“L’umanesimo barocco di Vincenzo Consolo” di Maria Nivea Zagarella

Ricordare Vincenzo Consolo a poco più di un decennio dalla sua morte (21 gennaio 2012) significa riaccenderne, utilmente forse oggi, i miti suadenti, le provocanti allegorie, il monito ironico e lancinante, l’invettiva sanguinosa, lo scarto visionario, il cuneo razionale. La sua produzione letteraria, qualitativamente densa ma esigua quanto a numero di opere (era molto lento nello scrivere), si rivela monotematica, avendo i suoi testi, fin dal romanzo giovanile La ferita dell’aprile, come argomento ricorrente e totalizzante la Sicilia. Le ragioni vanno oltre i ricordi autobiografici legati alle sue Eolie, alla casa dell’infanzia, alle sorelle, alla madre, ricordi consegnati fra l’altro alle pagine de L’olivo e l’olivastro. Ad apertura del racconto Comiso, ne Le pietre di Pantalica, dove documenta una manifestazione giovanile pacifista contro l’installazione dei missili Cruise (in uno striscione si leggeva: vogliamo vivere, vogliamo amare, no alla guerra nucleare), lo scrittore precisa che ogni volta che tornava in Sicilia aveva una voglia/smania di percorrerla tutta, ogni lato, ogni punto della costa, di inoltrarsi nell’interno, di sostare in paesi e città, villaggi e luoghi sperduti: Sospetto -scriveva- che sia questo una sorta di addio, un volerla vedere e toccare prima che uno dei due sparisca, cioè muoia. Una morte fisica e ideale! Paura di perdere la sua isola e di perdersi, ma anche paura che la “sua” stessa isola potesse perdersi e con lei l’uomo, la generazione attuale. La Sicilia insomma come metafora dello spasimo del mondo, della profonda crisi storica e esistenziale del nostro tempo, una crisi comprensiva del disastro specifico del territorio/regione Sicilia e, estensivamente, del disastro della nazione/Stato Italia e della cosiddetta “modernità occidentale” dagli orizzonti vitali ormai tanto ferocemente decaduti, rovesciati, alienati. In un altro racconto (Malophòros) de Le pietre di Pantalica, che vede protagonisti Ignazio Buttitta e lo stesso Consolo, la nipote di Buttitta, riflettendo sulla vitalità e l’equilibrio dei due vecchi zii ottantenni (Buttitta e la moglie Angelina) nonostante la deriva cruenta dell’isola, si chiede se sono loro i vecchi che si sono staccati da tutti per vivere una loro vita che -dice- noi non capiamo o se siamo noi a esserci staccati da loro, a essere caduti… e conclude …ma c’è un punto nella vita in cui bisogna decidere, se staccarsi dagli altri o se precipitare con gli altri…Il problema dunque è “scegliere”: staccarsi o precipitare, scegliere la morte, ciò che ci imbestia e che, con linguaggio poetico, lo scrittore nel dramma Empedocle chiama buio della mente, notte della vita, oppure scegliere la vita, scegliere, e ancora una volta con poetica metafora, la chiarità solare, la luce razionale, in altri termini l’umano, ciò che ci fa uomini. Da una parte il Ciclope, il popolo cannibale dei Lestrigoni, le occulte branche tentacolari dei mostri Scilla e Cariddi (mostri interiori e pericoli esterni che insidiano il viaggio di Ulisse nell’Odissea), dall’altra la “civile convivenza”, il tempio -annota Consolo ne L’olivo e l’olivastro- di democrazia. “Tempio” si badi, non bordello (democrazia/bordello) o farsa (democrazia/farsa), perché allora scatta la fragorosa risata dello scarparo anarchico Pianciamore, che nel racconto Il fotografo ride clamorosamente con gli altri suoi amici anarchici della lista dei fascisti da perseguire consegnata sì agli alleati, ma compilata da fascisti che hanno velocemente cambiato casacca, rinnovando, come osservano pure i popolani del racconto Lo Sherman, la vecchia alleanza/colla di baroni, proprietari, alletterati con i vincitori del momento per fottere i villani, i contadini, alias i poveri, i deboli, gli inermi di ieri e di oggi, e fottere con loro i giusti, cioè gli onesti servitori della legge e dei diritti di tutti, quali giudici, magistrati, funzionari di frontiera (Dalla Chiesa, Ciaccio Montalto, Falcone, Borsellino…).

