le continue minacce di Putin) e dittatorelli come Kim Jong-un definito dalla scrittrice -in un articolo del 26 settembre 2017 apparso sul Corriere della sera- un piccolo tronfio bambino malato di onnipotenza, articolo in cui si augura di non assistere di nuovo agli orrori visti da bambina in Giappone quando la gente scappava da Hiroshima portandosi dietro i cadaveri bruciati dalla bomba H. Critica inoltre la Maraini l’ingiusta sopravvivenza in molti Stati della pena di morte, sin dal ‘700 definita e marchiata da Cesare Beccaria come una forma di “assassinio pubblico” (Parmi assurdo che le leggi… che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime…), e la persecuzione tuttora sul pianeta di varie minoranze etniche (in Birmania, Iran, Cina…) o segnala la loro progressiva scomparsa sull’onda del ricordo degli Ainu, l’etnia dalla “pelle bianca” studiata in Giappone da suo padre Fosco negli anni Quaranta a Sapporo, ora ridotta a poche centinaia di vecchi, realtà etnica declinante che la spinge a parlare del degrado morale dei Pigmei osservato da lei in un suo lontano viaggio in Africa con Moravia e Pasolini. Pigmei ridottisi a buffoni -dice- per i turisti o a mendicanti, loro che erano creature della foresta e bravi cacciatori, ma le foreste regrediscono ovunque -denuncia- erose con i loro animali da nuove piantagioni, nuove strade, nuove coltivazioni intensive.
In contrasto, e proprio per contrastare tutto il negativo finora elencato, risaltano invece in molte pagine la simpatia e l’entusiasmo della Maraini per ogni Convegno o Festival (a Tokio, Calcutta, Jakarta, Kuala Lumpur, Istanbul…) che radunano scrittori di nazionalità diverse (anch’essi puntualmente citati con i loro nomi), incontri nei quali viene riaffermata la necessità/forza della “scrittura” come resistenza contro tutte le armi e fondamentale testimonianza della verità. Il testimone -incalza la scrittrice- racconta i fatti nei particolari che la Storia spesso trascura e quei particolari sono il sale della letteratura. Non tralascia pertanto occasione per sottolineare e lodare le iniziative dei vari Istituti di Cultura italiana presenti in Asia, o delle Ambasciate italiane (Pechino, Tokio, Seul, New Delhi, Istanbul, Hanoi…), che movimentano studenti, professori, autori e pubblico, tenendo vivi la conoscenza e l’interesse per il nostro paese, la nostra cultura (moda, cinema, musica d’opera, cucina…), la nostra letteratura e lingua, verso cui molti orientali sono attratti. L’interesse ad esempio -sottolinea- dei cinesi per i nostri L. Pirandello, Elsa Morante, I. Calvino, C. Sgorlon… Una lingua melodiosa è l’italiano, ha detto una volta alla scrittrice in viaggio nel Sud-est asiatico, e in un italiano compito e gentile, una ragazza dagli occhi a mandorla e dai capelli nerissimi, e la Maraini, precisando che in alcuni paesi sono in aumento le scuole e gli studenti di italiano e che all’estero l’Italia è avvertita come una grande potenza culturale (non economica, si badi, non militare, non industriale, ma culturale) si chiede se non siamo solo noi a disprezzarla [la nostra lingua] e maltrattarla, infarcendola di parole inglesi, trascurandone la bellezza e la capacità di adattarsi con intelligenza e originalità alle novità tecnologiche. Ma l’ottica del vero scrittore, pur nel rispetto della propria tradizione nazionale, oggi resta -precisa la scrittrice- (e non può non esserlo) “planetaria”, come emerge dal messaggio implicito nell’orgoglio di sentirsi istanbuliani della scrittrice turca Buket Uzuner e dello scrittore ebreo Mario Levi, due intellettuali portatori in sé di radici culturali diversissime e ataviche, e capaci di armonicamente mescolarle: radici romane, bizantine, ottomane, greche… come se Istanbul, -conclude la Maraini- questa città così bella, che si affaccia sulle acque placide percorse in lungo e in largo da imbarcazioni che lasciano scie rosate su un’acqua dalle scaglie d’oro, fosse il centro del mondo. Ma ogni angolo del pianeta può essere ed è “il centro del mondo”, non solo perché la cultura come strumento di dialogo e di conoscenza unisce popoli e individui, ma anche perché tutta l’Umanità ha una unica radice.