La commedia romana togata
Nella tragedia il tentativo di portare sulla scena argomenti romani aveva dato origine alla tragedia praetexta, che però aveva avuto mediocre fortuna. Nella commedia i nuovi drammi borghesi di argomento latino presero nome di togatae, dal costume con cui i comici li recitavano, non più vestiti del pallio greco, ma della toga romana.
Ed ebbero fortuna maggiore delle praetextae; giacché questo genere di commedie ebbe tre autori di grido: Titinio, Atta, Afranio, di cui sono rimasti titoli e frammenti assai brevi di una settantina di commedie.
La togata, naturalmente, non poneva più la scena in Grecia, come la palliata, ma in Italia: e così tutta l’Italia viveva sul teatro, come appare dai titoli:
Le donne di Brindisi (Brundisinae) di Afranio
La donna di Velletri di Titinio
La citarista, ovvero la donna di Ferentino (Psaltria sive Ferentinatis) di Titinio
E con le terre italiche le magistrature:
La commedia degli edili (Aedilicia) di Atta
L’Augure di Afranio: i mestieri, onde tali commedie erano anche dette tabernariae:
Il parrucchiere delle cortigiane (Cinerarius) di Afranio
La commedia dei lavandai (Fullonia) di Titinio
La flautista di Titinio; le nuove manie di emancipazione:
L’avvocatessa (Iurisperita) sempre di Titinio.
Della vita di Titinio non sappiamo nulla; neppure una data. Verrone lo poneva, con Terenzio e Atta, fra i tre comici che meglio seppero rappresentare i caratteri.
Nella Gemella era una sposa terribile:
“S’egli una scampagnata con l’amante/ Si propone di fare, io sotto chiave/ Fo metter la sua toga campagnola …/ Piazza pulita ho fatto in casa mia/ Di parassiti; io, si, gli ho tolto l’uzzolo/ Di andare dà mezzani, e a far cenette/ Senza il permesso mio e beneplacito”.
Un’altra, poverina, persuasa di avere poco fascino naturale, si confortava nella speranza che giovasse, in compenso, il buon carattere:
“Se antipatica sono pel mio volto/ A mio marito, spero di piacergli/ Con le buone maniere, forse, un giorno”.
Di T. Quinzio Atta sappiamo da San Gerolamo la data della morte, il 77 a.C.; e che, morto a Roma, fu sepolto sulla via Preneste. Della sua opera non rimase che una ventina di versi e una dozzina di titoli. Una sua commedia, Aquae caldae, doveva trattare un tema di moda, una stazione balneare: quei luoghi di cura erano frequentati dalle donnine allegre che cercavano di sembrare, per il vestito, delle donne oneste; così il lamento delle matrone:
“Vestite da matrone vanno intorno/ Degli uomini alla caccia le donnine”.
Il maggior poeta della togata è invece Afranio, di cui c’è rimasto qualcosa di più: i titoli di oltre quaranta commedie, e frammenti di più di 420 versi. Velleio lo definisce un contemporaneo di Terenzio e di Stazio Cecilio, non meno che di Accio.
Orazio (Ep.,II,1,57) riferisce l’opinione secondo cui “la toga di Afranio sarebbe convenuta a Menandro”. Dai frammenti pare invece che Afranio fosse massimamente, come Terenzio, un comico d’interiorità d’anime. Mite era la sua filosofia, come quella di Menandro e di Terenzio, dei quali riprendeva le riposate meditazioni sceniche:
“Desiderare troppo, perché mai?/ Il soverchio a nessuno fa mai bene”.
Anche lui stava, come Terenzio negli Adelphoe, per l’educazione alla moderna; per l’educazione indulgente:
“Dei genitori, i figli, han poco cara/ La vita, allora ch’essi più che amati/ Esser temuti vogliono dai figli”.
Del Figlioastro (Privignus), un breve frammento ci rivela un figlio dell’anima terenziana:
“Oh, se tanto mio padre non l’amassi/Sarei sdegnato, in quello ch’è pur giusto,/ Contro di lui!”.
Anch’egli illuminò dunque la scena romana della sua bontà intelligente e della sua umanità pensosa, da cui vengono osservazioni di fine classicità:
“ Sa amare solo il saggio; gli altri bramano”.
Oppure:
“È bella la ragazza; e mezza dote/ È di già questa; o almeno così pensano/ Coloro che alla dote non ci tengono”.
E qua e là tocchi di umanità:
“ Se gli uomini coi filtri si prendessero,/ Le vecchie avrebber quanti spasimanti!/ Che! Gioventù, freschezza, un buon carattere,/ I filtri sono questi delle belle:/ Sciagurata vecchiezza, non hai fascini!”.
Giovanni Teresi