La frattura esistenziale (Ma se malinconia è la storia, l’infinito, l’eterno sono ansia, vertigine, panico, terrore) e le innumerevoli fratture/perdite di fasi più o meno recenti della storia italiana e siciliana fanno dunque della Sicilia il “soggetto ossessivo” dell’immaginario di Consolo e l’“oggetto liberatorio” necessitato del suo “narrare”, un narrare impegnato, sempre moralmente e civilmente compromesso. L’incantevole isola, che in figure, in ossessione mi viene… si legge nel racconto il Teatro del sole, dove attraverso la splendida piazza dei Quattro Canti di Palermo si materializza una allucinata, onirica, sfilata storica: dal fulgore abbagliante dei periodi arabo, normanno, svevo, ai tempi ferrei degli Spagnoli e del Tribunale dell’Inquisizione, all’alito fresco, clemente del riformismo del Viceré illuminato marchese Caracciolo subito cancellato dalla caligine fosca dei fumi dei roghi delle masserizie e degli indumenti degli appestati in processione dietro le reliquie di Santa Rosalia, caligine che, per la sensazione di incubo e soffocamento che crea, prelude all’impatto fisico reale del viaggiatore-Consolo col malavitoso locale, in canottiera e pagnotta sgocciolante di olio nella mano, il quale inveirà contro lo schiamazzo di sirene, clacson, sgommate degli sbirri di scorta ai giudici, e proporrà untuoso e arrogante al forestiero sfizio (alias capriccio) di cassette, cipria pel naso (droga) o puramente, che so?, picciotte, carusi… Quanto detto fin qui fa capire il perché della reiterazione del tema del “viaggio” in tutte le opere dello scrittore, viaggio dei personaggi (l’ottocentesco barone Pirajno di Mandralisca ne Il sorriso dell’ignoto marinaio, il settecentesco cavaliere pittore don Fabrizio Clerici in Retablo, i contemporanei Petro Marano in Nottetempo, casa per casa, e Gioacchino Martinez ne Lo Spasimo di Palermo, maestro l’uno, scrittore l’altro) e i viaggi dello stesso Consolo da un angolo all’altro della Sicilia. Sullo sfondo il modello archetipico e letterario, il viaggio di Ulisse, l’Odissea, poema letto da Consolo quale viaggio di espiazione e di catarsi per l’eroe Ulisse, “esperienza”, per chi aveva ucciso e inventato il primo mostro tecnologico, la prima arma sleale (il cavallo di legno), ad un tempo penitenziale e di acquisizione di una consapevolezza maggiore di sé e della realtà, sì da potere affrontare alla fine “i Proci” e sconfiggerli, ritrovando l’armonia perduta. Ma il “viaggio conoscitivo” di Consolo, esule errante attraverso i suoi personaggi o la sua “personale” verifica sul campo, registra in itinere, e nella fase estrema, solo un più di perdite e di fallimenti: il Toro -dirà alla fine-  regna a Cnosso, cioè in Sicilia, in Italia, nel mondo, e nessun Teseo giunge per riscattare l’Atene civile dal sacrificio barbarico di ogni decenza e dignità offerte in ciclico e cruento tributo al Minotauro. Il sogno umanistico/esistenziale del “riapprodo a Itaca” è pertanto costretto a rifugiarsi nel passato, nella “memoria” di tutte quelle tracce (sopravvissute attraverso l’archeologia, l’arte, la letteratura) di più umane civiltà e fasi storiche in cui il mero istinto animale di sopravvivenza dell’uomo è riuscito a trascendersi, nobilitarsi, innalzandosi a passione spirituale: politica, morale, religiosa. Tracce che rischiano di scomparire proprio perché troppo dissonanti rispetto al nostro oggi così crassamente utilitaristico, cinicamente violento, sfacciatamente corrotto, allegramente ignorante… E torna utile ricordare a questo punto la risposta data dal barone Mandralisca all’ottuso duca D’Alberi, quando chiedendogli il duca: << A chi sorride quello là>>, indicando l’ignoto personaggio del quadro dipinto da Antonello da Messina, il barone gli risponde che sorride <<Ai pazzi allegri come voi, come me, agli imbecilli>>.

A salvare le pericolanti tracce di culture e civiltà di cui si diceva interviene la “parola”, la “scrittura”, una scrittura sui generis, iperletteraria e barocca, quale appunto quella di Consolo, non mercificata, non banale, i cui eccessi e giochi formali vogliono programmaticamente distanziarsi dal linguaggio omologato dell’uso corrente, per fare “inciampare” il lettore nelle proprie stranezze. Profluvio di antitesi, enumerazioni, arcaismi, tecnicismi, dialettismi, soprattutto sicilianismi, neologismi, artifici metrico-ritmici, metafore ardue, scarti visionari, desueti preziosismi verbali, ricorso alle lingue morte (latino e greco) e a quelle straniere (inglese, francese, spagnolo), spingendosi talora l’autore, come nella favola teatrale Lunaria, fino al non-sense, il tutto non con finalità ludiche e di puro divertissement estetico-letterario, piuttosto come recupero diacronico di una “memoria storica” anche linguistica e come strategia mirata di tesa espressività (vedi più avanti la furia verbale, dissonante di Martinez giovane scrittore prima del “silenzio”) atta a “imbrigliare” il lettore, provocandolo a fermarsi, a riflettere, a sviluppare coscienza critica riguardo a un presente involuto, vischioso, acquitrinoso. <<Sembra non ci sia più scampo alle paludi -riflette il Consolo/Fabrizio di “Retablo”-  ai naufragi invisibili, obliati. Non resta che il silenzio, il vuoto, una statua riversa dentro l’acqua>>, sequenza in cui il simbolismo equoreo-eracliteo secondo la lezione di Lucio Piccolo immette il dramma storico negli eterni cicli cosmici di vita/morte/vita. Perciò il martellamento di interrogazioni ne L’olivo e l’olivastro del tipo: Cos’è successo nell’isola, nel paese in questo atroce tempo? Cos’è successo a colui che qui scrive, complice a sua volta o inconsapevole assassino? Cos’è successo a te che stai leggendo? O il misterioso, espressivo, dialogo onirico che avvia il pregnante corsivo lirico introduttivo dell’ultimo romanzo Lo Spasimo…(1998): Allora tu, i doni fatui degli ospiti beffardi, l’inganno del viatico… ed io voce fioca nell’aria clamorosa…. Un gioco esasperato di luci e ombre, più poetico che prosastico, e una altrettanto esasperata nominazione, in tutte le opere, di alberi erbe animali luoghi paesi vie monumenti cibi, e una altrettanto accanita citazione implicita o esplicita (sul modello del filone del postmoderno non nichilista) di libri autori versi artisti quadri statue reperti d’arte. Un procedere che, mentre evidenzia le opposizioni, la disarmonia, la frattura esistenziale, donde anche le allegorie a doppio binario della lumaca, del labirinto, dell’olivo e dell’olivastro, esprime il disperato tentativo (di barocca ascendenza) di una presa di possesso del “reale”, come a volerlo tattilmente bloccare, dato che si è reso troppo torbido e sfuggente, sempre sul punto di scivolare nel caos, nel selvatico (appunto l’olivastro), nell’informe. Nel punto focale di questo acuto conflitto fra angoscia di morte e ansia di vita sta la Sicilia, terra antica degli dei, delle arti, delle conquiste e disastrosi avanzi, un’isola che, pur collocandosi con le vestigia del suo glorioso passato alle origini stesse della civiltà e della storia del Mediterraneo (necropoli di Ispica, Pantalica, rovine di Mozia, Segesta, Selinunte, ricca stratificazione culturale di città quali Augusta, Siracusa, Caltagirone, Palermo, Cefalù) è venuta nei secoli sempre più decadendo per la fame e la schiavizzazione dei ceti popolari, le prevaricazioni baronali e clericali (il Sant’Uffizio de Il teatro del sole e di Lunaria), per le lunghe e pervicaci ingiustizie statuali, violenze della mafia, saccheggio e degrado del territorio, involgarimento generalizzato del costume: sagome cave che vanno, convergono verso sterili lande, Josafat di vuoto, d’assenza, d’incoscienza (le folle di Acitrezza ne L’olivo e l’olivastro). Emblema la Sicilia nel suo sfacelo per Consolo della decadenza generale di tutta l’alienata feroce Italia nata dal dopoguerra, Italia del massacro della memoria, della identità, della decenza, della civiltà. (E che direbbe oggi, in questo nostro 2023?) E il suo rigoroso scandaglio storico da Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) a Il corteo di Dioniso (2009), scende pertanto nello specifico, accentuando negli anni il pessimismo, come risulta da un veloce excursus delle sue opere più note, a cominciare dal romanzo d’esordio La ferita dell’aprile (1963).  

In una intervista del 2009 lo scrittore, citando Pirandello, ebbe a dire che noi siamo i primi nove anni della nostra vita, marcando implicitamente il lungo, viscerale, legame d’amore, memorie, pensiero/inchiesta con la “terra” di Sicilia, evidente già ne La ferita dell’aprile, romanzo incunabolo dell’impegno e della ricerca dei testi successivi. In esso il Consolo esordiente, mimetizzato in un adolescente siciliano dei primi anni della guerra fredda, svolge a ritroso il nastro della memoria isolana, per ritrovare la ferita/sguardo di un lontano adolescenziale aprile, realistico e metaforico, soggettivo e storico a un tempo. Tra sicilianismi morfosintattici lessicali gergali da un lato, preziosismi letterari e delusa riflessione esistenziale dall’altro, il protagonista del romanzo, che era andato a studiare quale ragazzo di montagna gallo-italico in un paese sul mare, ricostruisce i momenti vissuti come allievo esterno della scuola e dell’oratorio di un importante Istituto religioso, e tratteggia i compagni più intimi: Tano figlio dell’ex podestà, Costa figlio dell’ex custode della camera del fascio, Filippo figlio di un antifascista di sinistra, Seminara un ragazzo ultrapio. All’io-narrante e ai suoi giovani amici, ai loro casi piccoli o grandi, fanno da sfondo il ristretto ambito familiare e paesano e i ritmi dell’Istituto, che con le sue scadenze liturgiche (riti natalizi e pasquali), ore di lezione, attività varie (giochi, teatro, gita) e iniziative di carità (refezione per i ragazzi poveri, pacchi della San Vincenzo) scandisce il succedersi dei giorni, in un contesto segnato dalla propaganda anticomunista e dall’attivismo elettorale di laici e preti per la Dc, dalla separazione fra civili e bastasi, dalle ambiguità del movimento separatista siciliano, dalla strage di Portella delle Ginestre (li buttò riversi… una rosa maligna nel petto e nella tempia), eventi il cui importante significato politico-sociale non sfugge allo sguardo perplesso del protagonista. Del gruppo di ragazzi il più infantile è Costa; il più integrato Seminara che -dice Filippo- è tutto gesù madonne e taliano e sceglierà infine di farsi prete; il più grande, sui sedici anni, Filippo, che trasgressivo e ribelle (fuma infatti e ha frequentazioni sessuali) possiede un fermo credo egualitario e una indole cristallinamente onesta ma, puntato in più occasioni dal sorvegliante, sarà espulso dall’Istituto; il più pratico Tano (gli piaceva la vita senza tanti sospiri e succhia l’anima) che calcola già a puntino, e in prospettiva, case e terre della figlia dell’avvocato Sciacchitano. Quanto all’io-narrante (Consolo), frequenta più volentieri Filippo, scopre i primi tremori e il disinganno in amore, coglie scettico/ironico i limiti di un certo tipo di religione e di scuola (certi giorni mi pare una bottiglia, una culla di bimbo), subisce la morte tragica dello zio/padre, fiero lottatore travolto dall’inondazione con tutta la sua partita grossa di verdelli, verifica dolorosamente in sé, e attorno a sé, l’inconcluso problematico divergere dei destini individuali nelle vie oscure della vita. Vie per le quali lo scrittore si metterà nei libri a seguire, coltivandosi dentro con tenacia una sorta di “fiaccola” mai arresa di disperazione, da Nottetempo, casa, per casa, dove per esempio leggiamo: Ogni astro, ogni tempo rinasce alle scadenze, agli effimeri… al “tu” fantasmatico e errante del già citato corsivo lirico di Spasimo: Avanzi in corridoi di ombre, ti giri e scorgi le tue orme… Ricerca nel solaio elenchi mappe, riparti dalle tracce sbiadite…t’assolva la tua pena, il tuo smarrimento.

 Se ne Il sorriso dell’ignoto marinaio la repressione del moto contadino di Alcàra Li Fusi nel 1860 rinnova la denuncia meridionalistica di Verga, De Roberto, Pirandello, essa è controbilanciata nel testo dal gesto illuministico e di speranza del barone Mandralisca, che avendo capito e condividendo le ragioni della rivolta degli alcaresi, la giusta rivendicazione dei diritti elementari del pane della terra della salute dell’istruzione…  (diritti tutt’oggi negati a livello planetario ai molti) destina i suoi beni e la sua casa a una scuola per i figli dei popolani, perché questi possano domani scrivere da sé la loro storia, anzi la storia, senza passare attraverso la mediazione sempre più o meno deformante e interessata dell’intellettuale borghese. Nei testi successivi però, Nottetempo, casa per casa (1992), Le pietre di Pantalica (1988), L’olivo e l’olivastro (1994), Lo Spasimo di Palermo (1998), il quadro vitale si incupisce, trascorrendo l’autore dalle prime violenze fasciste a Cefalù, Palermo, Catania negli anni Venti, preparatorie dell’avvento del regime, al fallimento della riforma agraria e del movimento cooperativo contadino nel dopoguerra (racconto Ratumemi); dall’avvelenamento industriale a partire dagli anni ’50 dei litorali di Augusta Priolo Melilli Siracusa Gela Milazzo agli incendi dolosi in tutta l’isola, dalle falde dell’Etna a Tindari a Segesta, al controllo (attraverso il continuo ricorso al tritolo e ai kalashnikov) da Trapani a Palermo (macelleria e carnezzeria a cielo aperto) di logge e cosche sul cemento, la droga, le ricostruzioni post-terremoto. A tutto questo orrore lo scrittore oppone il sogno letterario, classico- archeologico, di don Fabrizio Clerici, che è anche il sogno di Consolo, se dopo Retablo vi torna ne Le pietre di Pantalica e ne L’olivo e l’olivastro quasi con le stesse parole. “Luoghi sacri” sono quei due siti archeologici: Fabrizio bacia appena arrivato la terra del Selìno, sacra per tanta vita e tanta morte umana. Quelle rovine (ruine della storia) testimoniano i limiti costituzionali dell’uomo, creatura effimera e caduca rispetto all’eterno (i chiodi eterni del mistero), fragile di fronte alle immani catastrofi naturali, vittima dei suoi stessi istinti aggressivi. Tuttavia ciò che in quelle strutture architettoniche e reperti figurativi persiste di “imponente” e di “armonico” conferma anche la capacità dell’uomo di darsi “regole” e “valori”, la capacità di sapere cogliere il respiro misterioso e sacro della vita, tentando di rendersene degno con le sue opere, instaurando rapporti armonici con i suoi simili e con la Natura madre divina, Malophòros, appunto nutrice. Ma fuori dal sogno umanistico l’approdo realistico di Consolo non sarà “Itaca”, ma la sconfitta di Chino Martinez, alter ego dell’autore e protagonista de Lo spasimo. Lo esemplificano tutte le sue vicende e la lettera/confessione al figlio Mauro esule in Francia per accusa di terrorismo, vicende e lettera che rappresentano una sorta di consuntivo/testamento dell’avventura umana, esistenziale e letteraria di Consolo. Nella lettera al figlio, che, ostile all’inganno della letteratura e restio a rimanere inerme e complice dell’odierno tempo feroce, disumano, si era calato, in metaforico parricidio, nella fase idealistico-rivoluzionaria del movimento sessantottino prima della degenerazione di quello in lotta armata, Chino scrive che anche lui, Chino, aveva compiuto in quegli anni il suo ideale parricidio col trasferire il proprio bisogno di rivolta nella “scrittura”, nella scelta cioè del “narrare”, e del narrare in un tipo particolare di “lingua”, non fiduciosamente e piattamente comunicativa, per non sentirsi complice dei responsabili del disastro sociale italiano e siciliano dal dopoguerra in poi, una sorta -invece- aveva scelto di furia verbale, dissonante, sfociata tuttavia in urlo e silenzio: Ho fatto come te, se permetti, la mia lotta, e ho pagato -scrive a Mauro- con la sconfitta…l’abbandono della penna.

La “sconfitta” emerge dal dipanarsi delle vicende biografiche di Chino che, passato da bambino attraverso l’esperienza diretta della II guerra mondiale e costretto dalle intimidazioni del costruttore mafioso, antico ricattatore della sua famiglia, a cedergli casa e terreno andando via dalla Sicilia, ha sperato invano di rifarsi una “patria” nella civile Milano, illusoriamente mitizzata nel desiderio e attraverso la letteratura come la città di un progresso libero e razionale, la città del connubio “civiltà/luce di ragione”. Si ritroverà invece alla fine fra due vuoti, fra due abissi. L’Ulisse Consolo/Chino salpato dalla periferia (Sicilia) verso la patria ideale, “la Milano” della diaspora intellettuale siciliana (Verga, Capuana, De Roberto, Quasimodo, Vittorini, Sciascia), e di Manzoni, Montale, Gadda, Sereni, terra sperata del rigore, probità, orgoglio popolare, impatta al contrario nella Milano attuale, contemporanea, che anticipata in Retablo come la città mercatora che -diceva già “esplicitamente” allusivo Fabrizio Clerici-  aveva fede solo nel danaro, e dove impera[va]… il ciarlatan, il falso artista, il governante ladro, il prete trafficone, diventa ne Lo Spasimo… più crudamente e direttamente la Milano del terrorismo e della strage di Piazza Fontana, la città della diossina e delle squallide orde del sordido interesse commerciale e dell’intolleranza razzista (e leghista), luogo di coltura dell’industria culturale e della TV spazzatura (stadio della merce e del messaggio, video dell’idiozia e della volgarità), nuovo lazzaretto di sbandati, emarginati, barboni, immigrati, drogati, che Consolo chiama gli stanziali dei margini, perfettamente speculari al Nord e nelle odierne periferie urbane di tutte quelle altre folle doloranti e merdose già ritratte nelle precedenti pagine narrative di ambientazione siciliana in porti, cale, vicoli, fiere, pellegrinaggi, processioni di appestati o di sfollati, che restituiscono, gli uni e le altre, il rovescio della medaglia, smascherano il falso progresso, sono la terrosa schiera, il canto o il silenzio delle rotte senza approdo. Analoga la “assenza di approdo” del personaggio Chino che, tornato in Sicilia per concludervi la sua esistenza, impatta nell’altro tragico “vuoto”, l’isola perduta, l’Itaca dannata, delirio del barocco, buio della ragione, nella quale il sorriso dell’Ignoto, ritratto da Antonello, sorriso già ironico e demistificatorio eppure ancora proiettato nel libro del ‘76 verso il futuro, si è definitivamente scomposto, e in climax ascendente, in sarcasmo, ghigno, urlo. E’ la Sicilia del morto ammazzato e murato proprio nel pilone della nuova casa che egli era stato costretto a barattare col palazzinaro mafioso, la Sicilia dell’assassinio di Borsellino che salta in aria con gli uomini della scorta proprio sotto gli occhi di Chino, sotto la “sua“ casa. Quale la conclusione dello scrittore Consolo dinanzi all’ennesima uccisione di un giudice, che in un Paese dove tutti -scrive- ci impegniamo, governanti e cittadini, ad eludere le leggi, a delinquere, proprio perché vuole applicare le leggi, appare ai più come un giustiziere insopportabile da escludere, rimuovere. O (peggio) da uccidere? Il Toro -conclude Consolo- regna a Cnosso, alias -ripeto- in Sicilia, in Italia, nel mondo, se si valutano anche l’attuale geopolitica e guerra in Ucraina, e crisi ambientale e climatica, e l’ultima strage di migranti proprio presso Pylos nel Peloponneso. E nessun Teseo - rimarchiamo ulteriormente- pare giungere per riscattare l’Atene civile, cioè quel poco che ancora di essa sopravvive nel fondo della coscienza contemporanea, dal “sacrificio” quotidiano di ogni scampolo di umanesimo intellettuale, morale, civile e sociale (si pensi ai  tanti, troppi, sedicenti influencer e youtuber !) offerti invece in tributo a nuovi mitici orridi Minotauri. Nel presente esilio storico-esistenziale “senza approdo”, o meglio, per usare la terminologia dello scrittore, in questa odierna Tauride barbarica dell’esilio e dell’offesa di ogni umana identità e civiltà, non c’è per Consolo altro possibile radicamento che nella memoria (memoria del passato) e nella parola (la “parola poetica”), non svenduta, non involgarita, non svuotata e azzerata di significanza e di storia, anzi di estrema “densità” per affrontare, o almeno solo per non lasciarsi sommergere, senza lottare, dai marosi montanti del disumanesimo e dell’imbestiamento. Perciò all’uccisione di Borsellino segue in Spasimo l’urlo muto in versi popolari siciliani del fioraio casualmene sopravvissuto all’attentato: O gran manu di Diu, ca tantu pisi,/ cala, manu di Diu, fatti palisi. La purezza incontaminata, antica e radicata, della nostra lingua siciliana viene recuperata da Consolo come stigma residuo e indomito di libertà interiore e di “umanità”, oltre che quale segnacolo di perentoria (sic!) attesa di giustizia.

Concludendo, una parola “in barocco” è quella di Consolo così intrisa di pathos autobiografico,  attualizzanti simbologie mitologiche, sofferte ragioni storiche e allucinate liriche figurazioni, da suonare tuttora attuale e vitale soprattutto per chi, come siciliano e come uomo, voglia interrogarsi su quale delirio/follia di morte o di vita oggi ci possegga.

 

 

 

 

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